Per buona parte del ‘900 la figura dell’eroe è stata indissolubilmente legata ai protagonisti dei fumetti e delle graphic novel: personaggi con sgargianti costumi, nomi altisonanti e super-poteri unici, da cui milioni di – più o meno – giovani hanno tratto ispirazione.
Negli ultimi decenni, tralasciando i vari remake, abbiamo assistito all’ascesa di una nuova tipologia di eroe, ossia l’atleta professionista. Ognuno di noi, presto o tardi nella vita, si è ritrovato succhiare forza e ispirazione dal proprio idolo sportivo, che sia esso un calciatore, un rugbista o un tennista. Quell’uno su mille che ce la fa, che è diventato il miglior nel suo campo, che dopo tante difficoltà e altrettanti ostacoli è riuscito a risalire la china e a brillare come un diamante sulla vetta dell’Olimpo. Ed è normale che un personaggio del genere, quasi mitico, abbia tanto appeal su chi invece è ancora a metà della scalata e guarda in cima per vedere che tempo fa lassù.
A proposito di campioni sportivi, dicevamo, esistono fondamentalmente due tipi di personaggi. Il primo è la superstar, quel personaggio a metà tra un atleta e un divo di Hollywood, bello come un dio greco e con un fisico da modello. A questa categoria appartengono, a titolo di esempio, campioni del calibro di Cristiano Ronaldo e Rafael Nadal. Leggende dello sport, tanto amate quanto irraggiungibili, che sembrano appartenere a un altro tipo di essere umano, un’evoluzione della specie.
Il secondo tipo di campione sportivo è rappresentato da quello che potremmo definire “middle-hero”. In fatto di talento e abilità agonistiche, questa seconda categoria non ha nulla da invidiare a quella dei colleghi citati prima, qui non si parla di chi è più o meno forte. Il middle-hero è il campione della porta accanto, qualche volta ha anche lo stesso girovita del tuo vicino di pianerottolo, e probabilmente ha anche le sue pantofole in lana cotta. Non è un adone, non è circondato da fotomodelle e non dà l’idea di esser appena uscito dal parrucchiere, anche se siamo alla fine del secondo tempo della partita più impegnativa dell’anno. A questa categoria appartengono campioni dall’indiscusso talento come il rugbista Martìn Castrogiovanni, il bomber Riccado Zampagna e il cestista protagonista di questa storia: il francese Boris Diaw.
Boris “Bobo” Diaw è tornato quest’anno a giocare in Francia, in forza al Paris-Levallois.
Boris si avvicina alla palla a spicchi, dopo aver provato col calcio, all’età di 10 anni. Mamma Èlisabeth Riffiod, conosciuta come uno dei migliori centri del basket femminile transalpino, lascia che sia il pargolo ad avvicinarsi al suo sport, senza forzare troppo la mano. Qualche anno dopo, al liceo, Boris conoscerà il miglior amico di sempre, con il quale riuscirà anche a togliersi parecchie soddisfazioni in NBA e in casacca nazionale: Tony Parker. Tony all’epoca era già un nome noto del panorama cestistico francese, lo testimonia il suo esordio nella massima serie nazionale a soli 17 anni. Diaw, che di conosciuto fino ad allora aveva solo la mamma (“Sei il secondo miglior centro in famiglia” dirà scherzosamente coach Mike D’Antoni qualche anno dopo), andò a formare col franco-belga e con un altra figura nota, tale Ronny Turiaf, una squadra che prometteva di tenere alta la bandiera francese nel mondo negli anni a venire.
Ma facciamo un piccolo salto in avanti: è la stagione 2004-2005. Il nostro eroe è al secondo anno oltreoceano, in maglia Hawks. Il primo impatto con gli USA è stato discreto: 4,5 punti e 4,5 rimbalzi di media, statistiche che non hanno sbalordito ma che hanno permesso al nostro di prendere confidenza col gioco a stelle e strisce. Durante il secondo anno NBA, Boris si ritrova in un team che ha come punte di diamante personaggi come Al Harrington e Antoine Walker. Non è un segreto il perché coach Woodson si sia rivolto al francese, pregandolo di prendersi più tiri e più responsabilità offensive. La scena è andata all’incirca così. In piena crisi isterica all’ennesimo gioco in isolamento di Harrington, il leggendario allenatore sbotta:
“Bo’, ti prego, devi prenderti più tiri. Devi tirare!”
E il nostro eroe, con l’aplomb tipico dei figli di Francia:
“No no no, a me piace passarla”
Una visione completamente diversa del basket, quella del talentuoso giocatore transalpino. Una, come dicono gli anglofoni, pass-first mentality, che non trovava riscontro nelle strategie (o meglio, nelle non-strategie) degli Hawks di quel periodo. Diaw è un giocatore democratico, vuole che tutti i suoi compagni tocchino la palla e siano coinvolti nelle manovre offensive. Liberté, égalité, fraternité.
Il vostro lungo ideale, con gli occhi dietro la testa e le mani di fata.
Nel frattempo, a mettergli la pulce nell’orecchio che un modo di vedere il basket simile al suo in NBA esiste, ci pensa l’amico di sempre Tony. Il franco-belga si sta togliendo tante soddisfazioni giù in Texas in maglia nero-argento, tra cui il titolo fresco fresco di campione NBA del 2005 con MVP delle Finals incluso.
Ma i tempi non sono ancora maturi e un’altra strada si apre davanti ai piedoni del nostro mani di fata: i Phoenix Suns di Steve Nash e Mike D’Antoni. Il duetto delle meraviglie sta rivoluzionando la lega proponendo un gioco mai visto prima, veloce, creativo e soprattutto aggressivo. Il canadese in maglia 13 è il regista ideale di questo film, grazie alla sua capacità di attaccare in palleggio fino in fondo alla difese avversarie e di servire assist millimetrici ai compagni. Nella offseason, Joe Johnson e il suo ingombrante contratto lasciano l’Arizona alla volta di Atlanta. La contropartita per i Suns consiste proprio in Diaw più due future scelte.
Boris, nuovo innesto insieme al tenace difensore perimetrale Raja Bell, va a formare un roster di tutto rispetto, insieme a nomi importanti come quelli di Steve Nash, Amar’e Stoudemire e Shawn Marion. L’approccio con la visione del gioco del coach già playmaker di Milano è subito positiva: a Boris piace il sistema passato alla storia come seven seconds or less, lo definisce “intelligente ed efficace”, un meccanismo dove finalmente può far valere le sue doti di passatore e uomo squadra e dove nessuno gli chiede di essere il primo violino offensivo.
A differenza del nativo di Cormeilles-en-Parisis, il 2 volte MVP canadese non metterà mai un anello al dito durante la sua carriera.
Le sue statistiche personali si gonfiano fino a toccare i 13.3 punti, 6.9 rimbalzi e 6.2 assist a partita che gli consentiranno di mettere le mani sul premio di Most Improved Player. Ciliegina sulla torta di una stagione soddisfacente, i 34 punti rifilati ai Mavs in finale di conference. Purtroppo però, privi degli infortunati Stoudemire e Kurt Thomas, per i Suns la stagione finisce proprio in finale di conference contro i Mavericks (2-4).