Far parte dei Los Angeles Lakers implica, anche nei peggiori anni della storia della franchigia, una costante esposizione sotto i riflettori e un elevato livello di aspettative. Ne sanno qualcosa i due rookie Lonzo Ball e Kyle Kuzma, che in questa prima fase di stagione, seppur per differenti motivi, hanno catalizzato le attenzioni dei media. Inoltre ai Lakers, il cui record di 11-24 a fine dicembre non lascia presagire ambizioni di playoff neppure quest’anno, si parla tanto anche di chi ancora non c’è: è risaputo, infatti, che il front office stia lavorando per liberare spazio salariale, al fine di dar la caccia a uno o più prestigiosi free agent nella prossima estate, restituendo competitività immediata al roster e puntando quest’anno, essenzialmente, allo sviluppo dei giovani e al rafforzamento di un’identità di squadra sotto la guida di coach Luke Walton.
Tutto questo, però, rischia di far passare in secondo piano l’evoluzione di un sophomore di appena vent’anni dal fisico intrigante e dagli enormi margini di crescita: non per niente, in tempi non sospetti, il President of Basketball Operations Magic Johnson ha dichiarato Brandon Ingram unico incedibile, nonostante un primo anno tutt’altro che brillante. Anche se certi scenari in NBA non sono mai del tutto prevedibili, è auspicabile che Ingram possa diventare una delle pietre angolari dei prossimi Lakers da titolo. Al netto dello show mediatico che suo malgrado accompagna Lonzo e dell’esplosione del numero zero dalla University of Utah, lo sviluppo di Brandon Ingram è in realtà fin dall’inizio uno dei temi portanti della stagione dei Lakers. Perché uno come lui, per cui è stata spesa la seconda scelta al Draft 2016, ha tante, troppe potenzialità da esprimere per non puntare a diventare un’ala completa, in grado di dominare in attacco e in difesa, grazie a una struttura fisica assolutamente attuale con un 2,06 dichiarato di altezza e un’apertura di braccia di 2,22.
Prima di alcuni problemi ai quadricipiti che lo hanno messo fuori per due partite intorno a Natale, sostituito da un altro rookie ancora, Josh Hart, nelle prime trenta di questa stagione Brandon Ingram ha occupato stabilmente il ruolo di ala piccola titolare con 35,2 minuti giocati, rispetto ai 28,8 in cui veniva impiegato nel primo, faticoso anno NBA. Le cifre, adesso, sono migliori. Innanzitutto, la sua produzione offensiva ha avuto una notevole impennata, passando da 9,4 punti a partita ai 16,1 attuali, ed è questo il dato principale. Un aumento accompagnato da una significativa crescita generalizzata quasi in ogni settore: percentuale dal campo (da 40,2% a 44,4%), da tre (da 29,4% a 31,5%), ai liberi (da 62,1% a 67,9%), rimbalzi totali (da 4,0 a 5,4), assist (da 2,1 a 3,3). Numeri che trovano conferma anche nelle statistiche avanzate: la percentuale effettiva dal campo è salita da 44,2% a 46,3% così come quella reale di tiro (da 47,4% a 51,0%), ma ci sono altri due indici che attestano la centralità che Ingram sta sempre più assumendo nei Lakers: il PER (Player Efficiency Rating) è salito da 8,5 a 12,1 e l’usage dal 16,8% al 21,8%, oltre a una crescita nell’assist percentage da 10,5% a 13,9% e negli assist su 100 possessi da 3,5 a 4,4, testimonianza di un maggior coinvolgimento nel gioco. Leggermente aumentate le palle perse (da 1,5 a 2,6), ma in un contesto di squadra in cui i Lakers sono i penultimi dell’intera lega con 16,5 turnovers a partita (peggio di loro solo i Sixers con 18,8), peccati di gioventù e conseguenza naturale di una continua ricerca del passaggio e del gioco di squadra voluta da coach Walton.
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“They say the doors will open up as soon as you find the missing key”, dicono che le porte si apriranno non appena trovi la chiave mancante: dalla frase che Brandon tiene sul suo profilo Twitter, si evincono l’attitudine al continuo miglioramento, il carattere tenace e la forte etica lavorativa che contraddistinguono il nativo di Kinston, North Carolina, patria di Jerry Stackhouse, Cedric Maxwell, del compianto Charles Shackleford, ex Caserta. Un’area depressa e difficile, in cui la palestra gestita da suo padre Donald ha costituito un efficace antidoto ai rischi di perdizione per il piccolo Brandon, quattro volte consecutive campione statale di high school e poi volato a Duke alla corte di Coach K, uno che di formazione umana prima ancora che cestistica ne sa qualcosa. Dall’one-and-done a Krzyzewskiville alla seconda chiamata al Draft è storia non recente, ma recentissima, perché non va dimenticato che Ingram ha compiuto appena 20 anni il 2 settembre 2017 ed è stato uno dei più giovani ad approdare in NBA dopo l’introduzione dell’età minima dei 19 anni al millesimo. Quindi, a maggior ragione, le sue prospettive vanno considerate in un’ottica almeno di medio termine.
Lo show di Brandon Ingram nell’unica apparizione alla Summer League di Las Vegas
Con la scelta di Ingram, dietro al solo Ben Simmons e davanti a Jaylen Brown, i Lakers hanno chiaramente investito sul potenziale. Lui, da parte sua, sa bene di essere ancora un diamante grezzo e che la costruzione della propria carriera professionistica deve inevitabilmente passare da un duro e costante lavoro di crescita nel fisico e nella tecnica. Dopo le difficoltà di adattamento nella stagione da matricola e le cifre non entusiasmanti, i frutti di un’estate trascorsa a lavorare sul tiro (con Adam Keefe) e sul rafforzamento fisico, già intravisti nell’unica e confortante apparizione alla Summer League di Las Vegas, si sono poi manifestati in autunno quando si è cominciato a fare sul serio, anche se finora le prestazioni di Brandon necessiterebbero comunque di una maggiore continuità.
Nel frattempo, non sono state affatto infrequenti le sue prestazioni da star, a cominciare dai 32 punti segnati a fine novembre di fronte ai Golden State Warriors, tirando con il 57,1% dal campo, seguiti pochi giorni dopo dal suo canestro da tre vincente nel 104-107 ottenuto a Philadelphia, senza dimenticare le doppie-doppie con Washington (19+10), Brooklyn (18+10) e Cleveland (26+11) rispettivamente con 50,0%, 53,8 % e addirittura 66,7% nei field goals e le escursioni sopra il ventello a Phoenix (25) e ancora con i Sixers (26).
Contro i Sixers, Lonzo potrebbe andare a canestro,
ma preferisce scaricare sul liberissimo Ingram per il game winner.
L’aspetto più evidente che risalta osservando giocare Brandon Ingram è la sua predilezione per penetrare e attaccare il canestro: i suoi punti provengono per oltre il 60% dall’area pitturata, frutto di schiacciate, lay-up o tiri ravvicinati. Passando dal primo al secondo anno di NBA, i suoi tentativi da tre punti sono persino diminuiti da 2,4 a 1,6 a partita, a fronte tuttavia di una migliore selezione, dal momento che la percentuale è leggermente salita da 29,4% a 31,5%. Glielo ha richiesto lo stesso Magic Johnson: sfruttare altezza e braccia per attaccare il ferro, trovando ritmo in attacco (sono ancora troppi i palleggi prima di prendere una decisione) ed evitando di ricorrere troppo spesso a un jump shot che non è certo tra i più affidabili.
Due attacchi al ferro di Brandon Ingram contro gli Hornets.
Coach Walton usa spesso Ingram come point forward per portare palla (nel “derby” perso con i Clippers il 29 dicembre è partito addirittura point guard, ruolo in cui giocava da ragazzino, per l’assenza di Lonzo Ball), facendo leva sulla sua ottima visione di gioco e sulle abilità di palleggiatore e passatore e avvicinandosi così alle più moderne concezioni già sperimentate con successo in NBA con gli altri “3” puri dalle lunghissime braccia: Giannis Antetokounmpo, Kawhi Leonard e Kevin Durant. Quest’ultimo è il giocatore con cui sono stati avanzati i maggiori paragoni con Ingram e che da rookie aveva un misero 28,8% da tre, persino inferiore al 29,4% con cui il numero 14 dei Lakers ha concluso la scorsa stagione. Walton vuole che Ingram sia sempre aggressivo e che si muova con fluidità nell’attacco dei Lakers, prendendosi responsabilità e resistendo agli sforzi prolungati. E nel trattamento di palla sta inoltre migliorando l’uso della mano sinistra.
Istinto naturale, mezzi fisici e doti tecniche permettono a Ingram di essere un giocatore versatile su entrambi i lati del campo. Con l’altezza e l’apertura alare può sopravanzare nettamente i “3” più piccoli di lui, mentre quando capita in posizione di “4”, quella ricoperta al college in un contesto di small ball, può battere in rapidità il diretto difensore più lento o sfruttare il mismatch portando un piccolo in situazione di spalle a canestro.
L’approccio di Ingram alla partita è uno spirito da laboratorio per la ricerca di soluzioni sempre nuove e a livello di mentalità non ha paura di prendersi il tiro decisivo, come visto a Philadelphia. Per essere un giocatore completo, però, dovrà continuare a progredire nel tiro dalla distanza, elemento non certo indifferente nel basket che si gioca in quest’epoca. Gli è richiesto pure un sensibile miglioramento ai tiri liberi, perché diretta conseguenza dei suoi attacchi al ferro è un numero maggiore di viaggi in lunetta: nell’anno da rookie aveva a disposizione una media di 2,7 tiri liberi, ora sono più che raddoppiati a 5,5.
College years: Ingram a Duke.
Brandon Ingram è uno che non teme scontri e non lesina di buttarsi nel traffico in area per cercare la conclusione al ferro. È ben capace anche di ricevere al gomito, fronteggiare subito l’avversario e batterlo in penetrazione. Ingram presenta un mix potenzialmente devastante di atletismo e tecnica, è forte in transizione, il tutto in un giocatore ancora non pienamente formato, data la verdissima età. Il torace, ad esempio, è ancora molto stretto, il peso non raggiunge i 90 chili e complessivamente il fisico di Brandon, che era considerato piuttosto gracile anche per il massimo livello NCAA, necessita di un irrobustimento per reggere meglio i contatti fisici e per accrescere anche le doti difensive. “Tiny Dog” (questo il suo soprannome) resterà sempre un giocatore longilineo, ma rafforzarsi nella parte alta del corpo è quanto mai necessario per creare netta separazione tra sé e il difensore diretto fin dal palleggio, soprattutto nell’ottica di un successivo sviluppo da giocatore perimetrale che la sua altezza e l’ottima tecnica gli impongono. Tutto questo per tornare a essere quella macchina da mismatch che era ai tempi di Duke, in cui da stretch four portava fuori le più possenti ali forti e poi o tirava al di sopra delle loro teste con le sue lunghe braccia o li batteva in velocità.
Sviluppare un tiro temibile è ciò di cui ha più bisogno, dal momento che il 41,7% dall’arco con cui concludeva a Duke si è invece rivelato inadeguato alla distanza NBA e sta tuttora richiedendo una modifica della meccanica per arcuare la parabola e rendere il tiro più compatto e fluido. Anche se va sottolineato che, per essere un giocatore con simili caratteristiche fisiche, già dispone di una ragguardevole e tutt’altro che semplice coordinazione. La chiave del suo futuro risiede nell’incremento della forza fisica, in quanto la sua corporatura troppo magra gli ha creato difficoltà soprattutto in difesa nel primo anno (seppur all’interno di una difesa di squadra piuttosto deficitaria), e nella continuità in campo, per vedere se saprà trasformarsi in un giocatore davvero completo in grado di tirare, passare, attaccare il ferro e spingere in velocità.
È ancora presto per dire se Brandon Ingram potrà diventare veramente una star assoluta o un giocatore franchigia, o soltanto un ottimo elemento all’interno di un sistema vincente, o se finirà in qualche trade. Ma con un fisico del genere unito alle qualità tecniche, provarci è fondamentale. Aver debuttato in una squadra piuttosto disfunzionale come i Lakers di questi anni non lo ha certo aiutato, tuttavia il vento sembra che stia cambiando: dall’estate 2018 potrebbe ritrovarsi accanto ben altri compagni, mentre è un buon segno l’ottimo legame stabilito con Lonzo Ball, che tra l’altro riesce a fargli arrivare qualche assist in più. Così come molto interessante sarà la nascente combinazione con un Kuzma stellare. Il carattere e la testa sulle spalle saranno sicuramente le ulteriori, ma non meno importanti, armi di Brandon Ingram. La consapevolezza del percorso che lo attende è ben rappresentata anche dal fatto di aver ereditato in spogliatoio, sia al training center sia allo Staples, l’armadietto di una persona i cui due numeri di maglia avuti con i Los Angeles Lakers sono finiti appesi sul soffitto: Kobe Bryant, a cui Ingram ha detto di ispirarsi. Ottima scelta, Brandon.
Francesco Mecucci