Denver Nuggets

Alla ricerca delle pepite d’oro

A partire dal 1848, negli Stati Uniti si sviluppò la celeberrima corsa all’oro: dopo la scoperta di mister Marshall del fondo così luccicante dell’American River, reso tale dalle pepite presenti, grandi furono i flussi migratori dei ricercatori che si spinsero al setaccio delle ricche zone ad Ovest del Mississipi fino ad Alaska e Yukon.

Le mete principali furono California e Colorado; sulle Montagne Rocciose della seconda, però, la ricerca era più complicata, con l’oro a trovarsi in zone molto più impervie, dove l’altezza raggiungeva oltre 3000 metri.

Di simile tortuosità è la situazione che vivono in questi ultimi anni i Nuggets, il cui nome si ispira proprio alla celeberrima corsa alle pepite dorate. Superata l’era-Melo Anthony e il suo prologo (ovvero la stagione, prima senza il newyorkese ma con il campione preso al suo posto, Andre Iguodala, a sospingere il team), con la conquista del terzo seed ad Ovest ma la consueta uscita dai playoffs al primo turno (la nona nelle ultime 10 stagioni), l’idea fu di ricostruzione totale con la rimozione di George Karl dalla guida tecnica e l’assunzione nel front office dell’ottimo GM Masai Ujiri, fresco di premio di Executive of the Year.

La primissima ricostruzione, fatta come logico di tante sconfitte (propiziate anche da una lunga serie di infortuni) era riuscita a convertire al meglio gli assets accumulati, pescando nel tardo primo giro del draft con la sedicesima pick Jusuf Nurkic e con la diciannovesima Gary Harris, oltre a scommettere nel secondo giro sul ragazzone sovrappeso proveniente dalla scuola serba, Nikola Jokic.

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La fase successiva diventa quella delle scelte: in un roster che può contare su due potenziali starter per ruolo, bisogna cominciare a risolvere gli interrogativi per non rimanere nel limbo. Stabilire un ruolo preciso, chiarendo le gerarchie, permette difatti ai più giovani di avere certezze per mettersi alla prova, invece di poter dare sfoggio alle proprie qualità alternativamente e magari con la paura dell’errore; inoltre, tramite pacchetti composti da più giocatori, con l’incastro giusto si cerca una superstar ad aumentare la qualità a disposizione.

Mudiay/Nelson (senza dimenticare il rookie Jamal Murray) , Harris/Barton , Chandler/Hernangomez , Gallinari/Faried , Nurkic/Jokic: in ogni ruolo c’è la sensazione che si possa sacrificare qualcosa, in nome di un greater good.

A metà stagione, allora, arriva la prima scelta importante: riguarda il ruolo di centro titolare, in cui la franchigia vira sullo sviluppo di Nikola Jokic, spedendo Nurkic a Portland in cambio di Mason Plumlee. Se il puro valore dei giocatori coinvolti non sembra equilibrato, considerata anche la prima scelta nel draft 2017 aggiunta dai Nuggets e spedita in direzione Oregon, la situazione contrattuale di restricted free agent di Mason permette di acquisire eventualmente spazio salariale nella prossima stagione; da subito, al posto del talento puro, viene preferito un giocatore chiaramente destinato ad essere un cambio, ma dalle caratteristiche più simili a quelle di Point Center di Jokic. E, se nello scontro diretto fra i Blazers e i Nuggets è il bosniaco a giocare la più classica delle revenge games, con 33 punti e 16 rimbalzi, The Joker esplode: dalla gara del 19/12 contro i Mavericks, oltre alle usuali doti di scorer e rimbalzista di ogni buon centro, rivela con 9 assist (oltre ai 27 punti e 17 rimbalzi) la capacità di passatore di Nikola, che lo porta a concludere la stagione con 6 triple doppie.

Poi la scorsa estate arriva finalmente un All-Star, Paul Millsap. Seppur nome non di blasone assoluto, va a portare esperienza e qualità alla franchigia del Colorado, andando a costruire un duo con Jokic che somma due lunghi in grado di giocare in post tanto quanto uscire fuori dalla linea dei tre punti, e inoltre compensa le lacune dell’europeo, mascherandone le pecche nella metà campo difensiva.

Il mancato rinnovo del Gallo quindi non lascia la squadra in difficoltà, con lo spazio nel cap creato per l’arrivo di un equilibratore per una squadra dal desolante Defensive Rating di 113.43 (penultima nella lega) durante la scorsa stagione, ma consente un calzante upgrade.

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Inoltre, il dualismo in fase di playmaking trova stabilità: il canadese Murray, che aveva trascorso la scorsa stagione in continua crescita, diventa lo starter designato, mentre Mudiay si rivela ottimo in uscita dalla panchina.

Panchina da cui già esce uno dei migliori sesti uomini della lega, con Will Barton ormai calato perfettamente nel ruolo di scorer della second unit (nel medesimo ruolo, 14.4 e 13.7 punti a gara nelle ultime due stagioni); con questo assetto, viene esaltata la versatilità delle ali, con Wilson Chandler e il suo backup Juancho Hernangomez ad essere in grado di giocare in entrambi gli spot di small forward o di power forward in caso di quintetti più piccoli, mentre Gary Harris continua il suo percorso di consolidamento fra i migliori difensori sugli esterni della lega, senza disdegnare contributo offensivo (14.9 punti a gara sinora in stagione).

Coach Malone allora riesce ad impostare totalmente un gioco up-tempo, in cui a far da migliori passatori sono i lunghi. L’attacco è il punto di forza della squadra – settimo Offensive Rating dell’intera lega con 109.4 – che dopo 13 gare si ritrova con un record di 8-5. Nella Western Conference stracolma di All Stars provenienti dalla costa Est, proprio la squadra ad aver preso quello di minor grido risulta essere salda nello spietato giro di squadre in orbita playoff.

Tre gare dopo purtroppo una pessima notizia: proprio Millsap è costretto ad uno stop causa infortunio, con la rottura al legamento del polso sinistro che lo parcheggia ai box. Il rendimento della squadra diventa sinusoidale, con 3 sconfitte e 2 vittorie a partire dalla proprio da quella gara; se nella vittoria del 17/11 contro i New Orleans Pelicans del i ragazzi avevano fissato la miglior prestazione offensiva dell’intera stagione NBA realizzando 146 punti, toccano il fondo realizzandone solo 77 (in pratica la metà) nella sconfitta del 28/11 contro gli Utah Jazz.

Specchio dell’altalena è proprio il rendimento dell’ormai conclamato uomo franchigia Nikola Jokic: nelle vittorie registra 16.6 punti, 12.5 rimbalzi, 5.5 assists e solo 1.8 palle perse a gara in 30.6 minuti in media di utilizzo; i numeri crollano nelle sconfitte, con 2 punti e mezzo circa in meno (14), ma soprattutto più di 4 rimbalzi (8.1) e 2.2 assists in meno (solo 3.3), con aumento di palle perse (2.8, 1 in più) in 27.7 minuti di utilizzo. Particolare che invece si alzi la sua percentuale da 3 punti, che tocca un irrealistico 51.9% (rispetto al 33.3%) in caso di referto giallo.

E’ in quel frangente che le sue lacune difensive allora cominciano a pesare maggiormente, col suo consueto contenimento nelle situazioni di pick-and-roll messo alle corde da un movimento di piedi lento e la decisiva poca grinta messa:

Tempi di reazione lenti consentono un facile canestro al palleggiatore che lo aggira

In questo caso, la poca voglia di sbattersi dona anche un tocco comico alla scena

Sempre che ricordi almeno di muoversi…

 

Dato comunque questo assetto di squadra, il nuovo infortunio ad aver colpito il roster, quello proprio del serbo, sembrava aver messo un pesante freno alle ambizioni dei Nuggets: durante la gara coi Bulls, problema alla caviglia con successiva diagnosi di più gare saltate. Ma le sorprese non finiscono e Denver conquista la gara stessa con Chicago e quella successiva con i Lakers; due vittorie consecutive, sospinte da un Will Barton da 26.5 punti ad allacciata di scarpe e il canestro vincente in un bel finale per aver ragione dei Tori all’ultimo tiro.

Manco a dirlo, altro stop nella notte: sconfitta coi Mavericks per 122-105, in una gara mai in discussione dove i texani firmano la loro miglior prestazione offensiva stagionale. E di seguito quella con i Pelicans.

Insomma, continua il rebus relativo alla corsa all’oro dell’anello di campioni da parte dei Denver Nuggets: saranno prima o poi ritrovate le pepite migliori per mettere assieme il tesoro più prezioso?

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Pubblicato da
Marco A. Munno

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