Questa settimana “Inside The NBA” vi propone il meglio della chiacchierata tra Julius Erving e Mark Cuban, che sta vivendo il periodo più complicato da quando è proprietario dei Dallas Mavericks.
- Essendo cresciuto a Pittsburgh, Pennsylvania, Cuban ha seguito con particolare interesse le vicende della formazione locale che militava nella American Basketball Association: i Pipers – ribattezzati Condors in un secondo momento – vinsero il primo titolo ABA nel 1967-68.
- Cuban si trovava suo malgrado dentro alla Civic Arena nelle vesti di figurante mentre Erving era impegnato nelle riprese di Basket Music (“The Fish that saved Pittsburgh”), film a impronta cestistica uscito nelle sale nel 1979. Cuban ricorda sorridente quelle fasi concitate: “Da casa mia dovevo prendere il bus per arrivare downtown, in centro, e poi a piedi fino all’arena. Mi coinvolsero in una scena; dissero di muoversi in continuazione per simulare una platea di migliaia di spettatori, ma l’unico motivo per cui ero venuto era incontrare Doctor J.”
- L’Hall of Famer, da parte sua, non ha mai inteso ripetere l’esperienza una seconda volta: “Fu bello sperimentare. Allora sapevo giocare a basket, ma non sapevo di essere negato per la recitazione.”
- Cuban ripercorre le tappe della sua ascesa – tortuosa – nel mondo del business, che lo ha affascinato sin dalla tenera età: “Non è successo dall’oggi al domani. Dacché ne ho memoria, cresciuto a Pittsburgh, dall’età di 7-8 anni sono stato tifoso di basket. Ero un tifoso di sport [in ogni occasione], ma ero anche un ragazzo [affascinato] dalla sfera degli affari. Amavo in egual misura giocare a basket e l’idea di cominciare a fare business. Iniziai a 9 anni la compravendita di figurine, carte da baseball. Volevo una “Roberto Clemente” e la confezionai differentemente prima di andare al campetto dove vendetti il tutto a 50 centesimi.”
“Celo, celo, manca, manca”
- Arricchisce la narrazione di ulteriori dettagli: “A 12 volevo un paio di scarpe da basket ma per mio padre l’unica opzione, nonostante avessi quell’età, era che mi trovassi un lavoro. Fu così che Mark, su suggerimento di uno dei compagni di poker del padre, si mise a vendere sacchetti della spazzatura: “Suppongo fossero ubriachi quando giocavano. Ad ogni modo, partii da Birdland, il mio quartiere, con la vendita porta a porta. [Poco a poco] mi dicevo: ‘Ok, la gente sta comprando queste cose.’ Mi costarono tre, le rivendetti a 6 e cominciai a fare soldi. […] Mi diede fiducia.”
- Lasciò la high school prima del senior year per frequentare lezioni di business a Pittsburgh. “Un po’ come quanto tu andasti in NBA”, chiosa rivolgendosi a Erving, che abbandonò prematuramente il college per tentare il salto – all’epoca non così usuale – tra i professionisti.
- Il format televisivo che vede protagonista il proprietario di Dallas (Shark Tank, in onda su Abc) alimenta una riflessione su larga scala: “Quante volte hai sentito ragazzi straparlare e dire ‘Posso giocare’ e poi in campo non c’è stata partita? Nel business è la stessa cosa. Una cosa analoga succede ai Mavs. [Se non sei all’altezza], te lo facciamo sapere.”
- Cuban si è sempre contraddistinto per l’estremo coinvolgimento, anche emozionale, mostrato in occasione delle partite della franchigia. Erving lo sottolinea: “Ti si vedeva sempre con la maglia, [come] pronto a subentrare, se avessi potuto, a qualcuno che non stesse facendo la sua parte.” […] “Non [al posto di] Dirk, forse qualcuno degli altri”, scherza Cuban.
- Rebuilding Mavs: “Perdere è sempre più dura di quanto sia divertente vincere. È vuoto. Provi, provi, provi, fai tutto ciò che puoi. Da proprietario il mio compito è metterci nella condizione di avere successo con tutte le risorse […] e non avere scuse tipo: ‘Se giocassi 40’, sarei Dr J.”
- La sconfitta nelle NBA Finals del 2006 brucia ancora, terribilmente: “Fummo così vicini. […] Eravamo avanti 2-0 e sopra di 14 nel terzo quarto [di Gara 3] pensai ‘facciamo cappotto, ce l’abbiamo fatta’. Due secondi più tardi Udonis Haslem rubò la palla, andò al ferro, poi noi sbagliammo un tiro, loro andarono da Shaq, che segnò [sopra la testa] di Eric Dampier e gli fischiarono fallo a favore. Shaq non sa segnare un libero, vero? Bene, [in quell’occasione] fece due su due. Partita e serie scivolarono improvvisamente via: “Da lì in poi [per loro] fu in discesa e D-Wade impazzì – 42 punti alla sirena finale, 15 nell’ultimo periodo, ndr – forse con la complicità di qualche uomo con la maglia a righe”, afferma amaro Cuban.
- Di fronte a questa uscita polemica, Erving prova a calmarlo ricordandogli le sanzioni milionarie ricevute negli anni, per un totale di circa 2,4 milioni: “Non lo puoi dire, per questo ti hanno multato così tanto.” Cuban ribatte: “A volte, nella NBA, ottieni un certo risultato solo scatenando l’inferno e facendoti sentire.”
- Prosegue il flashback passando all’annata successiva, 2006-2007: “L’anno seguente vincemmo 67 partite, miglior record della lega e perdemmo al primo turno contro gli Warriors. Fu [una sconfitta] dolorosa.”
- La stagione del riscatto: “Quando finalmente [raggiungemmo il vertice] lo facemmo da underdog. Dirk, trentadue anni al tempo, era dato per vecchio. Dicevano di far saltare tutto. Cominciammo 29-4, poi sopravvenne […] il primo di una lunga serie di infortuni”. Ricorda a tal proposito un mini giro di trasferte a ovest dal quale i Mavs uscirono con sei sconfitte: “Cominciammo a mettere insieme i pezzi e […] chiudemmo con la terza testa di serie. [Al primo turno] andammo sopra 2-0 contro Portland, ma gara 3 fu come un déjà vu: sopra di 22 prima dell’ultimo periodo, perdemmo quella partita […] e la successiva. Tornati a Dallas, chiudemmo i conti.”
- Ostacolo Lakers, campioni in carica: “Tra me e me pensavo letteralmente: ‘Sono migliori [di noi], Repeat, Kobe e tutto il resto.’ Li eliminammo con lo sweep, 4-0.”
- Dopo il bottino pieno nelle due gare in California, ebbe uno scambio di battute con Jack Nicholson: “Gli dissi ‘Fammi sapere se vuoi biglietti per le partite a Dallas’. Rispose: ‘Mark, tornerete qui’. […] Gara 4 era una di quelle opportunità da non sprecare: Jason Terry segnò qualcosa come 9 triple nel primo tempo […] e vincemmo di 35 o giù di lì. Racconta di essersi rivolto al collaboratore al suo fianco con aria incredula: “Se mi svegli con un pizzicotto, ti stendo.”
- La vittoria nelle Finali di Conference (vs OKC) diede il pass per le NBA Finals 2011, contro la prima versione dei Miami Heat targati LeBron. “Sulla carta ci davano zero possibilità [di farcela]. Perdemmo Gara 1 e ci trovammo in svantaggio anche all’intervallo di Gara 2.” Proprio in quell’istante, però, si consumò un altro incontro significativo, dopo quello con Nicholson: “Stavo andando a sinistra in direzione degli spogliatoi e lì mi fermò Pat Riley [che disse] […] “Vi abbiamo in pugno.”
- Superfluo, forse, ricordare come andò a finire: “Rimontammo con uno dei migliori recuperi nella storia delle Finals, vincendo quella Gara 2 e le tre successive.”
- I festeggiamenti: “Non dimenticherò mai la sensazione provata a 30″ dalla fine […] mi emoziono alla sola idea. Volevo essere sicuro che Don Carter e la moglie Linda, che avevano fondato la squadra, ricevessero il trofeo direttamente dalle mani di David Stern. Quello fu il momento in cui provai il più grande orgoglio.” Segue un pensiero per il proprietario scomparso da poco: “Era il cuore e l’anima dei Mavs.”
- Con la moglie Tiffany, sposata nel 2002, ha avuto tre figli: Jake ha otto anni, il più giovane, poi Alyssa e Alexa.
- Spazio anche per una stoccata a Trump: “Abbiamo fatto un passo indietro con questa amministrazione, ma questo ci renderà più forti e resilienti. Ciò mi dà speranza per il futuro.”
- Parola d’ordine: Stabilità: “Quando presi il controllo della squadra il coach era Don Nelson. Dicevano che avrei dovuto mandarlo via […], ma non lo rimpiazzai. Con il tempo ho capito che la posizione più dura dove assumere è proprio quella dell’allenatore. […] Chiunque tu contatti conosce perfettamente i problemi della tua squadra. […] Abbiamo vinto con Rick Carslile e ora è il secondo coach più “longevo” dietro Popovich. […] Non ci sono risposte semplici ed è raro che un cambio in panchina cambi radicalmente la situazione.”
- Cerca di essere sincero e trasparente in ogni situazione, a volte anche contro il proprio interesse, come nel caso delle dichiarazioni sul tanking, costategli una multa da 600.000 dollari.
- Il confronto con Adam Silver, commissioner NBA, è meno frequente rispetto al passato, quando il ruolo era ricoperto da David Stern: “Con David discutevo sempre di arbitri perché a lui non importava la cosa, per lui c’erano vincitori e vinti. Non esistevano votazioni.[…] Con Adam, invece, parlerò [grossomodo] una volta al mese.”
- Al suo ingresso nella NBA generò contrasti per la sua natura assai estroversa: “Al Board of Governors, [riunione generale, ndr], nessuno parlava e alcuni nemmeno si facevano vedere. Chiesi la parola e me la diedero. Se ne pentirono di lì a poco”, ride.
- Comprò i Mavs nel gennaio del 2000. La transazione da 285 milioni fu un record per l’epoca: “Mi dissi che non sarei rimasto zitto e spinsi per le innovazioni che ritenevo necessarie.”
- Effetto social sulla lega: “I ragazzi ora hanno una personalità. C’è una differenza sostanziale tra noi e la NFL: se i Los Angeles Chargers entrassero da quella porta, riconosceresti forse solo il loro quarterback. […] I ventenni di oggi hanno una coscienza sociale e apprezzano l’idea di un impegno all’interno della comunità.”
- Erving si sarebbe divertito a giocare per un proprietario come Cuban.
- Quest’ultimo prima di ogni partita tira da solo all’interno dell’arena: “È una sensazione incredibile.”
- Da poco è stata confermata la decima stagione di Shark Tank su Abc: “È lo show #1 per ascolti da parte di famiglie al completo. […] Passa il messaggio che il sogno americano è vivo.”
- Nell’ufficio di Cuban c’è una sola foto: “Ci siamo io e qualcuno che non sta guardando l’obiettivo, e [quel qualcuno] sei tu. […] Al mio primo All-Star Game, avevo appresso il mio collaboratore e c’eri tu. Gli dissi di scattare senza interessarmi al risultato. Dunque ho una mia foto con la tua schiena.”