La fine di un’era ― di Alessandro Zullo
“This is the end,
of our elaborate plans, the end”
Via con le lacrime, amici cari. Non provate a trattenervi, non sarebbe giusto. In fin dei conti è fisiologico, arrivati alla fine di ogni anno, guardarsi indietro e tirare delle somme. Una porta che si chiude, la fine di un’era.
Un’era fallimentare, come quella di Carmelo Anthony in quel di New York City. Tre viaggi ai playoff, due eliminazioni al primo turno, una semifinale di Conference, qualche piccola e pressoché insignificante soddisfazione individuale e niente di più. Questi sono stati i sei anni e mezzo di Melo in maglia Knicks. Un’era che comunque rimane lì, fissa nella mente di chi aveva creduto nella possibilità che un ragazzo di Brooklyn potesse riportare in alto una delle più gloriose e storiche franchigie della lega. Così non è stato, per una serie di eventi che ormai è inutile ripercorrere a posteriori. Perché per un’era che finisce, un’altra è ormai cominciata. L’era di un Unicorno che poco più di un anno fa era stato accolto in questo modo dai suoi futuri tifosi. L’era di chi, a 22 anni, si è già preso sulle spalle una città intera. E presto dominerà il mondo. Che Dio benedica Kristaps Porziņģis.
Ma voi avete capito di cosa stiamo parlando?
E che Dio benedica anche Kevin Pritchard, penseranno ad Indianapolis. Perché se i Pacers non hanno speso e non spenderanno nemmeno un istante a piangere per la fine del ciclo firmato Paul George, potendo immediatamente tornare ad esaltarsi per quella che ― allo stato attuale ― è per distacco la squadra rivelazione di questo inizio di stagione, questo lo devono proprio al loro GM. Al quale molte, moltissime persone dovrebbero delle scuse. Perché fino a due mesi fa Sabonis era solo un biondino dal cognome importante e Oladipo era un bidone sopravvalutato con un contratto spropositato. Adesso invece parliamo di due serissimi candidati al premio di Most Improved Player dell’anno, entrambi con contratti a lunga scadenza a cifre assolutamente ragionevoli. A questi poi ci aggiungiamo anche un pizzico di Myles Turner, uno che di cose carine ne farà vedere non poche nei prossimi anni. A Indiana c’è vita. Tenete d’occhio i Pacers.
Oppure la fine di un’era romantica e bellissima, come quella degli Atlanta Hawks e dei Memphis Grizzlies. Due squadre radicalmente diverse, quasi agli antipodi, con caratteristiche molto simili ai rispettivi animali di rappresentanza. Da un parte i Falchi: bellissimi, eleganti, veloci, letali. Dall’altra gli Orsi: più lenti, talvolta goffi, sicuramente enormi, letali allo stesso modo. Dei primi e della loro storica stagione da 60-22 non è rimasto proprio più niente. Solo coach Mike Budenholzer, il condottiero, l’artefice primo di quella meravigliosa cavalcata, è ancora lì a bordo campo, a mostrare sprazzi di una pallacanestro che ― anche con interpreti a dir poco mediocri quali quelli attuali ― fa davvero innamorare.
I secondi, invece, hanno semplicemente dovuto cedere al peso del tempo e di un mutamento epocale che li ha resi anacronistici. Perché tutti ci siamo innamorati guardando Z-Bo portare a scuola il 99% dei difensori in post basso, Tony Allen riuscire ad annullare Kevin Durant per una serie intera, Tayshaun Prince, Mike Conley, Marc Gasol. Ma la verità è che pensare di vincere con il Grit and Grind nella lega dei Golden State Warriors e degli Houston Rockets era semplicemente troppo. Quindi giusto ripartire, anche se la dirigenza non sembra ancora avere le idee troppo chiare. Perché far fuori coach Fizdale, quella che poteva essere davvero la pietra angolare della nuova era dei Grizzlies è stata decisamente una mossa avventata, a dir poco.
Ma il 2017 ha anche segnato la fine dell’era dei Dallas Mavericks, avviati al secondo anno consecutivo senza Playoff e sono ormai in completo disfacimento. Il futuro non sembra poi così roseo al momento, con il solo Dennis Smith Jr. a regalare qualche raggio di sole nella tetra oscurità texana. Ma lasciamo perdere il futuro per un attimo, e crogioliamoci nei ricordi di anni bellissimi. Vogliamo solo far riaffiorare alla mente le immagini di un titolo, il primo titolo, vinto contro ogni previsione, con una squadra operaia, un coach straordinario e il miglior giocatore europeo che abbia mai messo piede su un parquet degli States: Dirk Nowitzki. Vecchio, acciaccato, ma che in determinati frangenti rimane ancora un qualcosa di quasi metafisico. E se come il sottoscritto avete avuto la possibilità di esserne testimoni, siatene contenti. E lasciate andare qualche lacrima.
Ma non siate troppo tristi in conclusione: per un ciclo che finisce, l’alba di un nuovo domani sta nascendo. E il futuro della lega è in mani più che buone, viste le sempre più frequenti apparizioni di Alieni Non Completamente Identificati.
I Nuovi Mostri ― di Jacopo Gramegna
La velocità con cui le nuove leve si sono messe nelle condizioni di cominciare a conquistare pezzi sempre più rilevanti di NBA dovrebbe mettere in apprensione quella generazione-di-fenomeni con la quale la stragrande maggioranza di noi è cresciuto. Non che si avverta un particolare bisogno di rottamare tutti gli ultratrentenni che non si chiamino LeBron James, ma la veemenza con cui certi millenials hanno fatto irruzione nella lega professionistica più importante al mondo ricorda molto da vicino quel meteorite che, qualche milione di anni fa, ha portato all’estinzione di quasi tutte le specie viventi sul pianeta terra segnando la nascita di una nuova era per il mondo.
A ben vedere sembrano diverse le specie in via di estinzione: i Nuovi Mostri hanno, infatti, la capacità di ridefinire tutti i canoni di valutazione della pallacanestro per come la conoscevamo. Dite definitivamente addio al basket predicato sui ruoli, sui lungagnoni che giocano solo nei pressi del ferro, sul playmaker impersonato dal ragazzo più piccolo del team. Date il benvenuto agli Unicorcorni, autentici troll che si muovono per il campo come leggiadre ballerine d’opera, uomini bionici capaci di giocare in cinque ruoli su entrambi i lati del campo. A voler essere proprio catastrofici potremmo anche salutare gli specialisti per come li abbiamo conosciuti: addio agli agenti difensivi, a chi sa solo tirare. Forse non è ancora il momento di salutare queste due categorie ontologiche vecchie quanto la NBA, ma la direzione tracciata è sicuramente quella.
Generazione Unicorni all’opera nel cancellare i campioni del passato…
C’è davvero bisogno di fare nomi? Giannīs Antetokounmpo, Ben Simmons, Karl-Anthony Towns, Joel Embiid, Kristaps Porziņģis, Nikola Jokić. Per ora ci fermiamo a questi nomi, anche se la lega già pullula di almeno altrettanti mostriciattoli pronti a sbocciare: se pensate che mi riferisca, per esempio, a Jayson Tatum, avete ragione. Rileggete l’elenco: c’è qualcosa che questi giocatori non sappiano davvero ― o non sapranno mai ― fare? Non sforzatevi: è evidente che non ci sia nessun ragionevole ceiling per questa generazione. L’impressionante versatilità di questi giocatori è, senza dubbio, la prima cosa che balza agli occhi, assieme alle loro qualità fisiche, tecniche ed atletiche da freaks: braccia lunghissime, capacità di correre il campo, doti di ball handling da esterni purissimi. I più puntigliosi asseriranno che Giannīs e Simmons non hanno ancora un tiro affidabile, che la riserva sulla forma fisica di Embiid è ben lontana dall’essere sciolta, che Jokić e KAT sono lontani anni luce dall’essere difensori di impatto, che la costanza su base stagionale di KP è tutta da testare. Ma c’è davvero qualcuno che scommetterebbe ad occhi chiusi contro la loro capacità di evolvere, completarsi, andare oltre i propri limiti e prendersi la lega? Secondo me davvero in pochi sarebbero pronti a farlo.
Solo nel 2017 abbiamo scoperto che Antetokounmpo è già in grado di portare praticamente da solo i Bucks ai playoff, che Towns è già un giocatore da 2000 punti e 1000 rimbalzi stagionali (e questa è la cosa meno intrigante per i suoi ammiratori), che la New York di Kristaps è già migliore di quella di Melo, che Jokić è già la perfetta personificazione del point-center che tutti i general manager sognano e che la Philadelphia di Joel e Ben è già una squadra che può competere per i playoff ed attrarre le attenzioni di LeBron.
La rete brulica di video come questo: se due dei quattro-cinque-sei migliori giocatori su cui costruire li ha Philadelphia, dite che LeBron potrebbe davvero farci un pensierino?
Malgrado le premesse da Armageddon, non sarà ragionevolmente il 2018 l’anno in cui questa generazione si prenderà la lega, costringendo chi non è in grado di adattarsi all’estinzone. Il 2018 sarà, però, l’anno in cui un gran numero di pezzi andranno a posto: è quasi certo che tutti questi ragazzi disputeranno i loro primi playoff, qualcun’altro magari riuscirà ad andare oltre il primo turno, per qualcuno si spalancheranno addirittura le porte dei quintetti All NBA.
L’anno che sta per cominciare sarà quello in cui quell’ossessione chiamata vittoria si insinuerà per la prima volta nelle loro menti. E, come diceva Dominic Cobb in Inception, un’idea di questo genere può essere un parassita davvero difficile da estirpare per i loro avversari. Il 2018 sarà l’anno che darà il via al countdown finale. Il mondo è avvisato: adattarsi o estinguersi.