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Lo strano caso dei Minnesota Timberwolves

Sebbene quell’inebriante atmosfera densa di aspettative e di trepidazione che risponde al nome di “hype” circolasse già da diversi anni nel Minnesota, è stato solo quest’anno che gli amanti dei Process in tutte le sue declinazioni cestistiche hanno potuto finalmente vedere i frutti di tanti anni di sconfitte. Era da un po’ infatti che i Timberwolves non si presentavano alla consueta pausa dell’All-Star Game con ben 36 vittorie all’attivo e al quarto posto ad Ovest, dietro solo a Rockets, Warriors e Spurs. Nel confronto con le desolanti annate passate (ricordiamo che in quel di Minneapolis non si va ai Playoff dal 2004), i Timberwolves versione 2017-2018 ne escono senza dubbio alla grande, ma nonostante i risultati apparentemente molto positivi c’è ancora molto da lavorare alla corte di Tom Thibodeau.

Senza nulla togliere a quanto di buono visto fin ora, la truppa di coach Thibs mostra ancora difetti strutturali piuttosto marcati che, nel periodo dell’anno in cui ultimamente nel Minnesota il basket viene archiviato in soffitta, potrebbero limitare le prestazioni dei Timberwolves nella post-season. In questo senso, è opportuno partire dai tre uomini simbolo della squadra per trarre qualche spunto interessante sull’ondivaga stagione dei Minnesota Timberwolves.

Il buono, il meno buono e il cattivo

La nota più positiva in assoluto è Jimmy Butler. L’ex Chicago Bulls, arrivato in una trade apparentemente fin troppo vantaggiosa per i Timberwolves, rappresentava la pedina scelta da dirigenza e allenatore per far fare il salto di qualità. Sebbene fosse notoriamente uno dei pupilli di coach Thibs, nelle sue prime uscite stagionali il prodotto di Marquette ha dimostrato di non voler strafare, entrando in punta di piedi nello spogliatoio e nelle gerarchie dei Timberwolves. Tuttavia, una volta constatato che l’approccio graduale pagava più dazi che dividendi, Butler ha attivato una sorta di Westbrook mode, come spesso gli era capitato di dover fare anche a Chicago, caricandosi sulle spalle responsabilità e compagni e giocando un Hero Ball meno spettacolare ma più funzionale rispetto a quello della stella dei Thunder in versione “vedova di Durant”.

A riprova di quanto appena detto, se a novembre si era accontentato di realizzare “solo” 17,9 punti ad allacciata di scarpa, nel mese di febbraio Jimmy G Buckets sta viaggiando a ben 26,9 punti di media. Affinché funzionino, i giochi dei Timberwolves devono necessariamente passare per le sue mani, a prescindere dal fatto che si tratti di isolamenti (situazione di gioco che sfrutta 2,6 volte a partita e che frutta mediamente 0,96 punti) o di pick-and-roll giocati da portatore di palla (con 6,4 possessi mediamente gestiti e 0,92 punti portati alla causa di Minnesota). Considerando che Jeff Teague, sulla carta il playmaker titolare della squadra, gioca “solo” 6,2 pick-and-roll a partita e aggiunge mediamente 0,85 punti al totale di squadra, ci si rende perfettamente conto di come l’approccio timido e rispettoso di inizio anno sia già, a ragion veduta, un lontano ricordo. Inoltre, con un Butler in più in squadra, i suoi giovani compagni possono godere di maggiore libertà di manovra, oltre al fatto che la sua leadership e il suo talento consentono loro di giocare con meno pressioni, fattore che negli scorsi anni ha indubbiamente condizionato le prestazioni della squadra.

MVP? Beh, se non ci fossero in giro degli autentici mostri qualche pensierino avremmo potuto anche farcelo…

Jimmy’s Power

Eppure non è certo nella metà campo avversaria che Butler dà il meglio di sé: la confidenza con gli schemi di coach Thibodeau ha fatto di lui (con la complicità della manifesta indolenza dei compagni; anche in questo caso avremo modo di riparlarne) l’ancora difensiva della squadra. Il 6,3 fatto registrare in plus/minus (dato che l’avrebbe proiettato nella top 10 della lega se non fosse stato per le scintillanti prestazioni offerte Johnathan Motley, che nei 2,7 minuti trascorsi in media sui parquet americani pare aver fatto meglio di Butler) la dice lunga sul suo impatto a 360° gradi sul gioco dei Timberwolves. Il suo QI cestistico superiore alla norma gli consente di trovarsi quasi sempre nel posto giusto al momento giusto (se Minnesota è terza per palle rubate a partita è anche merito dei quasi due palloni, 1,9 per la precisione, che mediamente sradica dalle mani degli avversari) e, da vero e proprio leader difensivo, ma soprattutto emotivo, della squadra, non molla di un centimetro anche quando la situazione non lo imporrebbe.

A meno di 40 secondi dal termine della gara, con un punteggio a dir poco rassicurante, Butler si concede questa mostruosa giocata difensiva. Vedendo le immagini, sono due le domande che saremmo portati a farci. La prima riguarda l’effettiva urgenza di questo fulmineo ritorno in difesa a partita pressoché già archiviata: era davvero necessario? Ai fini del risultato ovviamente no, ma in qualità di leader della propria metà campo è compito suo lanciare un segnale a dei compagni che troppo spesso sottovalutano l’impegno difensivo richiesto per competere ad alti livelli.

Lo stesso discorso è applicabile anche in questa situazione di gioco. Quando Thomas si sbarazza del pallone (a prescindere che volesse tirare o passarlo a Randle), Teague e Towns restano troppo passivi, mentre Butler, prima abbandona intelligentemente la marcatura su Caldwell-Pope per sbarrare la strada a Thomas, per poi stoppare Randle quando tutti i suoi compagni si erano ormai rassegnati a concedere due punti facili agli ospiti.

Capitolo Towns. Nonostante non possiamo certo negare di essere di fronte ad uno dei migliori centri anche in prospettiva della NBA, le pause che troppo spesso si concede nella propria metà campo hanno fatto sì che spesso fosse bollato come un difensore mediocre. Ecco, in questo caso ci permettiamo di dissentire: non è tanto Towns ad essere sotto la media, quanto invece i suoi margini di miglioramento ad essere stati inferiori alle aspettative che lo circondavano al momento dello sbarco in NBA.

Una parziale giustificazione è stata portata dallo stesso KAT nel corso dell’intervista rilasciata a J.J. Redick nell’ambito del suo podcast: sin dai tempi del liceo, passando poi per il college (dove, è bene ricordarlo, aveva tutta l’aria di un futuro dominatore del pitturato) e per l’NBA, Towns non è mai riuscito a familiarizzare del tutto con un sistema difensivo a causa dei continui avvicendamenti dei suoi allenatori. Pur potendo contare da quasi due stagioni su un guru della difesa del calibro di Tom Thibodeau, Towns dà l’impressione di non aver ancora interiorizzato del tutto i rigidi dettami tattici dell’ex coach dei Bulls: nonostante alcuni segnali di ripresa, la sua trasformazione in un Joakim Noah che non sia un peso morto in attacco è ancora lontana dal vedere la luce, come abbiamo già avuto modo di vedere parlando di Butler.

Con Willie Cauley-Stein braccato da Taj Gibson, non si riesce a capire il motivo per cui Towns decida di tornare a presidiare il pitturato anziché stringere la marcatura su Fox, che oltretutto lo aveva affiancato nel corso dell’intera transizione difensiva.

Pur potendo vantare 1,5 stoppate rifilate in media agli attaccanti avversari, Towns non è ancora un rim protector d’élite (tipo Gobert per capirci). Come fa notare Jacopo Gramegna è “visceralmente attratto dalle stoppate”. Di per sé non sarebbe neanche un male, ma il suo desiderio di spazzare via il pallone dal pitturato lo porta ad abboccare con troppa facilità alle finte e a perdere di vista l’azione nel suo complesso. Lungi da noi voler peccare oltremodo di lesa maestà: passiamo alle note liete.

Se nella propria metà campo si può e si deve ancora migliorare, quando la palla è in mano ai Timberwolves Towns è libero di dare sfoggio di tutto il suo arsenale offensivo. In qualità di unicorno, il tiro da 3 non può che essere una delle sue armi principali: i tentativi sono rimasti sostanzialmente invariati rispetto allo scorso anno (3,5 a partita finora, 3,4 nel 2016-2017), ma la mira è migliorata sensibilmente, passando dal 36,7% al 42,1% di quest’anno – merito soprattutto della presenza di Butler in quintetto. Inoltre, la cinquantunesima doppia doppia della stagione siglata prima della pausa per l’All-Star Game (attualmente è anche il quinto miglior rimbalzista della lega con 12 carambole raccolte di media) gli ha consentito di pareggiare il record del Kevin Love dei tempi d’oro: insomma, al di là di alcune lacune, c’è decisamente di peggio in giro sui parquet americani. Prima di passare ad altro vi lasciamo con una GIF, sia per ridare giustizia a KAT dopo averne messo in luce le debolezze, sia per prepararvi a ciò che verrà dopo.

Qui probabilmente perde qualche tempo di gioco non scoccando la tripla con l’amico Cauley-Stein a diversi metri di distanza, ma ogni occasione è buona per ammirare ciò di cui è capace col pallone fra le mani.

Premessa doverosa: stiamo parlando di un classe 1995, il tempo è dalla sua parte e da quella dei Timberwolves più in generale. Tuttavia, se Butler è il buono e Towns è il meno buono, Andrew Wiggins non può che essere il cattivo.

In realtà, più che ad averla in sé, la cattiveria scaturisce in chi lo guarda giocare e poi ripensa all’hype che lo circondava nel 2014. In questi quattro anni, Wiggins non ha fatto altro che sedersi sugli allori del suo talento, evitando sistematicamente ogni opportunità di limare i difetti strutturali del suo gioco, quelli che fanno di lui un giocatore atipico nell’NBA dei giorni nostri. Quello che si nasconde sotto le spoglie di un all-around player è in realtà un giocatore che sa fare più o meno tutto, senza però eccellere in nessuna specialità. In questo caso stiamo parlando a buon diritto di un difensore sotto la media, che non ha ancora capito come sfruttare a dovere la sua stazza e la sua notevole wingspan.

Dovendo rincorrere Bogdanovic, Wiggins si stampa inavvertitamente su Gibson, per poi abboccare ingenuamente alla finta del serbo. Da notare anche “l’aggressività” di Teague nel rincorrere Buddy Hield.

La scarsa attenzione nella propria metà campo costituisce un tallone d’Achille piuttosto comune anche tra le star del basket a stelle e strisce. Il problema è che, laddove altri compensano con una faraonica produzione offensiva, Wiggins fa una discreta fatica anche nella metà campo glamour. In generale, la sua shot selection è tra le peggiori in assoluto nella lega, ma il vero e proprio dramma wigginsiano è la sua costanza piuttosto démodé nel prendersi tiri dal mid-range. Tra i primi 50 giocatori per conclusioni tentate in quella zona di campo (lui è 17° con 4,8 tiri a partita), la sua percentuale (35,5%) è migliore soltanto di quelle di Paul George e Giannis Antetokounmpo, che però eccellono in altre specialità e attualmente non sono neppure paragonabili al prodotto di Kansas.

Che altro dire, se non che una conclusione del genere, scoccata in faccia a ben 213 cm di Brook Lopez, può entrarti una volta sì e dieci no?

Dopo quattro anni trascorsi in NBA il tiro da tre è ancora una chimera (31,5% fin qui); inoltre, gli 1,7 assist, dato peggiore in carriera, sono davvero troppo pochi per un giocatore che gioca i suoi stessi minuti e si trova così spesso il pallone tra le mani. La buona notizia è che, con l’avvento di Butler, le conclusioni affidate alle incostanti mani di Wiggins sono sensibilmente diminuite (12,7 tiri tentati a partita fin qui a febbraio contro le 15,4 dello scorso novembre), ma non basta certo qualche sua fiammata occasionale per poter puntare in alto ad Ovest. Ormai non ci si aspetta più che possa diventare un leader da un momento all’altro: non lo è mai stato e con tutta probabilità non lo sarà mai, ma almeno finché Butler resterà in Minnesota riempire lo slot di capobranco non sarà certo un problema.

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Pubblicato da
Federico Ameli

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