Il primo ricordo recente di vero approccio al dilemma Nikola Jokic è stato durante le olimpiadi di Rio nel 2016, quando guardando una partita della Serbia ho notato, sollecitato dalla critiche piuttosto pesanti del telecronista, che questo centro dal fisico tutto-tranne-che-scultoreo era quasi avulso dal gioco della sua squadra, aveva la faccia di chi avrebbe voluto trovarsi in qualsiasi posto al mondo, ma non alla più grande manifestazione sportiva esistente. Eppure la stagione 2015-16, la sua prima in NBA con i Denver Nuggets, statisticamente non era stata di livello infimo, conclusa con circa 10 punti e 7 rimbalzi a partita in 21 minuti di utilizzo, non male per un centro europeo scelto alla 41 che doveva condividere il parquet con un giocatore sulla carta quasi suo doppione come Jusuf Nurkic. Quand’è, allora, che si può cominciare a parlare di inizio del processo e analizzare la vera evoluzione di quello che sembra essere il miglior prototipo dei nuovi centri-playmaker che stanno prendendo il sopravvento in NBA?
Un anno prima di scegliere Jokic, i Denver Nuggets avevano messo le mani su un altro centro balcanico dal talento raffinato: Josuf Nurkic. Alla sua prima stagione il bosniaco aveva cominciato a stuzzicare le fantasie della dirigenza, totalizzando 8 punti e 5 rimbalzi in 17 minuti a partita e facendo chiedere a molti addetti ai lavori se la franchigia del Colorado non avesse trovato il nuovo centro titolare per gli anni a venire. D’altra parte, Nurkic era stato scelto al Draft del 2014 con la 16esima chiamata assoluta, scelta che apparteneva ai Chicago Bulls e che era stata ottenuta da Denver insieme alla 19esima – poi rivelatasi GARY FREAKIN’ HARRIS – in cambio di Doug McDermott, considerato forse il talento più NBA-ready di quel Draft vista l’esperienza accumulata durante i quattro anni passati al college. Un anno più tardi come detto è arrivato Jokic, selezionato al secondo giro al Draft e entrato in punta di piedi nella lega.
Il suo impatto però si è dimostrato eccezionale e nel Colorado hanno iniziato a sognare in grande con la coppia slava. Ma i due non hanno mai funzionato giocando assieme e il front-office dei Nuggets è stato costretto a scegliere su chi puntare per costruire il futuro della franchigia.
12 Febbraio 2017: dopo una stagione in cui la convivenza non sembra pronta a generare i frutti sperati dalla dirigenza, Denver completa il processo durato un anno e mezzo scegliendo di puntare su Jokic, spedendo così Nurkic a Portland in cambio di Mason Plumlee. Molti hanno storto il naso, pensando che da un giocatore giovane e del talento di Nurkic Denver potesse ricavare ben altro (considerando anche che i Nuggets si sono privati anche di una prima scelta); ma l’aver deciso di rendere Nikola Jokic la pietra angolare su cui costruire la rinascita della franchigia ha permesso ai Nuggets di accelerare il processo evolutivo. E soprattutto ha permesso a Jokic di esplodere definitivamente.
La sublime unicità di Jokic
In una lega dominata da giocatori sempre più atletici, veloci e polivalenti dal punto di vista tecnico, ai lunghi (fisicamente) tradizionali non rimane che sviluppare un certa tecnica e versatilità per sopravvivere. Negli anni si sono sviluppati casi sempre più frequenti di giocatori capaci di stare al passo con la modernità NBA nonostante le loro dimensioni, i cosiddetti Unicorni.
Dal range di tiro di Kristaps Porzingis – il vero e unico erede di Dirk Nowitzki – alla facilità di apprendimento e mobilità di Embiid, dall’arsenale offensivo praticamente infinito di Anthony Davis e Karl-Anthony Towns alla strapotenza muscolare unita a incredibile rapidità di piedi di DeAndre Ayton (sempre più probabile prima scelta al Draft di Giugno). La cosa che risalta agli occhi è che tutti questi freaks possono contare su doti fisiche uniche nel loro genere. Non è il caso di Jokic, che un grande atleta non lo è mai stato (vedere per credere). Jokic non è ancora particolarmente continuo neanche al tiro da fuori (anche se sta crescendo, secondo BasketballReference.com quest’anno tira con il 37% da tre punti su 3.5 tentativi a partita), e certamente ha molto da imparare da quasi tutti i nomi sopracitati in difesa e sopratutto nella protezione del ferro. Come mai, allora, ci fa impazzire così tanto?
Facilitatore: la palla gli arriva nel cuore del proprio pitturato, neanche guarda un compagno libero ma si lancia subito in contropiede palleggiando, serve Barton per il tiro da 3 e ancora prima che il passaggio sia giunto a destinazione porta un blocco che ferma sia il suo marcatore, sia quello di Barton stesso.
La difesa è terrorizzata (è la partita della fastest triple double in history, ci torneremo), e l’unica scelta può essere quella di lasciare un non-tiratore come Hernangomez e raddoppiare il serbo, che però ottiene esattamente quello che voleva e, come se niente fosse, tira fuori un assist reverse schiacciato a terra per il tagliante, che non manca l’appuntamento.
Quello che fa di Jokic uno dei tesori preziosi della lega, quindi, non è un abilità particolare sviluppata meglio degli altri, ma la capacità di aver sviluppato meglio degli altri l’abilità di incarnare due diversi tipi di giocatore nella metà campo offensiva: lo scorer infallibile nel pitturato e che anche con il mid-range jumper può fare più che male (non si è fatto mancare 16 partite fra i 20 e 29 punti, una fra i 30 e i 39 e anche un quarantello); e il facilitatore capace ti portare palla per tutto il campo, attirare su di se l’attenzione di tre quarti della difesa avversaria e trovare un compagno libero da servire in ogni singolo possesso, any given night.
Jokic è dichiaratamente il playmaker della squadra. Un po’ per l’inaffidabilità delle point-guard a disposizione, coach Malone ha deciso di investirlo dei compiti di costruzione, potendo contare sulle sue straordinarie doti da passatore. Grazie al ruolo da point-center Jokic è in grado di dettare il ritmo della squadra (e non sono rare le volte in cui conduce la transizione offensiva direttamente da rimbalzo catturato) ed ha la possibilità di sfidare il marcatore in uno contro uno, giocare inesplorati pick-and-roll con giocatori più piccoli di lui o addirittura fintarli e trovare il presunto bloccante libero di ricevere la palla vicino al canestro.
Quando inizia l’azione, Jokic è quasi sempre in grado di battere il marcatore, tanto con il primo passo quanto in post (sia alto che basso), aprendo il proprio campo visivo e avendo la possibilità di servire Harris che ha già cominciato a muoversi prima di essere visto da Jokic. Quando la difesa si accorge del diversivo per liberare il tagliante, è troppo tardi.
E’ da questo momento che comincia una delle più belle storie d’amore cestistiche del 2017.
Il giocatore con cui Jokic si trova meglio e con cui riesce a dare sfogo a tutta la propria creatività offensiva è Gary Harris, arrivato ai Nuggets insieme a Nurkic nel Draft del 2014 con quella 19esima scelta di cui sopra, e che soltanto al secondo anno in NBA è riuscito a dare segnali dell’ottimo giocatore che poteva diventare. Quando la collaborazione offensiva con Jokic comincia ad essere cavalcata e anche coach Malone capisce il potenziale nascosto dei due, la produzione offensiva di Harris subisce un’improcrastinabile impennata che ne fa alzare i punti a partita da 12.3 a 14.9, gli assist da 1.9 a 2.9, la percentuale reale dal campo dal 53% al 58% alto e la percentuale da 3 punti dal 35% al 42% (via BasketballReference.com). Salto non proprio banale da effettuare all’interno di una stagione, per un giocatore soltanto al terzo anno.
Nonostante l’intesa tra i due i Nuggets alla fine non sono riusciti a centrare i playoff del 2017, concludendo con 40 vittorie e 42 sconfitte ed esattamente una partita dietro al 41-41 dei Blazers di Nurkic, ottavi ad Ovest (sliding doors). Questo però non ha scoraggiato l’organizzazione, che consapevole di avere un core più che interessante per le mani (con Jokic, Harris e Jamal Murray, sul quale torneremo più avanti, sui quali costruire) ha deciso di giocarsi le proprie carte nella scorsa free agency portando a casa Paul Millsap, firmato con triennale da 90 milioni di dollari.
L’aggiunta di Millsap sembra perfetta per i Nuggets, che aggiungono un altro lungo dinamico e in grado sia di far male da più posizioni che di difendere il ferro e servire a piacimento i taglianti, ma che dalla sua ha anche anni di esperienza sempre a livello più o meno alto. La coppia con Jokic sembra sposarsi perfettamente per caratteristiche tecniche e fisiche, con l’ex Atlanta fondamentale anche per migliorare la resa difensiva della squadra, vero tallone d’Achille. Lo staff tecnico, inoltre, crede ciecamente nelle possibilità di Jamal Murray di diventare una solida point-guard di livello NBA, e con il consolidamento del roster Denver viene unanimemente riconosciuta come una delle squadre che ha fatto il salto maggiore durante la off-season, venendo inserita tra quinto e nono posto in praticamente tutti i power-ranking di inizio stagione. L’anno della svolta sembra essere arrivato, i Nuggets fanno sul serio e Jokic ne è l’indiscusso deus ex machina.
Peccato che la NBA sia la lega che, forse più di ogni altra al mondo, è in grado di sconvolgere i piani architettati per mesi da un’intera franchigia in pochi secondi. Ed è così, infatti, che a metà Novembre 2017 proprio Millsap è costretto a fermarsi per colpa di un problema al polso che richiederà intervento chirurgico, decretandolo indisponibile almeno per 3 mesi (sì, evidentemente a Denver non avevano sofferto abbastanza un giocatore injury prone come il nostro Danilo Gallinari). I Nuggets hanno tenuto duro non perdendo il passo con le dirette avversarie ai Playoff, e se questo è accaduto molto del merito è da attribuire a Joker.
The Serbian Sensation takes over
A parte un filotto di sette partite saltate per infortunio dal 2 al 13 dicembre, Jokic si fa quasi totalmente carico della leadership della squadra dopo lo stop di Millsap, non va in doppia cifra solamente in 3 occasioni dal 5 gennaio al momento in cui sto scrivendo (23 partite, non poche), e alza le proprie medie per raggiungere praticamente il massimo sotto ogni voce statistica offensiva: i punti a partita passano da 16.7 del 2016 a 17, i rimbalzi da 9.8 a 10.6 (!), gli assist da 4.9 a 6 (!!!), e il suo Player Efficiency Rating (PER) – misura della produzione al minuto di un giocatore, standardizzata in modo da far risultare la media della lega 15 – raggiunge 23.6 (via BasketballReference.com).
La conferma di Gary Harris ad alti livelli e il primo grande salto di Jamal Murray sono due dei motivi principali per i quali Denver è ancora attaccata saldamente al treno Playoff (nel momento in cui scrivo ESPN parla del 55% statistico di probabilità di raggiungere la post-season), ma il centro serbo non può che essere il più importante.
Già unanimemente riconosciuto nella lega come uno dei pochi lunghi in grado di westbrookeggiare (in italiano, centrare triple doppie con continuità), dopo aver dato prova nella scorsa stagione di avere talento in questa specialità con 6 triple doppie, nel 2017-18 Jokic ha portato la questione to another level.
Con 21 partite di regular season ancora in calendario, le triple doppie del nostro sono già le stesse di tutta la scorsa stagione, ma il dato che più salta agli occhi è che tutte e sei sono arrivate dall’8 gennaio a oggi, compresa un’incredibile striscia di tre consecutive, tra le quali la più veloce tripla doppia della storia NBA, il 16 febbraio contro i Bucks, realizzata in soli 14 minuti e 33 secondi (ARE YOU KIDDING?!).
Fino a dove può arrivare?
Se lo sviluppo del tiro da tre continua ad andare bene – perché chiariamoci, poche righe sopra non gli ho dato tanta importanza nel presente, ma 3.5 tentativi a partita con il 37% e un tentativo in più a partita da un anno all’altro non è per niente roba da poco – i Nuggets riescono a mantenere intatto il core formato da lui, Murray e Harris, e nessuna causa di forza maggiore si mette di mezzo, niente vieta di fare sogni su certi tipi di argenteria circolare nei prossimi 3-5 anni (esagero? forse; non credete che in tre anni possa cambiare tanto in una singola lega? non siete stati attenti).
Nel caso in cui riuscisse davvero a vincere l’anello da protagonista a Denver, o più realisticamente che riesca a portare la squadra ad essere una contender su base continua e a lungo termine, con molte probabilità saremmo in presenza di un futuro Hall Of Famer e uno dei migliori europei di sempre.
Se invece questo mio sogno bagnato si rivelerà niente più che una mera fantasia, beh, possiamo sempre consolarci così: