C’era una volta, al di là dell’Oceano Atlantico, una Lega leggendaria in cui i migliori atleti al mondo si davano battaglia per la conquista dell’anello, capitanati da eroici condottieri senza macchia e senza paura. Questi mitici eroi erano in grado di guidare i propri uomini verso mirabolanti imprese grazie alla loro intelligenza superiore che, unita ad una certa dose di talento, consentiva loro di percepire l’andamento dello scontro ad una velocità di gran lunga superiore a quella dei nemici. Costretti ad alzare bandiera bianca dopo mille battaglie per colpa dell’invida aetas cantata da Orazio, hanno lasciato un vuoto incolmabile nel cuore di noi comuni mortali, affidando la loro eredità ad una ristretta cerchia di luogotenenti: da Jerry “The Logo” West a Oscar Robertson, da Magic Johnson a Isiah Thomas, fino ad arrivare a John Stockton, Jason Kidd e Steve Nash, passati dall’essere giovanotti di belle speranze ad ereditare i galloni da generale dai loro illustri predecessori. E’ proprio vero, non ci sono più i playmaker di una volta. Dando un’occhiata al panorama odierno è evidente che nel passaggio di consegne tra le varie generazioni qualcosa è andato “storto”: i giovani discepoli sembrano aver dimenticato gli insegnamenti delle vecchie glorie, pugnalati alle spalle e vittime di un sanguinoso ammutinamento. Lo stile proposto dai vari Westbrook, Lillard e Curry è distante anni luce da quello dei maestri di un tempo, dimenticati dai più nel cassetto dei ricordi ormai sbiaditi a causa della loro tendenza poco “glamour” a progettare l’azione piuttosto che a finalizzarla in modo spettacolare: ai veterani e ai loro nostalgici seguaci non resta altro che confidare nell’unico vero allievo della loro prestigiosa scuola, un certo Christopher Emmanuel Paul da Lewisville.
In realtà, l’infanzia di Chris Paul è molto diversa da quella del classico predestinato del basket: l’unico pallone contemplato dal giovane rampollo di casa Paul è quello da football, anche se le sue eccezionali doti di uomo-assist non passano inosservate neanche in quella disciplina, praticata fino agli anni del liceo. Tuttavia, sarà la pallacanestro, ma solo in un secondo momento, a fare breccia nel cuore del giovane e talentuoso quarterback, anche grazie all’influenza esercitata da papà Charles e dal fratello maggiore Charles Junior, rispettivamente CP1 e CP2. Il CP più famoso, quello che attualmente delizia con la canotta numero 3 la platea texana, ha la fortuna di crescere in una famiglia benestante, al riparo dai pericoli e dalle cattive compagnie che per molti suoi colleghi di lavoro rappresentavano la routine quotidiana in un passato non troppo lontano. Un contributo importante nell’educazione del ragazzo viene offerto dal nonno materno Nathaniel Jones, che lo indirizza sulla retta via dell’onestà e del duro lavoro. Nathaniel è un volto noto in paese, per tutti è “Papa Chili“, il primo afroamericano ad aver aperto un distributore di benzina in North Carolina, non certo lo Stato più tollerante nei confronti dei neri in quegli anni di privilegi ed ingiustizie. Il giovane Chris trascorre le sue giornate facendo la spola tra la scuola, la palestra e il distributore di Papa Chili, dando una mano all’amatissimo nonno insieme a suo fratello CJ, suo futuro manager: per loro Nathaniel è più di un semplice nonno, è un vero e proprio migliore amico, come dichiarerà più volte Paul.
Gli anni passano ma l’innegabile talento di Paul rimane racchiuso all’interno di pochi centimetri, secondo molti non sufficienti per fargli spiccare il volo verso quella carriera professionistica nel basket che da qualche anno occupa stabilmente il primo posto nei suoi pensieri. Ci sarà tempo per smentire i detrattori, per il momento bisogna dedicarsi all’istruzione. Chris si iscrive alla vicina West Forsyth High School, dove stupisce regolarmente i fedelissimi spettatori dei Titans che per mancanza di valide alternative “affollano” gli spalti del palazzetto di Clemmons, non esattamente il Madison Square Garden come potrete immaginare. La fama di Chris inizia a precederlo in tutta la Carolina del Nord e non sono pochi gli scout dei college che accorrono per gustarsi gli assist di Paul dal vivo. Il sogno del futuro All-Star è quello di ogni ragazzo della Carolina: indossare la canotta dei Tar Heels di UNC, il college più prestigioso dello Stato, frequentato anche da un paio di personalità importanti, un certo Michael Jeffrey Jordan su tutte. La dea bendata sembra cedere alle lusinghe miste a preghiere del giovane playmaker, che durante un match dà un occhiata alle tribune e scova in un angolino Matt Doherty, coach di UNC. La prestazione di Paul non è esaltante e i pochi minuti concessigli dal suo allenatore non sono sufficienti per spazzare via i legittimi dubbi sulla sua taglia. 160 centimetri sono pochi anche per un talento come quello di CP3, che viene scartato da un deluso coach Doherty.
La canotta dei Tar Heels è destinata a rimanere un sogno, ma purtroppo non è questo il dolore maggiore che mina le certezze di Chris, sottoponendolo alla prova più difficile della sua giovane esistenza. E’ il 15 novembre 2002 e Papa Chili ha l’unica colpa di tornare a casa tardi dopo aver fatto la spesa. Il suo destino si incrocia tragicamente con quello di alcuni ragazzi locali che non hanno la fortuna di Chris, coccolato e protetto dalla sua famiglia, e che pensano di poter migliorare le loro sorti con la complicità del buio. E’ la fame che li porta ad assalire e rapinare Nathaniel Jones, ma nonostante la collaborazione di quest’ultimo i giovani passano ben presto alle maniere forti. L’uomo viene legato e colpito ripetutamente pur avendo già consegnato il portafogli ai malviventi, che per tutta risposta fuggono abbandonandolo nel bagagliaio della sua auto. Il prediletto Chris è ad una partita di football, è suo cugino a comunicargli la tremenda notizia al termine del match. Il grande cuore del generoso e saggio Papa Chili non ha retto, quei malviventi (che poi avrà modo di perdonare) gli hanno portato via l’adorato nonno, l’uomo che con il sudore della fronte è riuscito a garantire un futuro a figli e nipoti. Il destino sa essere beffardo e Chris suo malgrado lo impara sulla sua pelle a soli 17 anni: soltanto il giorno prima insieme alla sua famiglia aveva deciso di accettare la borsa di studio della Wake Forest University. Papa Chili con i suoi insegnamenti quotidiani rappresenta il maestro di vita di cui ogni ragazzo ha bisogno, proprio per questo colmare il vuoto da lui lasciato è una sfida persa in partenza. Chris è distrutto, ma sua zia ha un’idea che stuzzica la sua fantasia. L’imminente partita dei Titans contro Parkland High arriva sul più classico dei piatti d’argento: l’obiettivo è quello di realizzare 61 punti, come gli anni di nonno Nathaniel. Se rimpiazzarlo è impossibile, onorarlo sembra quantomeno difficile, considerando anche le caratteristiche del gioco di Chris, mai considerato uno scorer puro. In via del tutto eccezionale Paul sacrifica la sua proverbiale venerazione per gli assist giocando da solo contro tutti e a fine primo tempo i punti sono già 32. I secondi passano e Chris mette a referto punti su punti, arrivando a quota 59 a meno di 2 minuti sul cronometro. Penetrazione, canestro con fallo e siamo a 61. Il record liceale dista soltanto 6 lunghezze, ma quella partita è per Papa Chili, non per la gloria. Sebbene l’86% dalla linea della carità in NBA parli chiaro, il giovane CP3 lascia volontariamente partire un tiro “alla DeAndre Jordan” e scoppia in un pianto liberatorio, soffocato dall’abbraccio dei compagni.
Archiviata la carriera liceale, è tempo di vestire la canotta di Wake Forest, nonostante la tardiva offerta di UNC. E’ a Winston-Salem che Chris dimostra di poter competere con avversari molto più grandi di lui grazie al suo sconfinato talento. Coach Skip Prosser gli dà fiducia e lui lo ripaga alla prima occasione: 20 punti e 8 assist sono il suo biglietto da visita nel basket collegiale. Fin dall’inizio instaura un ottimo rapporto con il lungo Eric Williams, i due si cercano e si trovano alla perfezione sul parquet, con Williams che rappresenta la versione base del Blake Griffin full optional ammirato negli ultimi anni. Al termine della stagione Chris viene eletto Matricola dell’Anno dell’Atlantic Coast Conference, ma l’avventura nelle Sweet Sixteen viene prematuramente interrotta da Delonte West e soci di St.Joseph. La convocazione nella Nazionale Under 20 aiuta il giovane playmaker a migliorare il suo gioco, ma l’anno successivo, a causa delle enormi aspettative, Paul non riesce a replicare la fantastica stagione dell’anno precedente, incappando anche in lunghi periodi di squalifica.
Nonostante l’annata sottotono Chris riesce a coronare il suo sogno. Il Draft 2005 è ormai alle porte e il suo nome finisce sul taccuino degli scout di ogni franchigia. Milwaukee e Atlanta puntano su due lunghi, l’australiano Bogut e Marvin Williams, mentre gli Utah Jazz optano per il talentuoso Deron Williams, fresco di Finali NCAA. E’ il turno dei New Orleans Hornets, che con la quarta chiamata danno una chance al piccolo play da Wake Forest: come potete immaginare non tirerà aria di pentimento nella città del Jazz.
Purtroppo in quella stessa estate il basket scivola all’ultimo posto nei pensieri degli abitanti di New Orleans. L’uragano Katrina rade al suolo gran parte della città e la franchigia si trasferisce momentaneamente ad Oklahoma City (i Thunder sono ancora in mente dei). La squadra, reduce da un poco lusinghiero record di 18 vittorie e ben 64 sconfitte, non può che affidarsi all’estro di Paul per risollevarsi e dare inizio ad un difficile processo di rebuilding che passa proprio dalle educatissime mani del giovane playmaker. Paul si adatta alla perfezione nel sistema Hornets e dirige le operazioni coadiuvato dalla stella della squadra, quel David West approdato quest’estate alla corte di Gregg Popovich. Nonostante il considerevole apporto del Rookie of the Year, la squadra fallisce l’accesso ai Playoff per due anni consecutivi, nei quali vengono gettate le basi per un radioso futuro in Louisiana.
All’alba della sua terza stagione nella Lega CP3 si candida prepotentemente al ruolo di uomo copertina della NBA degli anni a venire. La sua eccezionale gestione della palla non ha eguali e la sua maturità, a dispetto della carta d’identità, trascinano New Orleans all’avventura ai Playoff con un sorprendente record di 56-26. Sulle ali dell’entusiasmo Paul e soci rispediscono a casa i Mavericks di WunderDirk, ma nulla possono contro i San Antonio Spurs. La storia si ripete anche nella stagione 2008-2009: Paul, fresco di ricca estensione contrattuale, strappa la convocazione all’All-Star Game e chiude la stagione con 22.8 punti (la sua stagione migliore finora dal punto di vista realizzativo) e 11 assist di media, ma i suoi Hornets non vanno oltre il Primo Turno. Per qualche strana ragione, le prestazioni di Chris sembrano inversamente proporzionali a quelle di squadra: le sue medie crescono a vista d’occhio, ma non si traducono in un miglioramento tangibile delle sorti della squadra, che l’anno successivo fallisce addirittura l’accesso alla postseason. Da buon playmaker puro, gli assist sono il suo marchio di fabbrica, è lui l’architetto di casa Hornets e non si nasconde quando c’è da prendersi responsabilità importanti, a differenza degli anni a Wake Forest. Rapidità, finte, penetrazioni, jumper: la sua faretra offensive è tra le più fornite del panorama NBA, ma il suo contributo non si esaurisce nella meta campo più fotogenica. E’ lui a prendere in gestione l’esterno avversario più pericoloso, che non riesce quasi mai ad esprimersi sui livelli abituali a causa del costante fiato sul collo del piccoletto da Lewisville. Il suo gioco è in continua evoluzione, ma probabilmente New Orleans non è il palcoscenico giusto per coniugare fama e successo: per il secondo è necessario migrare verso lidi più prestigiosi e la stagione 2010-2011, con un Paul a mezzo servizio causa infortuni e conclusasi con l’eliminazione ai Playoff per mano dei Lakers, ne è la conferma.
L’ennesima delusione di squadra, condita dal fascino di quella Los Angeles ammirata non solo dal punto di vista sportivo nella serie contro i Lakers, porta Paul a prendere un’importante decisione sul suo futuro. Il suo destino è lontano da New Orleans, poco ma sicuro. Dopo sei stagioni passate a distribuire assist sui parquet americani la stella di Chris Paul è più luminosa che mai ed è alla disperata ricerca di una costellazione vincente e patinata. Nel corso dell’estate 2011 rende nota a tutti l’intenzione di non rinnovare il contratto in scadenza, puntando alla free agency 2012. L’interesse nei confronti dei Lakers è più che ricambiato, ma c’è un piccolo problema: la franchigia di New Orleans non ha un proprietario.
Soltanto sei mesi prima George Shinn, alle prese con problemi legali e insoddisfatto del mercato della Louisiana, si sbarazza delle sue quote cedendole alla NBA nella persona del Commissioner David Stern, che si trova a dover gestire una franchigia nell’interesse dell’intera organizzazione. Il fallimento sportivo degli Hornets infatti avrebbe avuto pesanti ripercussioni per tutte le altre franchigie e proprio per questo motivo l’obiettivo di Stern è quello di trovare un nuovo proprietario a stretto giro di posta, mantenendo stabile il valore del roster di New Orleans. Il malumore di Chris Paul rappresenta un fulmine a ciel (non troppo) sereno e Stern si vede costretto ad intavolare uno scambio per non ritrovarsi con un pugno di mosche nell’estate 2012. La delega alle operazioni è affidata a Dell Demps, il quale trova subito un accordo con il front office dei Lakers: Chris Paul fa le valigie in cambio di Scola, Martin, Odom e una prima scelta, in una trade che vede coinvolti anche i Rockets. Per Demps è un buon affare, ma sia lui che i Lakers hanno fatto i conti senza il Commissioner. Stern è un oste molto esperto, conosce il mestiere dal 1984 e stabilisce, nell’interesse della Lega, che i commensali devono essere più generosi se vogliono sedersi alla sua locanda. Le “basketball reasons” fanno sì che i rapporti tra Lakers e Stern si riducano al minimo sindacale, la trattativa si riapre ma l’accordo non verrà mai trovato. Stern ha perso degli ottimi clienti, ma da buon commerciante sa come va il mondo: questa volta è lui a muoversi in prima persona contattando l’altra franchigia di Los Angeles, che mette sul piatto argomentazioni più convincenti. Kaman, Aminu e Gordon salutano Los Angeles, mentre i Clippers escono dalla locanda a pancia piena e con un Chris Paul in più.
In quel di Los Angeles il talento di certo non manca: Paul forma una delle coppie più esplosive d’America con un Blake Griffin in rampa di lancio e Los Angeles muta ben presto in “Lob City“, grazie anche al contributo dell’atletico DeAndre Jordan. In una stagione ridimensionata dal Lockout Paul inizia finalmente a respirare aria di vittoria a pieni polmoni, anche se la corsa all’anello si interrompe ancora una volta per mano degli eterni Spurs con un sonoro 4-0. L’amarezza è palpabile, ma in estate la dirigenza interviene massicciamente sul mercato e porta a casa il prezioso contributo di Odom, Barnes e Crawford. Con i nuovi innesti a dare profondità alla panchina, i Clippers si affermano come una delle candidate più credibili al titolo 2012-2013, chiudendo la stagione con 50 vittorie all’attivo. La delusione è però dietro l’angolo e stavolta risponde al nome di Memphis, con i Grizzlies che sbranano in rimonta i sogni di gloria dei losangelini.
I Big Three dei Clippers non riescono ad arrivare fino in fondo in un’affollatissima Western Conference e i primi fantasmi sul DNA perdente della franchigia iniziano ad affiorare nella mente di tifosi e addetti ai lavori. Chris non ha tempo per la cabala, ha abbandonato il suo regno in Louisiana per cercare la fama nella lussureggiante California e non ha nessuna intenzione di mollare. L’arrivo dei vari Granger, Turkoglu, Dudley e soprattutto Redick è la conferma delle ambizioni dei Clippers, che puntano dritti al Larry O’Brien Trophy. Un problema alla spalla tiene Paul ai box per una ventina di partite, ma nonostante l’assenza del leader carismatico i Clippers strappano l’ormai abituale pass per la postseason, durante la quale vengono eliminati in Semifinale da quell’Oklahoma City in cui Paul muoveva i primi straordinari passi da professionista. Il cambio di proprietà dà nuovo vigore ad un gruppo che rischia di mostrare i primi sintomi di frustrazione e che viene riconfermato in blocco per la stagione 2014-2015. Paul guida i suoi con la doppia doppia di media d’ordinanza consentendo al gruppo di accedere ai Playoff, durante i quali la sorte li mette subito di fronte ai temibili e sempreverdi San Antonio Spurs. In una vera e propria finale anticipata le due squadre danno vita ad una battaglia senza esclusione di colpi fino all’ultimo secondo di Gara 7. Con 3 minuti da giocare nel primo quarto e un inizio da campione, Paul rientra in difesa toccandosi il bicipite femorale sinistro, ma decide strenuamente di rimanere in campo e solo un minuto più tardi si costruisce una tripla dal palleggio mandando Patty Mills al bar pur zoppicando vistosamente. Gran parte del secondo quarto la passa precauzionalmente seduto in panchina, ma nel terzo quarto ricomincia lo show: due triple tanto per iniziare e un buzzer beater da urlo ci ricordano che siamo in presenza di un fenomeno. La partita è tiratissima e a otto secondi dalla fine il tabellone recita 109-109. La rimessa è affidata a Matt Barnes, palla a Griffin che saggiamente la affida ad uno stremato Paul, che sfida Green in velocità e al cospetto di Tim Duncan segna il canestro della vittoria su una gamba sola a un secondo dalla fine, con lo Staples Center in delirio. Sembra finalmente arrivato il momento di gloria dei Clippers, per CP3 è giunta l’ora di marciare trionfalmente verso il titolo e con un perentorio 3-1 i Clippers sembrano non avere intenzione di fare prigionieri tra le fila dei Rockets. Purtroppo però la sfortuna dei losangelini ha il sonno leggero e dopo un breve periodo di riposo torna ad aleggiare al Toyota Center: è più corretto parlare di harakiri che di rimonta dei texani. I Rockets di James Harden riescono incredibilmente a ribaltare la serie e approdano alle Finali di Conference. Proprio Houston, la squadra attuale dell’eterno CP3 che quest’anno fiuta l’annata giusta.
Le due medaglie d’oro del 2008 e del 2012 (risulta obiettivamente difficile perdere anche un solo match con un roster che probabilmente accoglie periodicamente i migliori 12 giocatori del pianeta) sono il fiore all’occhiello di una bacheca in perenne allestimento che attende con ansia ospiti di ben altra caratura. La vera sfida di Paul è la conquista dell’anello, chimera che da 10 anni di onorata carriera lo perseguita confinandolo nell’affollato girone infernale dei campioni votati all’insuccesso. Tra le stelle dannate della Lega Paul, insieme a Carmelo Anthony, è quello con la data di scadenza più incombente, ma a differenza del collega il nostro ha dalla sua una squadra in grande forma e altamente competitiva, pur con qualche problemino di natura scaramantica. L’ultimo esponente di una gloriosa dinastia di direttori d’orchestra è chiamato a scrivere il suo nome nell’albo d’oro della Lega e la ricetta del successo è quella che dal 6 maggio 1985 è impressa nel suo corredo genetico. Eredità pesanti, ma Papa Chili e i vari Magic e Stockton sono dalla sua parte, scusate se è poco.
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A proposito di eredi del ruolo.
Nei Clippers quest'anno, dopo l'addio di Paul, è arrivato un Play puro come Teodosic, ed hanno preso un Rookie, che ricorda un po' proprio CP3, Jawun Evans.