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Viaggio in G League

Non esiste al mondo un campionato sportivo più bello dell’NBA. Per quanto la soggettività esige uno spazio importante in questo tipo di valutazioni, allo stato attuale delle cose non esiste un singolo campionato in grado di annoverare i migliori giocatori del pianeta, rinchiuderli in arene che sono gioielli architettonici (con poche eccezioni) e creare una sovrastruttura emotiva per la quale in tutta la superficie terrestre pensare al basket vuol dire, di rimando, pensare all’NBA.

Il modo che gli statunitensi hanno di pensare lo sport è tuttavia diverso da come viene concepito in Europa. La loro idea di lega non ammette delle situazioni in cui se una squadra arriva ultima nel suo campionato allora viene declassata in un campionato meno competitivo. Questo vuol dire che la progettualità e la visione a lungo termine viene fortemente incentivata, ma allo stesso tempo quello dello sport professionistico è un mercato a cui è molto difficile accedere.

Facendo una stima approssimativa ogni anno in NBA giocano circa 500 atleti con un costante ricambio generazionale garantito dal sistema del draft. Andando a spulciare le statistiche tuttavia scopriamo che i liceali che praticano il basket come sport sfiorano il milione. Diciamo che almeno una metà di loro nutre ambizioni in merito allo sport come primo lavoro per il futuro, ma i college di Division I (ovvero quelli che affacciano sul professionismo) schierano in campo ogni anno appena 176.000 studenti all’incirca. Di questo numero una sessantina scarsa approda in NBA in una sera di giugno. Forse al giorno d’oggi è nello sport che gli USA conservano il loro carattere “eccezionalista” e individualista.

In ogni caso, tutti gli altri atleti sedotti dalla possibilità di diventare professionisti dopo aver frequentato fino a quattro anni di college, con il solo scopo di levigare la propria tecnica e aumentare il numero di persone interessate al loro valore, che fine fanno? Buona parte rimpiange il giorno in cui ha preso Scienze delle Merendine™ per concentrarsi solo sul basket e cambia corso di laurea, altri rielaborano l’American Dream facendo il percorso inverso e cercando fortuna in Europa o in Cina dove le squadre in cerca di giocatori americani non troppo esosi abbondano. Altri ancora, a mio modo di vedere i più coraggiosi, scelgono la strada della compianta D-League.

Già, perché da quest’anno quella che l’NBA ha pensato come sua personale lega di sviluppo si chiama G League (senza trattino altrimenti qualcuno in redazione sbrocca), dove la G sta per Gatorade. La famosa marca di bevande energetiche ha legato a doppio filo il suo nome con quello della lega di sviluppo americana e come d’incanto l’appeal di un campionato snobbato da tutti o quasi, è cresciuto vertiginosamente. Facendo una previsione, pronta ad essere smentita, sempre più giocatori usciti dal college o addirittura dalla high school opteranno per la neonata G League come approccio al professionismo. Il motivo? Perché adesso e ancora di più in futuro la G League è e sarà la strada più corta e meglio asfaltata per raggiungere l’Olimpo o come viene istituzionalmente chiamata, la National Basketball Association.

Qui un giovane Jeremy Lin con la maglia dei Reno Bighorns, un anno prima della “Linsanity”. (Credits to windycity.gleague.nba.com)

Più grandi, più vicini

Come accennato la storia di quella che un tempo si chiamava D-League affossa le sue radici all’inizio del secolo quando le franchigie partecipanti erano appena otto e tutte dislocate nella parte sud-est della nazione. Dal lontano 2001 sono passati sedici (quasi diciassette) anni e l’espansione di una lega di cui la stampa generalista non parla mai e quella di settore quasi mai, è stata costante e significativa.

Ai nastri di partenza dell’attuale stagione le franchigie coinvolte erano 26, molte di più di quelle che probabilmente David Stern si aspettava di raggiungere nel momento in cui varò questo progetto. La cosa importante da sapere però è che in tutti questi anni la G League ha continuato il suo processo colonizzante ma allo stesso tempo sempre più franchigie NBA si sono rese conto che avere un team affiliato, una sorta di squadra B, dove poter mandare giocatori, dove poter pescare giocatori, non è un brutto affare.

I primi a muoversi in questa direzione furono i Los Angeles Lakers che nel 2006 comprarono il proprio team chiamandolo Los Angeles D-Fenders (nel 2006 probabilmente era anche un bel gioco di parole) e inaugurando il processo di contro-colonizzazione che nel giro di undici anni avrebbe coinvolto quasi tutti i team NBA. Ad oggi non c’è una singola franchigia in G League a non essere sotto la diretta influenza di un team NBA, tramite affiliazione o tramite proprietà diretta. Non solo; le uniche squadre a non avere un legame a doppio filo con un team di G League sono i Nuggets, i Pellicans, i Blazers e i Wizards, con questi ultimi che hanno già annunciato un rapporto di affiliazione attivo dal prossimo anno con i Capital City Go-Go, i quali giocheranno le partite casalinghe nel nuovissimo “St. Elizabeths East Entertainment and Sports Arena” downtown Washington DC.

Già perché quando parliamo di vicinanza non ci riferiamo al solo aspetto burocratico della faccenda; le franchigie sono proprio vicine tra loro! Nel 2013 la distanza media tra la franchigia “madre” e l’affiliata era di circa 550 miglia, adesso siamo a 120 (200 km scarsi). Questo tentativo di accentramento può essere letto all’interno di un progetto che punta a rendere la G League una vera e propria minor league sull’esempio del baseball e dell’hockey. Possedere una minor league consente di utilizzarla per mandare i giocatori reduci da un infortunio (Parker e Gallinari sono i due esempi più recenti) per gestire meglio il recupero ma soprattutto per sviluppare un roster alternativo da cui attingere a piene mani nel momento del bisogno anche attraverso il two-way contract.

Il two-way contract è un ulteriore incentivo che l’NBA ha inserito da quest’anno per promuovere lo sviluppo della G League. In poche parole gli slot disponibili per le franchigie NBA sono passati da 15 a 17 con gli ultimi due posti ad appannaggio di giocatori selezionati attraverso questo contratto a condizione che non superino i quattro anni di esperienza nel sistema professionistico americano. Un giocatore che firma un two-way contract finisce nel roster del team di G League affiliato ma può spendere fino a 45 giorni con la franchigia NBA che lo ha ingaggiato. Scaduti i 45 giorni il rapporto può esaurirsi oppure può evolvere in qualcosa di più concreto come successo per Mike James, teoricamente un giocatore dei Northern Arizona Suns (la squadra di G League affiliata ai Phoenix Suns) con i quali però non ha disputato nemmeno un minuto poiché subito opzionato dai Suns dopo la Summer League e adesso fresco firmatario di un contratto annuale. Si tratta della storia più vicina nel tempo ma al momento in cui scrivo i giocatori sotto two-way contract sono oltre cinquanta.

Adesso il buon Mike, ex giocatore di Omegna, risolve così le partite dei Suns.

L’NBA ha visto nascere e crescere questo progetto in attesa di riscuotere i dividendi e il momento sembra essere prossimo se è vero che quest’anno si stima che una percentuale di giocatori NBA che oscilla tra il 38% e il 42% abbiano avuto in passato un’esperienza in D-League (Whiteside, Barea, Lin, e si potrebbe andare avanti per molto). Oltre ad essere un banco di prova sempre più allettante per i giocatori in odore NBA, la G League si presta anche a fungere da laboratorio cestistico ed extra-cestistico essendo mediaticamente ancora poco interessante (quindi poco “attaccabile”) e desiderosa di anticipare i tempi come ogni realtà emergente.

 

Laboratorio NBA

Come detto la G League è la soluzione migliore per eseguire esperimenti sul gioco senza in qualche modo intaccarne la credibilità. Da quest’anno la lega di sviluppo adotta delle modifiche regolamentari di un certo peso: l’overtime dura due minuti anziché cinque, agli allenatori è concesso di chiamare un challenge per partita, i timeout disponibili sono sette per ciascuna squadra senza alcuna distinzione tra timeout normali e brevi.

Anche la struttura dei playoff è stata ritoccata: le sei vincitrici delle rispettive division vanno direttamente ai playoff insieme ai tre migliori team delle due conference (senza considerare ovviamente il record delle vincitrici delle division). A questo punto le due squadre migliori di entrambe le conference vanno direttamente al secondo turno e ogni turno è a eliminazione diretta (tutte partite “win or go home”) fino ad arrivare alle Finals che si giocano al meglio delle tre partite. Un po’ cervellotico (il sottoscritto ha dovuto fare un disegnino per capirci qualcosa ndr) ma incredibilmente innovativo e molto più immediato come la società del XXI secolo è abituata a pensare. Il tutto alla ricerca del rinnovamento, del frenetico desiderio di watchability che anima una delle macchine di marketing più evolute al mondo.

Oltre alla capacità di vendere però l’NBA possiede anche una rinomata tradizione in fatto di integrazione e interesse per la questione sociale. La parità di sessi è ad esempio un tema che torna costantemente di attualità per ragioni purtroppo tutt’altro che lodevoli. Da questo punto di vista è importante il messaggio che lancia la G League, nella quale circa un terzo degli arbitri coinvolti nell’attuale stagione sono di sesso femminile.

Per quanto riguarda il discorso dell’integrazione David Stern prima e Adam Silver poi hanno provato (e stanno provando) a portare una franchigia NBA in Messico da parecchi anni. L’attuale commissioner potrebbe aver trovato la strada giusta per piantare il germoglio all’interno di una fanbase che riempie i palazzetti ogni volta che lo show a stelle e strisce attera su suolo messicano. Secondo le parole di Marc Stein infatti l’idea di Adam Silver è quella di creare una franchigia di G League a Città del Messico. Meno ingombrante a livello politico di una franchigia NBA ma sufficiente per testare il termometro sportivo e sociale di un vicino desideroso di unirsi alla festa. A suffragare questa ipotesi c’è l’annuncio di Malcolm Turner, presidente della G League, il quale ha reso noto che durante la settimana dell’All Star Game si disputerà un’inedita partita G League vs Messico.

A proposito di unirsi alla festa, chi proprio non può fare a meno di ignorare un’ipotetica fonte di guadagno è mister Zuckerberg, il quale trasmette tutta la stagione di G League sulla sua personale macchina da visualizzazioni. Per godersi la seconda lega cestistica americana infatti basta andare sulla pagina Facebook della G League e schiacciare play per guardare partite sia live sia on demand. L’ennesima riprova che l’industria sportiva americana è maniacalmente attratta da tutto ciò che è social.

Insomma quello a cui stiamo assistendo è un qualcosa di ancora non del tutto chiaro. La competitività all’interno della G League non è minimamente paragonabile ai livelli del piano di sopra, eppure ha tutte le caratteristiche per attirare giocatori ancora acerbi per l’NBA ma con ambizioni che vanno in quella direzione. Qualcuno sostiene che nel lungo periodo potrebbe addirittura sostituire il college come passaggio obbligato per accedere alla lega dei grandi. In realtà questa previsione è anche frutto di un mondo, quello collegiale, continuamente scosso da scandali e opinioni contrarie da parte di chi lo ha vissuto, di conseguenza un ipotetico sorpasso non è del tutto improbabile.

Per adesso NCAA e G League continuano a correre su binari paralleli senza incrociarsi; la mission di chi dirige la G League è quella di diventare il miglior campionato di basket del mondo dopo l’NBA. La stessa che si augurano anche alcuni proprietari NBA. Con questa idea in testa partirà la doppia sfida, all’Europa e al college basketball, due “contenitori” dai quali le franchigie NBA attingono da decenni. Riuscirà la G League a sovvertire le gerarchie e diventare la seconda lega cestistica al mondo?

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Pubblicato da
Paolo Stradaioli

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