L’anno seguente, al motto di “Eyes on the Prize”, comincia con Phoenix alla ricerca di un altro titolo di Conference, forti del miglior attacco della NBA, del due volte MVP della lega, di un sistema ormai solido e rodato e di un roster di nuovo completo.
La regular season si chiude con un record di 61-21 e i play-off iniziano più che bene con la vittoria contro i temuti Los Angeles Lakers. Ma gli dei del basket, si sa, sanno essere davvero spietati. A sbarrare la strada verso il sogno dell’anello per Diaw e compagni è proprio un altro francese e la sua corazzata: Parker e i suoi San Antonio Spurs. Le due compagini si incontrano durante le Western Semi-Finals che vengono ricordate come “The Real Finals”. In quella serie successe di tutto: una testa involontaria tra Parker e Nash riduce quest’ultimo a giocare in una maschera di sangue il resto della partita; Ginobili impatta con Marion e porterà anche lui i segni del contatto sulla pelle per il resto della serie; Robert Horry, con un colpo d’anca, manda Steve Nash a far compagnia ai giudici di campo. Ne consegue l’espulsione per Horry, il tecnico per proteste a Raja Bell, e la vittoria per i Suns. Stoudmire e Diaw vengono sospesi per una gara per aver abbandonato la panchina, durante i concitati momenti della defenestrazione di Horry ai danni del play canadese.
Gara 6 si gioca a San Antonio: Diaw e Amar’e sono tornati ai posti di battaglia e Phoenix ha l’ultima vera chance di proseguire il percorso verso l’ambito titolo. Un grande terzo quarto dei giocatori di Coach Pop però, spazza via ogni velleità del team dell’Arizona, ponendo inoltre fine alla (breve) dinastia Nash-D’Antoni.
L’ennesima – e ultima – occasione persa per una delle squadre più spettacolari degli anni 2000.
L’anno seguente, due grandi nomi nuovi fanno capolino nell’organizzazione dei Suns: Steve Kerr come General Manager e Shaquille O’Neal, sotto le plance in cambio di Shawn Marion. I Suns ottengono per il quinto anno consecutivo un record di vittorie superiore al 50%, ma vengono sbattuti fuori ai Playoffs al primo turno dagli eterni rivali texani in casacca nero-argento.
Arriva il momento, per il nostro eroe, di cambiare aria e aprire un altro capitolo della propria vita cestistica. Nella stagione 2008-2009 pianta le tende, senza troppo entusiasmo, nel regno di His Airness Michael Jordan e dei suoi Charlotte Bobcats. Mentre le sue statistiche si stemperano (11,3 pts, 5,2 rebs, 4 ast), i dubbi riguardo la sua condizione fisica e soprattutto la sua volontà di giocare si fanno sempre più spazio. Il talento non è ovviamente messo in discussione: Diaw è senz’altro uno dei giocatori più versatili della NBA, capace di marcare nella stessa partita e senza batter ciglio giocatori esterni e centri avversari. Un artista di più di 2 metri e più di 100 kg in grado di mettere in ritmo i compagni per un buon tiro con una pennellata alla Magic Johnson (giocatore idolo di Boris sin da quando era piccolo).
Ma Boris, come un buon francese che si rispetti, ama la buona tavola e il buon in vino, e questo si vede. Inoltre la sua mentalità altruista e democratica nel gioco è vista come mancanza di mordente, in un sistema egoistico e individualista come quello a stelle e strisce.
In 4 stagioni in maglia Bobcats, Diaw ha collezionato una media di 11,6 punti 4,3 assist e 5,3 rimbalzi ad allacciata di scarpe.
Paul Silas, suo allenatore a Charlotte, parlando del suo (deteriorato) rapporto con Diaw, racconta un simpatico quanto significativo scambio di battute col francese.
“Vuoi diventare un All-Star?”
“Not really”
Dopo più di un’annata deludente, nonostante la presenza importante di coach Larry Brown, Jordan decide che è tempo di ricostruzione: mette al timone della squadra Rich Cho (ex GM a Portland) e spedisce via Stephen Jackson e Gerald Wallace, le due punte di diamante del roster. Boris non vuole far parte di questa ricostruzione, l’ambiente a Charlotte non è stimolante e il sistema non gli si addice come quello di Phoenix, quindi chiede di essere ceduto. Charlotte decide di assecondare le sue volontà, invece di rimanere con un giocatore svogliato e sovrappeso tra le proprie fila. Diaw è libero e può guardarsi intorno, alla ricerca di una squadra che veda il basket come lui: un gioco di squadra in cui sono banditi isolamento e ball-hogs.
A fargli gola sono i Boston Celtics: oltre ad un ambiente vincente e un allenatore (Doc Rivers) importante, ci sono ancora Rondo, Pierce, Garnett e Allen a rendere il team del Massachusetts competitivo ad Est. Ma gli dei del basket, gli stessi che erano stati così cattivi da mettere contro i due amici nelle Finali di Conference, sanno essere anche magnanimi. Il franco-belga, ormai divenuto una star a San Antonio, chiama il suo amico a spasso e gli propone una reunion in memoria dei bei vecchi tempi del liceo. Come Diaw abbia risposto alla convocazione di Parker e cosa sia successo dopo, lo sappiamo bene. Con impegno, pazienza e un paio di tentativi andati a vuoto, nella stagione 2013-2014 riuscirà a mettersi al dito l’anello di campione della NBA. E lo ha fatto da vero protagonista, in his own way, distribuendo assistenze ai compagni come se piovesse (29 in tutto, miglior assistman di quelle Finals) e giocando il basket che piace a lui, sottobraccio al suo vecchio e caro amico d’infanzia Tony.
“Tony is like a brother to me.” – Boris Diaw
Tornando alle considerazioni sugli eroi di cui parlavamo all’inizio, possiamo finalmente tirare le conclusioni su questo grande campione dello sport che è Boris Diaw e su ciò che la sua storia ci insegna: puoi essere una ballerina in un corpo da camionista, puoi prenderti gli insulti dell’allenatore perché hai preferito un extra-pass ad un facile appoggio, puoi anche prenderti l’ultima fetta di pizza alla cena di squadra. L’importante, come ci insegna Boris, è che tu faccia le cose a modo tuo e che resti coerente col tuo modo di vedere il gioco e la vita. Goditi il gioco e goditi la “democrazia” dello sport. Un giorno, sorseggiando del buon vino rosso francese, potrai esclamare soddisfatto: avevi ragione, mon Diaw!