“Inside the NBA” di questa settimana vi porta alla scoperta delle meraviglie slovene, dentro e fuori dal rettangolo di gioco. Goran Dragic, ospite di Zach Lowe, si racconta a 360°.
- Goran viene presentato in grande stile: “Uno dei miei preferiti nel mondo della pallacanestro.”
- La location ispira subito il primo argomento. La passata stagione degli Heat “sostanzialmente da 10-30 a 30-10” catalizza subito l’interesse. Apparentemente nessuno si sarebbe mai aspettato un’inversione di tendenza così drastica, nemmeno Dragic: “Eravamo a 6-7 partite dai Playoffs, e giocammo qualcosa come sette partite di fila in trasferta, 7 partite tutte perse con uno scarto minimo.”
- Girando il dito nella piaga ricordando i Playoffs sfumati per un soffio, il giornalista gli chiede se ce l’abbia ancora con i Nets per il turnover attuato contro Chicago nell’ultima sfida della Regular Season 2016-17. Il nativo di Lubiana non raccoglie la provocazione: “L’importante è trovarsi nella condizione di avere il destino nelle proprie mani, non in quelle di altri”
- Stile Heat: “Qui ti spingono al limite, ti fanno sentire ‘scomodo’ . Questa cultura non è per tutti. Io la adoro.”
- Non tollera giorni di pausa o giorni al centro-benessere, come li hanno ribattezzati a Miami: “Se mi prendo del tempo libero, poi sto male, sono fatto così. Ogni tanto, devo essere sincero, il mio corpo lancia segnali” — prosegue — “Sono magro, è una cosa di famiglia. […] Se voglio giocare fino a, diciamo, 38 anni, questa è la strada giusta.”
- Ha un numero considerevole di denti ricostruiti: ben 6. Le vicissitudini cominciarono sin dalla l’adolescenza: “Avevo 16/17 anni. Presi uno sfondamento e un ragazzo mi colpì con la testa. In quell’occasione persi quattro denti, giusto davanti.” Non è finita qui: “Mio fratello [Zoran, visto anche in Italia, a Milano, ndr] ne fece saltare uno colpendomi con una mazza mentre stavamo giocando. […] Ci ho fatto l’abitudine.”
- Dettaglio splatter risalente alla passata stagione. Si gioca al Palace of Auburn Hills di Detroit. Dragic sta portando palla in attacco, e deve far fronte alla pressione di Spencer— The Mayor—Dinwiddie, che sbracciando lo colpisce inavvertitamente. Gli uomini in grigio non fischiano nulla. Ricorda di aver sputato il dente e di averlo poi gettato a bordo campo, nei pressi della panchina. [Il tutto è documentato a questo link]
- Il flopping non fa parte del suo stile: “Non sono capace di farlo, forse sono l’unico europeo a non conoscere la tecnica. Quello è il mio problema.”
- Torna sulla decisione di salutare la nazionale slovena dopo il trionfo alla rassegna continentale dello scorso settembre: “Avevo già preavvisato la federazione e i media. Credo che finire la carriera in nazionale al vertice sia il miglior modo per congedarsi.”
- La finale, contro la Serbia, era anche una questione di famiglia: il padre è serbo, la madre è slovena. A tal proposito, Lowe gli ricorda che la tifoseria serba non ha mai accettato la sua scelta di giocare al di fuori dei confini nazionali e, cosa ancor più rilevante, di aver preferito un’altra nazionale: “È dura quando giochi contro di loro —commenta Dragic— conoscono il nome dei tuoi genitori, ti urlano contro cose pesanti.” Lowe fiuta l’aneddoto e insiste: “Quando dici ‘lanciano oggetti’, dici sul serio?” — “Sì, cose come accendini. Questa è la ragione per cui in Europa, quando si giocano certe partite c’è il plexiglas protettivo sulle panchine.”
- Igor Kokoškov, selezionatore della rappresentativa slovena e assistente agli Utah Jazz, ha raccontato un retroscena dell’ultimo Eurobasket: un lutto colpì Goran a pochi giorni dall’avvio della manifestazione. La situazione tenne in apprensione l’intero staff circa le condizioni psicofisiche del ‘Dragone’: “Onestamente, io stesso non sapevo neanche se sarei riuscito a giocare, ma questo, se possibile, mi ha dato una motivazione è una carica extra.”
- Si torna ai crampi della finale contro la Serbia: “Ho avuto crampi per tutto il secondo tempo. Igor mi chiese due volte come mi sentissi e io mentii a me stesso dicendo che ero in grado di proseguire.” A un certo punto Edo Muric, compagno di squadra, si mise a massaggiargli la gamba nella concitazione del momento.
- Piccolo intermezzo per ricordare la straordinarietà dell’impresa della banda di Dragic e Doncic: la Slovenia ha 2 milioni di abitanti.
- Se potesse, vorrebbe sempre vestire il #3 in memoria di Drazen Petrovic. In Europa non poteva perché i numeri andavano da 4 a 15. In seguito la regola variò per le nazionali. Vestì la numero 3 ai Rockets. A Phoenix era già stato scelto da Boris Diaw; a Miami sta bene con il 7.
- Petrovic era il suo idolo d’infanzia. Dopo la vittoria della Slovenia a Eurobasket 2017, le emittenti tv fecero visita alla madre di Drazen, interviste su di lui. Lei disse di volergli regalare la maglietta del figlio. Quando la troupe tornò in Slovenia lo misero al corrente del tutto. Al solo pensiero, Dragic ancora si emoziona: “Piansi per la prima volta di fronte alle telecamere. Ho scambiato la mia maglia della Slovenia con lei. Volevo ringraziarla di persona. Una settimana fa l’hanno messa nel suo museo di Zagabria.”
- Al suo ingresso nella lega, dopo essere stato scelto dagli Spurs, venne inseguito lungamente da Steve Kerr, che da GM lo portò a Phoenix. Lo scout della franchigia, Tod Quinter, lo visionò per la prima volta nel corso di Slovenia-Francia a Eurobasket 2007 e propose il paragone con Manu Ginobili: “Credo si riferisse all’abilita di penetrare al ferro, ma siamo diversi”, spiega Dragic.
- Come prevedibile, la transizione dall’Europa alla NBA non fu tra le più semplici: “Il primo anno tutti dicevano che io sarei stato Steve Nash e io non ho mai voluto esserlo. Sin dal giorno #1 sapevo di non poterlo raggiungere. Volevo essere semplicemente la migliore versione di Goran.” Anche in quest’occasione fu aiutato molto da Kokoškov, all’epoca assistente ai Suns: “Parlava la mia stessa lingua. Ero a casa sua un giorno sì e l’altro pure. Mi aiutò molto in quella fase di delicata transizione. È il mio eroe, nulla meno. Gli sarò sempre grato perché mi ha aiutato a raggiungere i miei obiettivi. Ora come ora non lo vedo come allenatore, ma come un membro della famiglia e un amico.”
- Rivive la chiamata di Rasho Nesterovic che sostanzialmente annunciò Kokoškov sulla panchina slovena un paio d’anni fa. Sorride e non manca di ricordare lo status di imbattuto del C.T.
- Assieme a Robin Lopez, entrato con lui nella lega, “subì il trattamento” da matricola riservato da Shaq ai nuovi arrivati: “A ogni partita casalinga dovevamo portare 24 Krispy Kreme Donuts, per giocatori e coaching staff. […] Fu assurdo perché ai tempi avevamo molti veterani che mangiavano sano. […] Shaq era forse l’unico a mangiare quella roba, assieme agli allenatori.”
- Shaq coreografo: “Ogni volta c’era qualcosa di strambo nelle introduzioni dei giocatori. A volte lui era Superman e lo si doveva sollevare, letteralmente: io portavo la gamba destra, Robin la parte destra del suo corpo e Jared Dudley e Lou Amudson la sinistra. Ci allenavano negli spogliatoi e da quel momento abbiamo cominciato a vincere.”
- Una volta si finsero birilli. Shaq simulò il lancio di una palla da bowling e Alando Tucker, l’ultimo colpito, barcollò prima di cadere per rendere al meglio l’idea.
- La celebre tastiera di ‘Big Diesel’ seguiva la squadra in trasferta. Dragic scherza: “A turno io e RoLo la trasportavamo ed era imponente. Solo alla fine della stagione ci svelò che era rotta.”
- Goran ripercorre col sorriso le fasi del ‘poster’ sul quale lo mise D-Rose: “Forse è stata una delle schiacciate più reboanti della storia NBA. Mi prese sul tempo in transizione e dovetti inseguire da dietro. L’unica cosa che avevo sentito erano le urla della panchina che mi invitavano a rientrare in difesa. […] Mi schiacciò in testa a due mani.”
- Shaq allenatore: “Ricordo una situazione di garbage time, partita sostanzialmente finita. Alvin Gentry chiamò time-out per disegnare l’azione successiva. Shaq prese in disparte me e RoLo e ci ordinò di giocare un pick-and-roll per cercare il tiro da tre. Disse di essere il coach.”
- La prima volta che fu scambiato, a Houston, ricevette la notizia sul volo verso Toronto con la squadra: “La trade deadline era alle 13:00 ora di Phoenix, noi decollammo attorno alle 11:30. Ricordo di aver schiacciato un pisolino.” Una volta atterrato, trovò il telefono pieno di messaggi: “Salutai tutti, rimasi in aeroporto per tre, quattro ore, feci il biglietto, mi imbarcai per Houston.” Il giorno seguente scese in campo contro gli allora New Jersey Nets.
- Prospettive Heat: “Possiamo fare molto bene. Sentiamo di aver fatto fatica in questa prima trentina di partite, ma abbiamo comunque un buon record. […] Adesso, in questo periodo a cavallo dell’All-Star Game, si fa sul serio. […] Dobbiamo migliorare soprattutto il nostro rendimento casalingo.”
- Trova assai divertente giocare con James Johnson: “È sempre in movimento […], è un collante per questa squadra.”
- Waiters Island*: “Non ci sono mai stato, ma lo apprezziamo quando è in quella modalità, specialmente sul finire delle partite. É swag e non distingue tra buoni e cattivi tiri. […] Stiamo cercando di facilitargli il compito per renderlo più efficiente.” *isola felice dove stanno Dion e tutti i fan di Dion.
- Dragic è mancino, ma la madre, ancora legata a pregiudizi del passato, l’ha obbligato a mangiare con la destra.
- Ogni tanto va a pescare: “Non è poi così male.”
- L’essere mancino gli ha dato qualche grattacapo alla guida, nel cambiare le marce: “Mio padre è istruttore di guida e ricordo che ai tempi mi rese la vita difficile. Ok, in autostrada, quinta sesta e vai liscio, ma quando attraversi il centro città è il peggio.”
- Non è convinto dalla moda eccentrica di Miami: “Mi piace vestire alla europea, skinny jeans e niente cappelli.”
- Per qualche anno ha avuto una Mercedes 63AMG. La famiglia si è allargata e ha ripiegato su un’altra tipologia di vettura, più comoda per dei bambini: “[In fin dei conti] guido da casa all’Arena, da lì all’aeroporto e indietro. Non mi importa.”
- Da non perdere in Slovenia: “Laghi di Bled e Bohinj. […] Lì vicino c’è uno strapiombo con un castello e all’interno hanno allestito un ristorante. È davvero romantico.”
- Chiusura a tema All-Star Game: “Nel 2014, a Phoenix, quando ho guadagnato la nomina ad un All-NBA Team, credo me lo fossi meritato. Se dovesse succedere ora, ben venga, ma non è in cima alla lista degli obiettivi.”