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Esclusiva NbaReligion: Intervista all’insider NBA Riccardo Pratesi

L’NBA è un mondo fantastico, lo sappiamo tutti, che ammalia e conquista sempre più persone anche alle nostre latitudini. Quello che forse non tutti sanno è che molti nostri connazionali ne sono ormai parte integrante: è il caso di Riccardo Pratesi, senese DOC ma ormai americano di adozione.
Dopo 12 anni a La Gazzetta dello Sport, dove ha “coperto” prima la Juventus e poi la Nazionale, nel 2014 ha abbandonato l’Italia per trasferirsi in USA, lavorando come corrispondente per Sky Sport e Rivista NBA oltre che per la rosea, e raccontare la sua grande passione: il basket NBA.
San Antonio è stata la sua prima casa, Minneapolis quella attuale, in mezzo due stagioni nella Bay Area: 30 arene visitate, una miriade di esperienze vissute che ha deciso di raccontare nel suo libro, uscito lo scorso Novembre, 30 su 30. Uno spaccato della realtà sportiva (e non solo) americana, vissuta live, all access, che consegna anche a noi un ideale pass per accedere in quel meraviglioso mondo chiamato NBA, anche a svariate miglia di distanza.

Noi di NbaReligion.com, lo abbiamo contattato e, tra una partita dei T-Wolves e una dei Vikings (franchigia NFL di Minneapolis) ha trovato il tempo per rispondere a qualche domanda. Un’intervista colma di spunti interessanti, riguardanti l’universo sportivo a stelle e strisce.

1- Nel tuo libro racconti delle 30 arene che attualmente “popolano” l’NBA e che hai visitato durante le tue stagioni ma io voglio iniziare da una che (purtroppo) non c’è più: la Key Arena di Seattle. Come sappiamo nel basket NBA vige, in modo molto pronunciato, la legge del business, pertanto ti chiedo (con una nota di nostalgia): alla luce del progetto della nuova arena, che probabilmente verrà approvato dal Consiglio Comunale della città e dalla lega stessa, vedi possibile il ritorno di una franchigia a Seattle, città che vive di basket?

Seattle è città di pallacanestro, come testimoniano la tradizione di high school, e l’Università di Washington, che di recente ha prodotto Thomas, Murray e Fultz, come prospetti NBA. Le memorie delle imprese di Payton e Kemp, la pesca al draft di Durant, sono ancora vive nella memoria di quella comunità. Ma l’NBA è anzitutto un business. Le franchigie funzionano come punti vendita in franchising di una ditta, appunto. Se un negozio non funziona, trasloca altrove. Non riuscendo a massimizzare i ricavi senza una nuova Arena cittadina, la franchigia è stata trasferita a OKC. Silver, il Commissioner, conoscendo bene la passione di Seattle per l’NBA, ha tenuto la porta aperta a un futuro ritorno della pallacanestro dei professionisti. Ma servono o un allargamento della lega a 32 squadre – modello NFL – o la crisi di un altro mercato che faccia chiudere bottega alla stessa, altrove. Nel mio libro Riccardo Fois – assistente allenatore di Gonzaga University e dell’Italia di Coach Messina all’Europeo 2017 – racconta il travaglio dello stato di Washington (quello di Gonzaga, locata a Spokane), senza l’NBA a Seattle.

2- A proposito di Riccardo Fois e Gonzaga…Nel tuo libro si trovano sempre parallelismi tra NBA e basket collegiale (che in molte città supera per interesse e per numero di tifosi quello dei PRO) e quindi, conoscendone la tua grande passione, ti chiedo un giudizio sulla prossima classe del draft e quali sono i giovani più interessanti.

Ho avuto la fortuna e l’opportunita di visitare circa 50 campus universitari. E ho seguito live il Torneo Ncaa nelle ultime 3 stagioni. Mi ripropongo di farlo anche quest’anno. Ho già nel mirino il Regional nel Nebraska….La passione per il college basket risale ai miei anni da teenager. Dal 2004 a oggi, come racconto nel libro, ho poi visto partite a Duke, Stanford, California, LSU, Memphis, Florida State, e molte altri “templi” . L’atmosfera studentesca e’ unica, e ancor piu affascinante dell’approccio business NBA. Nel mio libro in particolare narro della passione per la March Madness in Indiana e North Carolina, con il Kentucky gli stati statunitensi della pallacanestro universitaria. E vasi comunicanti per Pacers e Hornets. I viaggi on the road in auto a Butler, Indiana, Duke, Carolina e Wake Forest sono stati illuminazioni giornalistiche e personali. Sui prospetti intriganti: anzitutto Bagley, lungo di Duke, favoloso attaccante, sia fronte che spalle a canestro. Poi Ayton, lungo di Arizona capace di fare la differenza su entrambi i lati del campo e Bamba centro di Texas, per ora fattore soprattutto difensivo. Come guardie mi intrigano Young di Oklahoma, tiratore pazzesco che segue a Norman le orme di Hield, ma con prospettive superiori e Sexton, point guard di Alabama selvaggia, ma super competitiva. Questi sono tutti “freshmen” futuri one&done: una stagione (mezza…) sui banchi di scuola e poi di corsa a ritirare assegni milionari. Tra i “veterani” universitari mi affascina Bridges, secondo anno di Michigan State, lungo duttile mancino alla Josh Smith, con testa migliore, e naturalmente Grayson Allen, l’ultimo “cattivo” prodotto da Duke, guardia bianca col fuoco dentro e il tiro alla Redick.

3- Torniamo ai PRO e ad uno dei dibattiti più accesi tra gli appassionati NBA, almeno da questa parte dell’Oceano, riguarda lo squilibrio tra Western Conference ed Eastern Conference, che in qualche modo “falserebbe” i Playoffs visto che la prima è nettamente più qualitativa della seconda. Secondo te è possibile un cambio di regolamento oppure è un discorso puramente ciclico visto che a metà anni ’90 i ruoli erano invertiti? E qualora si decidesse di cambiare, quale potrebbe essere lo scenario?

La differenza qualitativa tra Western Conference e Eastern Conference negli ultimi anni e’ stata palese. Con il Selvaggio West molto piu competitivo. Per dire la verità in questa stagione la forbice sembra essere quantomeno meno larga che nel recente passato ma soluzioni non ce ne sono. Nel senso che sono situazioni cicliche. L’NBA – come tutti i principali sport americani – si basa sul principio delle pari opportunità: anzitutto salariali, con il sistema della Lotteria del Draft come aiuto per le franchigie perdenti. La qualità della dirigenza di alcune franchigie rispetto ad altre – San Antonio e Golden State vengono per prime in mente – ha fatto la differenza, cosi come la capacita di attrarre stelle ad Ovest in misura superiore di quelle distribuite ad Est. Ma non c’e una “cura”: la logistica NBA non permette di “incrociare” le locations intersecando le conference geograficamente. Con 41 trasferte per stagione ogni franchigia e’ già costretta a viaggiare in continuazione, riducendo ai minimi termini i tempi per gli allenamenti, spesso circoscritti agli shootaround della mattina della partita. Il riemergere di franchigie storiche come Boston e Washington potrebbe alterare questo trend. Accentuato dalla scelta di tante star contemporanee di unirsi per creare supersquadre che garantiscano anelli.

4- In merito a quanto detto sulla qualità di alcune dirigenze, prima di Minneapolis e dei T-Wolves, hai vissuto le realtà di San Antonio con gli Spurs e della Bay Area con Warriors e Kings, realtà che rappresentano tre facce della NBA: i vincenti per antonomasia (almeno negli ultimi 20 anni), gli sfigati diventati improvvisamente cool e quelli che invece hanno fatto il percorso inverso e da cool sono diventati sfigati. Avendole vissute da insider, quali sono i motivi che hanno portato le tre franchigie dove sono adesso? E, nel caso degli Spurs, come sono arrivati a costruire questa “colture”?

Ho trascorso la stagione NBA 2014-15 da residente San Antonio, vivere la realtà Spurs di tutti i giorni e il contesto che la circonda, mi ha permesso di apprezzarne, appunto, la “cultura” vincente. Come sempre la differenza la fanno i giocatori: aver avuto campioni con la testa dei vari Robinson, Duncan su tutti, Ginobili e adesso Leonard ha permesso a questa franchigia di tramandare una serie di valori umani e agonistici unici, di mantenere negli anni uno spogliatoio ideale. Come cronista – potendo entrare in spogliatoio prima di ogni partita e dopo di ogni partita, per 50-60 partite l’anno, mi sono reso conto della differenza rispetto a spogliatoi “disfunzionali”. Poi la figura di Popovich, con la continuità che ha rappresentato negli anni, lo ha reso – come racconta Coach Messina in 30 su 30 – un coach sul modello dei santoni della pallacanestro universitaria. Il fulcro del programma di pallacanestro, piu che un condottiero occasionale. Poi la mancanza di pressioni di una città grande, ma fuori dalla rotta dei grandi mercati statunitensi, ha consentito agli Spurs di godere della passione quotidiana dei propri tifosi, ma senza effetti collaterali. Quando mi sono trasferito a Sacramento – seguendo Belinelli dai Kings – ho constatato quanto la distanza di 1h30′ d’auto (che può raddoppiare per colpa dell’indecente traffico californiano) possa essere grande. I Warriors, locati a Oakland (presto a San Francisco), sono un brand “cool” oltre che vincente. Rappresentano, pur in una città proletaria, l’opulenza della vicina Silicon Valley fuori dal parquet, e dentro l’Oracle Arena lo star power ben rappresentato da Curry e Durant, stelle epocali, ma pure da Green e Thompson, che regalano ai Guerrieri addirittura un quartetto di All Star. Ha aiutato non poco a stabilire la cultura del successo “cool” la trasparenza anche mediatica, adottata dal GM Myers e da Coach Kerr, favolosi comunicatori. Non si vince in un’unico modo: gli Spurs sono ermetici tanto quanto i Warriors “chiacchieroni”. I Kings sono stati invece l’esempio di una franchigia rovinata dalla mancanza di continuità a livello dirigenziale e di coaching – con troppi avvicendamenti nel front office e in panchina – e dalla presenza di una stella con la testa “sbagliata”. Boogie Cousins – per quanto talento unico sul campo – e’ stato una nuvola nera piazzata sopra la franchigia, che ha tenuto in ostaggio con comportamenti in spogliatoio e dietro le quinte, controproducenti per tutta l’organizzazione.

5- Da avido frequentatore di social media quale sono, specialmente Twitter, leggo molto spesso sul tuo profilo commenti non troppo esaltanti (per usare un largo eufemismo) sul modo di allenare di coach Lue, quindi ti chiedo, visto che hai avuto anche la fortuna di vivere sia Popovich che Kerr: in una lega palesemente di giocatori, quanto conta il ruolo dell’allenatore? E non ti sembra che sempre più franchigie stiano andando nella direzione di San Antonio, Dallas e Miami, dove il coach è da sempre al centro (e il centro) del discorso?

Dici bene: l’NBA e’ una lega di giocatori. Di stelle. Le vicende di Memphis – con Coach Fizdale cacciato nonostante il buon lavoro per rapporti pessimi con Gasol, l’uomo franchigia – e Cleveland, che ha puntato su Lue come “allenatore/amico” di LeBron, nonostante abbondassero candidati molto migliori, sono significative. Le franchigie che hanno la fortuna di avere un coach carismatico che possa attrarre stelle che gli permettano poi di “allenarle” e quindi di trattarle “alla pari” degli altri giocatori in spogliatoio, sono poche. E hanno in mano un valore aggiunto. Penso appunto a Pop/Kerr, ma anche a uno straordinario allenatore di sistema come Carlisle, a un emergente come Stevens. Un miglioramento c’è stato ma sono sempre casi isolati: l’allenatore NBA è più un manager che un insegnante di pallacanestro, in media. Fare la scelta sbagliata ha costi pesanti: permettere alla tua stella di imperversare è sinonimo di franchigia debole e soprattutto non ti mette al riparo da un possibile addio che dietro lascerebbe solo macerie.

6- Visto che siamo entrati in argomento LeBron: Siamo reduci da un’ultima free agency molto frizzante, prevedi movimenti di mercato altrettanto interessanti, da qui all’8 Febbraio (giorno della trade deadline) e durante la prossima estate? Dove finirà il Re?

Credo che il mercato di riparazione sia perfetto per i ritocchi, specie per le contender ma un pericolosissimo miraggio per chi vuole svoltare/cambiare faccia a lungo termine. Spinti dall’emotivita del momento si rischiano mosse controproducenti. Lo scorso anno Cousins era passato da Sacramento a New Orleans dopo l’All Star Game, c’era chi si aspettava fuoco e fiamme con lui, da parte dei Pelicans ma il tempo ha dimostrato che c’era un motivo per cui i Kings non vedevano l’ora di cederlo… Tanti particolari inediti su Boogie li svelo in 30su30, per i più curiosi….Sulla free agency estiva, invece, tutto gira intorno a LeBron. Lascia Cleveland? E nel caso, dove va? Io penso possa andarsene. E credo che  i Lakers siano i primi candidati ad aggiudicarsi i servizi del Re. Ma ci sara tempo per parlarne…

7- Se c’è una cosa che stona nel magico mondo NBA (almeno in questa stagione) è il problema arbitri visto che il rapporto tra questi ultimi e giocatori/allenatori/franchigie ai minimi storici. Nonostante ciò non esiste (almeno così sembra da lontano) il classico atteggiamento complottistico made in italy che interessa anche i media: si tratta solo di una diversa cultura oppure solo del proverbiale politically correct a stelle e strisce?

Il livello arbitrale NBA a mio parere e’ mediocre. Due metri di giudizio: per i comuni mortali e per le stelle, anzitutto. Poi la mancanza totale di buon senso, per cui si predilige troppo spesso la decisione di forma rispetto a quella di sostanza. Che preservi l’equità e lo spirito del gioco. Poi ci sono arbitri vecchi, vecchissimi. Non adeguati atleticamente ai ritmi degli straordinari atleti. Ma almeno gli arbitraggi sono pessimi per tutti. Semmai può essere favorita la squadra con piu stelle, perche il sistema tutela il campione che “vende” il prodotto oltre ogni immaginazione. Ma vedere arbitraggi di parte è rarissimo. Sul discorso complotti: negli Usa c’e un rispetto culturale per le regole e per chi le rappresenta di livello dogmatico. Che prescinde dal fatto che una norma sia giusta o sbagliata. Quindi, mentre le polemiche arbitrali sono presenti pure qui, il pensiero della “cattiva fede” non e’ quasi mai neanche esplorato. Semmai ci si lamenta per errori palesi. Senza troppi secondi pensieri, a livello di appassionati.

8- Tornando ad LBJ non possiamo non entrare nell’argomento Finals (che lo hanno visto spesso protagonista) e che, nelle ultime due stagioni hai vissuto in prima persona : ci puoi raccontare le sensazioni e le emozioni che hai provato e se realmente si tratta di un qualcosa che va oltre al basket?

Le Finals sono come il Super Bowl: un evento unico, speciale. I Playoffs NBA sono un’altra cosa rispetto alla pallacanestro giocata in stagione regolare. Le gerarchie cambiano: la capacita di eccellere sotto pressione non è scontata nemmeno per i campioni conclamati. Basta vedere quanto successo ad Harden nella serie del 2017 contro San Antonio. La capacita di “arrivare” alle Finals al meglio, dopo una stagione infinita, fa la differenza come mi ha dimostrato la versione “esausta” dei Warriors di due anni fa rispetto a quella “tirata al lucido” della passata stagione. Cambiano faccia persino le Arene, durante le Finals. Alla Oracle aggiungevano una sala stampa e una sala pranzo media, il “cerimoniale” diventa ancora più elaborato per le esigenze di public relations. Per fortuna, come media, l’accesso ai protagonisti resta gigantesco e consente di godersi lo spettacolo da insider, con info privilegiate. Unica nota stonata il posto in “piccionaia” che ci viene spesso riservato.

9- Mi ero promesso di non farti questa domanda ma devo cedere: Pronostico secco, chi vince l’NBA questa stagione? 

Non amo particolarmente i pronostici ma, se proprio devo, vedo molto probabile un quarto episodio di Warriors-Cavs con i primi favoriti (infortuni permettendo).

A nome di tutta la redazione di NbaReligion.com un caloroso ringraziamento a Riccardo per la disponibilità e un augurio di buon basket in vista di questa seconda metà di stagione.

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Pubblicato da
Gherardo Dardanelli

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