La recente vicenda che ha coinvolto Derrick Rose, desideroso di abbandonare il basket giocato, ha scosso gran parte della nostra redazione. Molti di noi portano il nativo di Chicago ancora in palmo di mano per il grande contributo che ci ha dato per avvicinarci alla NBA, nonostante non sia più da tempo immemore il fantastico giocatore in grado di aggiudicarsi il premio di Most Valuable Player alla tenera età di 22 anni, il più giovane di sempre. Anche se il pericolo di non vederlo più calcare un parquet sembra rientrato, pare ormai chiaro a tutti quanti (forse tranne che a lui) che non potrà mai tornare quello di prima e che il potenziale di cui disponeva è andato perso quando il legamento del suo ginocchio sinistro non è più riuscito a sopportare le tensioni a cui era sottoposto quotidianamente. Abbiamo quindi deciso di tornare con la mente a quel maledetto 28 aprile 2012, quando allo United Centre di Chicago arrivarono i Philadelphia 76ers per giocarsi la prima partita dei playoff 2012. Il giorno in cui le sorti della Windy City cambiarono per sempre, il giorno in cui Derrick Rose smise di essere Derrick Rose.
Antefatto
I Chicago Bulls arrivavano a quella partita forti di un record di 50 vittorie e 16 sconfitte, sufficiente per aggiudicarsi il seed #1 nella Eastern Conference dei Miami Heat dei Big Three e identico a quello dei sempreverdi San Antonio Spurs. L’annata 2011-2012, per chi se lo fosse scordato, è partita solamente a Natale, causa lockout per i problemi di rinnovo del contratto collettivo dei giocatori. I Dallas Mavericks sono i campioni in carica ma, giunti ai playoff per il rotto della cuffia, verranno eliminati al primo turno dai rampanti Thunder del top scorer Kevin Durant.
Derrick Rose si presenta ai nastri di partenza della nuova stagione con uno stato d’animo contrastante: è l’MVP in carica e un serio candidato a diventare uno degli atleti simbolo di una Lega che sta vedendo avviarsi verso il viale del tramonto la generazione di Kobe Bryant e Tim Duncan, tra gli altri. Allo stesso tempo è reduce da una sonora batosta nelle finali di Conference della stagione precedente, in cui LeBron James gli ha mostrato come la differenza tra di loro sia ancora ampia nonostante il livello eccelso raggiunto in soli tre anni di carriera.
Delle 66 gare in programma l’idolo di Chicago riesce a disputarne solamente 39, causa piccoli acciacchi ripetuti che gli impediscono di ergersi a protagonista assoluto della Lega per il secondo anno consecutivo. Nonostante le poche presenze, però, continua a mostrarsi come un giocatore determinante e in grado di spostare gli equilibri quando in condizioni fisiche ottimali. Chiude la stagione regolare con medie di tutto rispetto: 21.8 punti, 7.9 assist (career-high) e 3.4 rimbalzi in oltre 35 minuti di impiego, in pieno Thibodeau-style, dovendo cedere lo scettro di MVP al #23 di Akron.
Cronaca della fine
Inutile dire che i 76ers che si presentano allo United Centre sono condannati ad una serena eliminazione al primo turno. Troppo più profondi, collaudati e pieni di talento quei Chicago Bulls per pensare di poterli impensierire. Sono in sostanza l’ideale sparring partner per una franchigia che punta al bersaglio grosso e che ha bisogno di ingranare dopo una stagione positiva ma non perfetta.
Prima della palla a due le telecamere si soffermano a lungo sul volto di Derrick Rose, indiscutibilmente l’uomo più atteso. L’#1 dei Bulls tenta di scogliere la naturale tensione che si respira nell’aria di quella che è la prima gara del periodo più atteso dell’anno tentando di rilassare i muscoli del collo. Lo sguardo è concentrato, pronto per iniziare quel viaggio che lo deve portare alla redenzione. Cheryl Miller, bordocampista per TNT, pochi istanti prima della palla a due, riporta le parole di coach Thibodeau: “Essere stato costretto a saltare 27 partite è stato sicuramente frustrante per lui ma ora è pronto a giocare. Non ci sono restrizioni fisiche per Derrick Rose”.
L’inizio di Rose è aggressivo e, nonostante i due errori sui primi due tentativi dal campo (una tripla e un layup), dimostra di essere pienamente in controllo del ritmo della partita e della sua squadra. I primi punti della sua gara arrivano su un taglio ben assistito da Boozer e concluso con un sottomano nonostante la presenza del corpaccione di Elton Brand.
L’accelerazione e il controllo del proprio corpo in velocità sono quelli di sempre. Nessuna paura del contatto fisico. Due punti per scrollarsi di dosso le scorie accumulate.
Nell’azione successiva è talmente tanta la paura di lasciare un varco in cui potrebbe infilarsi Rose, che Lavoy Allen si dimentica completamente di marcare Boozer. Con la mente e con il corpo il lungo dei 76ers è già pronto a portare l’aiuto ad un Jrue Holiday che non sembra minimamente in grado di poter contenere l’#1 dei Bulls. La conseguenza è un comodo assist per un ancora più comodo tiro dalla media dell’ex Utah Jazz.
Il primo quarto di Rose non si rivela così scintillante come i primi minuti potrebbero lasciare pensare e, viste le polveri bagnate al tiro (1/7 complessivo dopo i primi 12 minuti), si dedica principalmente a mettere in ritmo i suoi compagni (3 assist, con un Rip Hamilton da 11 punti nella prima frazione sugli scudi) e a fare valere il suo atletismo sotto i tabelloni (5 totali di cui 2 offensivi). I suoi Chicago Bulls, però, prendono il controllo della partita senza troppi problemi e rimangono costantemente in vantaggio, dando l’impressione di stare giocando al gatto con il topo.
I sei minuti di riposo che coach Thib gli concede in apertura di secondo quarto consentono a D.Rose di ricaricare le pile e di prendere finalmente in mano la gara dal punto di vista offensivo. Prima concretizza una transizione 3 vs 1, poi restituisce il favore ad Hamilton e, infine, indossa il mantello da MVP con 6 punti consecutivi.
Il primo passo è clamoroso, la velocità con cui taglia a metà i 76ers è abbagliante.
Il pick&roll tra Rose e Noah, quando erano Superstar.
Il playmaker dell’Illinois va all’intervallo con 10 punti sul tabellino e la sensazione che non sia nemmeno al 50% delle sue possibilità. Sembra saggiamente gestirsi, è pur sempre la prima partita della post-season contro un avversario più che abbordabile. Ma bastano pochi lampi per mostrare quanto possa incidere su un campo da basket uno come lui.
Quando nel terzo quarto Philadelphia ricuce fino ad essere a sole cinque lunghezze di distanza, prende nuovamente in mano la situazione da campione vero. Nel giro di tre minuti mette a referto altri 8 punti. I primi due dalla lunetta, speditoci da Lavoy Allen che tutto voleva meno che ritrovarselo al ferro in tutta tranquillità. Poi infila due triple pesantissime nell’economia della partita, in maniera tutt’altro che costruita e con pochi secondi ancora sul tabellone dei ventiquattro. Sono due canestri di pura volontà di un giocatore che ha deciso di volersi prendere la vittoria e che ha la consapevolezza di avere a disposizione i mezzi necessari per farlo. Due canestri di un ragazzo con una città sulle spalle.
Rivedere oggi la convinzione nei suoi mezzi di cui era dotato è una coltellata al cuore.
Nel frattempo continua ad armare il braccio dei suoi scudieri più caldi, alternandosi tra Hamilton, Deng e Korver, contribuendo a far scemare quell’entusiasmo nato tra le fila degli ospiti durante l’inizio della ripresa. Ad inizio dell’ultima frazione il numero #1 della franchigia che fu di MJ siede comodamente in panchina e la partita scorre via placida con un distacco che oscilla intorno alla doppia cifra, senza troppi problemi.
Rose rientra in campo a poco più di 8 minuti dal termine della gara e ne impiega meno di due per dare l’ultima spallata ad una gara-1 saldamente nelle mani dei Bulls. Doppio passaggio vincente a Deng e Korver e tripla sullo scadere dei ventiquattro ben oltre la linea dei 3 punti. Un canestro che scava venti punti di distacco tra le due franchigie e che sa di parola fine.
Nessuno che sta guardando quella partita al palazzetto o davanti alla televisione ha la sensazione che ci possa essere altro da dire ma “non avere restrizioni fisiche”, per un allenatore come Thibodeau per cui non esiste garbage time in cui lasciare che i minuti scorrano con le riserve in campo, significa che D.Rose non si siede in panchina ma rimane in campo a fare il suo dovere. Derrick ovviamente non può e non vuole rallentare, ha bisogno di nutrire la propria autostima, gli serve per prepararsi alle partite successive. Quando prende l’ennesima linea di penetrazione, con poco più di un minuto sul cronometro, qualcosa va storto. Sull’arresto di potenza il legamento crociato del ginocchio sinistro di Derrick Rose cede e il più giovane MVP della storia non può fare altro che accasciarsi a terra, tenendosi il ginocchio dolorante.
Non so quale sia l’immagine che rappresenta meglio l’atmosfera gelida che subito cala nel palazzetto: forse il replay in cui Rose quasi “rimbalza”, in maniera del tutto innaturale, sollevando la gamba per non caricarla ancora con il peso del corpo; forse la faccia che si trasforma immediatamente in una maschera di dolore sotto la quale il cervello di Derrick inizia ad elaborare le conseguenze di quello che è appena successo; o forse la signora che in tribuna assiste al momento con le mani giunte in preghiera per quel figlio di Chicago che stava ridando speranza sportiva all’intera città.
Probabilmente però, il fotogramma più iconico di tutto quello che ha rappresentato quell’infortunio per la Lega intera è il mesto rientro negli spogliatoi di Derrick Rose sorretto dai medici, che sfila di fianco al logo dei Bulls circondato dai sei titoli vinti da His Airness scuotendo la testa. Un momento in cui il passato si impone visivamente su quel presente che sperava di poter replicare i momenti di gloria vissuti in un futuro prossimo. Un futuro che, invece, è appena svanito su quella banale penetrazione, esattamente come il vero Derrick Rose, che non uscirà mai più da quegli spogliatoi.
Cosa è rimasto dell’#1 dei Chicago Bulls oggi? Un simulacro del giocatore che fu, un ragazzo fragile nel corpo ma ancora di più nell’anima, incapace di rialzarsi e di accettarsi in un ruolo completamente diverso da quello ricoperto fino a quel momento nella Lega. La stessa NBA, che prima lo ha aspettato come si attende il ritorno di un Messia, ora lo sta ripudiando accorgendosi che è ormai diventato un profeta di qualche movimento eretico minore. Nella free agency di quest’anno ha cercato qualcuno che credesse fortemente in lui e che gli accordasse un ingaggio di prima fascia che lui ancora si sente di meritare.
La sua reazione alle porte chiuse sbattutegli in faccia è stata dettata da un moto di orgoglio: ha deciso di scommettere su sé stesso, di credere per un’ultima volta nei suoi mezzi tecnici e nel suo fisico accettando il minimo salariale pur di dimostrare di essere ancora in grado di incidere in una delle franchigie nobili della Lega. La dea Fortuna si sta mettendo, per l’ennesima volta, sulla sua strada, procurandogli guai a non finire che stanno fiaccando lo spirito di un ragazzo fragile come Derrick Rose e che non lascia spazio a futuri rosei nell’immaginazione collettiva. Vederlo smettere a soli 29 anni sarebbe (forse) ancora più triste di vedere un fantasma con le sue sembianze aggirarsi ancora per anni nelle arene americane. Prima di Westbrook, di Curry e di Harden c’era Derrick Rose ma il Destino ha voluto altrimenti, lasciandoci solo la possibilità di crogiolarci nell’illusione di quello che sarebbe potuto essere e non è mai stato.