Se il tuo datore di lavoro si chiama Pat Riley e il tuo superiore diretto Erik Spoelstra, significa una sola cosa: che a Miami devi fare sul serio. In casa Heat è ormai così da un bel po’ di anni. La cultura dell’impegno e del lavoro duro – il famoso commitment da sempre predicato da Riley e la dedizione che accompagna Coach Spo fin dai tempi in cui era un semplice video coordinator – è il valore fondante della franchigia della Florida, e non ha importanza se nel giro di due anni il team ha perso uno dopo l’altro tutti i Big Three che hanno fatto vivere agli Heat le migliori stagioni della loro appena trentennale storia.
A Miami, oggi, la resilienza è uno stile di vita: le stelle passano, il ricordo dei titoli sbiadisce, ma si continua a lavorare e a tirare fuori gli attributi per restare competitivi senza rassegnarsi alla ricostruzione e alla lottery, tra l’altro con tutte le difficoltà di una situazione salariale che non dà praticamente margini di manovra. Con quasi 128 milioni di dollari, quello degli Heat è il quarto monte stipendi, dietro solo a Golden State, Cleveland e Oklahoma City, quindi il primo tra le squadre considerate non-da-titolo. Sempre che le voci di trade per Goran Dragic e Hassan Whiteside non cambino completamente le carte in tavola.
Intanto, non si scherza affatto con una delle coppie executive-coach più competenti e collaudate in assoluto. Dopo aver mancato i Playoffs soltanto per gli scontri diretti in negativo con i pari merito Chicago Bulls al termine della scorsa stagione regolare, in seguito ad una sorprendete rimonta (da 11-30 a 41-41), anche quest’anno gli Heat, dopo una partenza altalenante, sono di nuovo risaliti assestandosi stabilmente tra le prime otto della Eastern Conference: ad oggi sembra assai improbabile che vadano a mancare l’appuntamento con la post season, dove potrebbero recitare il classico ruolo della mina vagante o del rebus inatteso.
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Miami ha iniziato il 2018 confermandosi come una delle squadre più in forma del momento. La striscia positiva, iniziata il 30 dicembre con la vittoria di Orlando e interrotta a Chicago nel Martin Luther King Day del 15 gennaio, è durata 7 vittorie consecutive e nelle ultime 13 gare gli Heat hanno vinto 10 volte. Risultati che valgono l’attuale quarto posto ad Est di metà stagione con un record di 25-18. Sorpassate Washington e Milwaukee, si punta lo sguardo addirittura verso Cleveland, che continua a faticare. E anche se nella complessità di una regular season NBA la situazione può cambiare da un mese all’altro – a inizio dicembre infatti il record era 11-13 – Miami stavolta sembra intenzionata a recitare un ruolo da protagonista, sfoggiando un’identità di gioco ben definita, frutto del lavoro costante di Spoelstra con un gruppo di giocatori che, sulla carta, non avrebbe dovuto nutrire grosse ambizioni e che comunque ha ancora molti limiti (-0,57 di net rating).
Miami è una squadra giovane – età media 25,7 anni, contando pure Udonis Haslem – e molto atletica, che fa dell’intensità, del carattere e della difesa i suoi punti di forza. Nella stagione scorsa, gli Heat hanno avuto il quinto miglior rating difensivo della NBA (107,6). Quest’anno sono un po’ più giù, noni, ma con un rispettabile 106,5. E sono terribilmente efficaci quando riescono a tenere l’avversario sotto i 100 punti, con un record di 15-3, a dimostrazione che Dragic e compagni aumentano le loro possibilità di successo ogni volta che si fanno sentire in difesa e a rimbalzo. Infatti, i dati che preoccupano sono quelli in attacco: Heat ventunesimi nella lega per offensive rating (105,9) e ventisettesimi alias quartultimi per punti segnati (101,1 a partita, i peggiori a est). Sono anche lenti, con un pace di 96,9 possessi a sera (quartultimi in NBA e sempre in fondo alla Eastern), e perdono troppi palloni, con una percentuale di turnovers di 14,2% (idem). Un pochino migliore, invece, la situazione al tiro da tre punti: 36,5% dall’arco, quattordicesimo dato NBA, su 31,3 tentativi a partita, sesta posizione, dato che si traduce in un ottimo 55,7% di true shooting percentage.
L’abilità di coach Spoelstra è saper sfruttare pienamente le caratteristiche del roster a disposizione per creare un gioco in grado di rendere gli Heat competitivi contro squadre che li sopravanzano in qualità e talento complessivi. Miami pratica un sistema piuttosto egualitario, con panchina profonda e giocatori intercambiabili, e fa vedere un’interessante distribuzione delle responsabilità in attacco: non di rado, il tabellino di serata riporta parecchi uomini in doppia cifra, a volte l’intero quintetto. Le rotazioni sono ampie e l’elemento più importante, Goran Dragic, ha un usage rate di solo 26,4.
Il playbook di Spoelstra è estremamente flessibile, affidato a un read-and-react in cui a rivestire cardinale importanza sono il movimento continuo con blocchi, tagli, spaziature, pick-and-roll laterali. Una fluidità di ruoli e posizioni necessaria per confondere le idee agli avversari e per sopperire alla carenza di talento individuale, salvo poi provare a cavarsela con quei “tiri ignoranti” di basiliana memoria affidati a Dion Waiters (ora fuori per infortunio) e soprattutto a Wayne Ellington, il cui contributo dalla panchina è determinante.
Blocchi, tagli e… Wayne Ellington beffa Pascal Siakam.
Andando oltre le mere statistiche, ciò che non manca a questi Heat è indubbiamente il carattere. Quella personalità, riflesso dello spirito di presidente e coach, che permette di affrontare con il piglio giusto i match più importanti e i momenti cruciali di una partita. Per informazioni chiedere ai Boston Celtics, che di fronte agli Heat prima si sono visti arrestare la loro striscia di sedici vittorie consecutive e poi sommergere da Kelly Olynyk (pedina tattica fondamentale per Miami come stretch four e pure five) il quale ha sontuosamente schiacciato il canestro della vittoria a completamento del suo career-high di 32 punti al TD Garden. Oppure chiedere ai New York Knicks, che si sono visti sfilare l’ennesimo successo al supplementare, o magari agli Utah Jazz, battuti con una winner-drive di Josh Richardson a cronometro in esaurimento. O, infine, ai Toronto Raptors, beffati dalla penetrazione al ferro di Wayne Ellington che brucia Pascal Siakam, e agli Indiana Pacers distanziati nei minuti conclusivi. Insomma, gli Heat non hanno paura di nulla e non si tirano indietro nei possessi decisivi. E per meglio comprendere questo, bisogna vedere cosa c’è alle spalle dei giocatori che compongono il roster. Tutto questo giocando di recente senza Waiters (il secondo realizzatore della squadra con 14,3, dietro Dragic a 17,0) e soprattutto Winslow, il terzo anno troppo spesso alle prese con gli infortuni.
Olynyk affonda i Celtics.
Una volta persi James, Bosh e Wade e alla luce dell’exploit nella seconda parte di regular season 2016-2017, la franchigia ha delineato più che chiaramente la propria strategia: quella di rivitalizzare carriere in declino o lanciare giovani sottovalutati, andando all-in su giocatori rigettati da altri contesti come Dion Waiters e James Johnson, finiti in giro per il mondo come Hassan Whiteside, passati da una squadra all’altra come Wayne Ellington o undrafted come Tyler Johnson, Derrick Jones Jr. e Rodney McGruder, mettendo in quintetto la quarantesima scelta del 2015 Josh Richardson. I contrattoni fatti firmare a Waiters, Johnson e Olynyk da un lato minano la flessibilità salariale, ma dall’altro cementano ancor di più il gruppo, fornendogli la continuità necessaria per assestarsi nel rendimento e dando possibilità a Coach Spo di mostrare la sua abilità nella gestione di personalità non facili (con i Big Three si è allenato ben bene…) e di ricavare il massimo da un gruppo di giocatori dalle carriere non lineari. Tutto questo restando ben salda la leadership di Goran Dragic, che dopo l’impresa di aver portato la sua Slovenia all’oro europeo, proverà a scrivere altre pagine di storia con la maglia degli Heat.