Primo Piano

Aaron Gordon, The Avenger

Qual è lo Slam Dunk Contest più bello degli ultimi anni? Ok, è facilissimo: Aaron Gordon vs Zach LaVine, All Star Game 2016. Quei due classe ’95 hanno portato il livello della competizione su livelli esplorati probabilmente solo da Michael Jordan e Dominique Wilkins nel 1988. Ma c’è stato un elemento intangibile che ha permesso alla gara del 2016 di entrare nei nostri cuori differenziandosi dalla sua illustre antenata: differentemente da Jordan e Wilkins, già ampiamente assurti al livello di All Star, Gordon e LaVine ci hanno aperto una finestra sul futuro, caricandosi sulle rispettive spalle delle aspettative che, nel momento della gara, erano bel lontane dal trovare conferma. É raro assistere ad una finale dello Slam Dunk Contest così combattuta, disputata da ragazzi poco più che ventenni, perfettamente equidistanti tanto dallo star power di alcuni vincitori illustri quanto dall’anonimato della stragrande maggioranza degli specialisti della schiacciata che partecipano al sabato delle stelle.

Quella gara ci ha appassionato così tanto anche perché ci ha lasciato la possibilità di fantasticare su cosa sarebbero diventati quei ragazzi, che in quel momento erano pura argilla da plasmare.

Sembra realmente passata un’eternità.

Poco meno di due anni dopo, possiamo constatare come la loro crescita non sia stata esponenziale quanto sarebbe stato lecito attendersi, ma per un’infinità di ragioni non dipendenti da loro: Zach LaVine, che dei due appariva il più promettente, si è trovato prima imbrigliato dai problemi di inquadramento nel sistema di Minnesota e poi fermato dagli infortuni. Aaron Gordon, invece, ha apparentemente continuato la propria crescita in amministrazione controllata fino all’inizio di questa stagione.

Agli albori della stagione 2017-18, però, qualcosa è successo ad Orlando: i Magic hanno compiuto una partenza di stagione capace di andare contro ogni più rosea aspettativa, battendo autorevolmente addirittura Cavs e Spurs con uno scarto combinato di 48 punti e candidandosi ad essere una delle sorprese dell’Est. Incastonato tra quelle due vittorie di prestigio c’è stato, poi, quello che potrebbe essere ricordato come il break-out game di Aaron Gordon: 41 punti e 14 rimbalzi con 5 su 5 dall’arco, compresa la bomba del definitivo sorpasso. Una performance che ha nuovamente, e forse definitivamente, spalancato quella finestra sul futuro dalla quale allo Slam Dunk Contest 2016 avevamo solo sbirciato. Malgrado, poi, gli sviluppi della stagione abbiano puntualmente disatteso ogni velleità di Orlando di puntare in alto, lanciando i Magic in un saliscendi degno dei roller coaster di Disneyworld, Aaron Gordon non ha smesso di mostrare sera dopo sera i suoi miglioramenti candidandosi seriamente – Porzingis, Drummond e Oladipo permettendo – al titolo di Most Improved Player 2018.

Percepite la fame di Aaron?

False partenze

Prima di eruttare contro i Nets, Aaron Gordon era rimasto fermo per due partite a causa di un lieve infortunio che gli aveva anche impedito di esser parte dell’impresa dei suoi contro i Cavs. Il suo ritorno in grande stile con una performance del genere, di certo, porta l’epica del break-out game ad un livello ancora più alto ma, volendo esplorare un piano diverso della psicologia di Gordon, racchiude in sé la voglia di chiudere un capitolo più volte ripassato dallo 00 di Orlando: quello delle false partenze. Nell’esplosiva voglia aggredire la partita con ogni arma a sua disposizione, Gordon ha voluto dimostrare -innanzitutto a sé stesso- che questa è la stagione in cui avrebbe potuto cambiare, finalmente, la percezione che l’intera lega ha di lui. Nelle prime tre stagioni NBA, infatti, c’è sempre stato qualcosa che lo ha frenato ben oltre quelli che sono sempre stati i suoi, piuttosto evidenti, limiti.

Spoiler: tra i limiti di AG00 non annoveriamo la mancanza di capacità di fare belle schiacciate anche in partita.

Oltre i limiti, infatti, in tanti ci hanno sempre visto qualcosa in lui. Non che fosse difficile farlo: nel 2013 Aaron è stato eletto prima MVP dell’ McDonald’s All-American e poi miglior giocatore del mondiale Under 19 vinto dagli USA. Non è, quindi, un caso che sia finito alla quarta scelta del Draft del 2014, così pieno di talento ma al contempo così sfortunato. Quando il suo nome è stato chiamato, un Flavio Tranquillo moderatamente stupito si espresse così in sede di commento:

 “Gordon non sarà un giocatore da 20 punti a partita nella NBA, non sarà un giocatore dominante: può essere un pezzo di un quintetto. Ha un atletismo su 28 metri ed in verticale assolutamente rilevante (…). Io credo che abbia ben impressionato gli scout NBA perché dà l’impressione di aver davvero voglia di lavorare anche nella metà campo difensiva(…). E’ un giocatore solido, io credo che farà bene.”

Una fotografia piuttosto esaustiva delle ragioni per cui i Magic hanno deciso di puntare su di lui. Ad impressionare gli addetti ai lavori, come detto, c’era la sua etica del lavoro che, unita ad un atletismo davvero elitario, ad un’innata fluidità ed alla sua versatilità su entrambe le metà campo lo rendevano una safe pick, nonostante il suo gioco mostrasse delle zone d’ombra davvero estese. Le red flags, infatti, erano quasi tutte poste di fianco allo sviluppo del suo gioco offensivo: le mancanze di un tiro solido (ad Arizona Gordon addirittura tirava con un drammatico 42.2% i liberi) e di un gioco in post vagamente affidabile, abbinate al suo gioco fondato interamente sulle situazioni di avvicinamento al ferro lo rendevano davvero un blocco di marmo pregiato sul quale un coaching staff NBA avrebbe dovuto riversare tempo, pazienza e fatica. Nel suo video di presentazione in sede di Draft, la ESPN lo paragona a Shawn Marion ed addirittura a Kawhi Leonard, fresco di MVP delle Finals, a causa delle sue braccia lunghe e della mobilità difensiva. Tranquillo si affretta a sottolineare che Gordon non raggiungerà mai gli istinti di Kawhi, ma abbraccia il paragone con Marion. Ovviamente resta un giocatore tutto da costruire. Secondo la prospettiva degli Orlando Magic, però, per la qualità del materiale a disposizione valeva la pena di sottoporsi ad un percorso costellato di duro lavoro.

Zero gioco in post, zero jumper.

Il 15 novembre 2014, quando ha appena cominciato ad assaporare il campo NBA, si procura una frattura da stress che lo tiene fuori circa mezza stagione. Nelle 11 partite disputate fino a quel punto aveva tenuto 5.8 punti e 3 rimbalzi di media, numeri che scenderanno anche lievemente al suo ritorno in campo nella seconda parte della stagione. A fine anno saranno solo otto le partenze in quintetto e 17 i minuti di impiego medio: non è così facile schierare a lungo un giocatore che si muove sul limbo tra la small e la power porward, senza tiro né gioco in post ma con una predilezione al gioco fronte-a-canestro che lo rende un libro piuttosto leggibile per le difese. La nota più positiva veniva, paradossalmente, dai tiri liberi: il 72.1% dalla lunetta ha allontanato subito i fantasmi di un hack-a-Gordon che ne avrebbe rallentato ulteriormente la crescita.

A fine anno, l’Orlando Magic Daily si è affrettato a chiedersi cosa fosse andato storto in un pezzo dal sapore agrodolce che, in fin dei conti, riconosce a Gordon numerose giustificazioni malgrado una stagione deludente. Il succo del discorso è evidente: bisogna lavorare. E Gordon sa perfettamente come fare. Aaron si presenta, così, alla Summer League di Orlando in forma strepitosa: domina la competizione fino alla finale e chiude con numeri eccellenti, guadagnandosi l’MVP.

21.7 punti, 11.7 rimbalzi, 1.7 stoppate ed un jumper apparentemente ristrutturato.

Sembra possa già essere la stagione del rilancio ma, appena tornato dalla Summer League, Aaron esce con suo fratello per fare un giro da cavallo. Ovviamente la Legge di Murphy è in agguato e, inevitabilmente, qualcosa va storto: cade, si frattura la mandibola, si opera e deve in pratica saltare l’intero training camp. Il 12 ottobre 2015 gli viene concesso di potersi allenare con il contatto fisico: la stagione non è a rischio ma la sua preparazione alla stessa è stata inevitabilmente compromessa. Proprio in quei giorni, un Gordon stanco di dover rallentare nel proprio percorso di crescita ha dichiarato a Fansided:

“Sono stanco del potenziale. Sono nauseato da questa parola. Ovviamente apprezzo che mi venga attribuita ma sono stanco di aspettare”

Potete percepire contemporaneamente la frustrazione nella dichiarazione e la fame di un ventenne al quale la sfortuna impedisce di azzannare il mondo? I suoi numeri crescono, ma senza nessun eccezionale miglioramento. Poi arriva l’All Star Game ed il mondo torna ad accorgersi di lui, l’hype torna ad attorniarlo e tutti lo attendono al varco per la stagione successiva. Chiude il 2015-16 con una commozione cerebrale ma in tanti, ormai, hanno voglia di vedere che giocatore diventerà. Sempre Orlando Magic Daily si lancia in uno spericolato paragone con Blake Griffin. In effetti il patrimonio genetico tecnico dei due non è, poi, così differente. Certo, però per Aaron ci sono ancora troppe cose da mettere a posto prima di essere paragonabile a Blake.

La scorsa stagione non ha potuto essere la break-out season di Gordon per una ragione: mancava ancora un tiro decente. Complice uno spostamento più o meno permanente nel ruolo di small forward, il suo volume di tiri da tre punti presi era quasi raddoppiato (da 1.8 a 3.3) ma il 28% nella specialità lo rendeva ancora troppo lontano dal poter essere un giocatore perimetrale di impatto. Inoltre, anche la gara che lo aveva lanciato lo tradisce: richiamato per lo Slam Dunk Contest, non va neanche vicino a replicare lo spettacolo del 2016. In assenza di LaVine, Aaron è stato eliminato al primo turno, salutando senza neanche chiudere la seconda schiacciata. Forse Gordon non ha disputato quella gara al meglio: non poteva mancare, prima dell’All-Star Weekend, un altro lieve infortunio al piede che ne mettesse in dubbio la partecipazione al contest. La delusione di Aaron è così forte da spingerlo a dichiarare che non avrebbe partecipato allo Slam Dunk Contest 2018.

Una serata da dimenticare.

Era evidente, però, che tutti i pezzi del puzzle stavano andando ormai a posto per il numero 00: tra la seconda e la terza stagione sono state solo sei le gare saltate e ben 109 le partenze in quintetto, spot guadagnato definitivamente all’inizio della terza annata. Alla vigilia del 2017-18, dunque, a Gordon mancava solo un jumper per venir fuori dalla crisalide che lo aveva avvolto per le prime tre stagioni NBA.

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Pubblicato da
Jacopo Gramegna

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