Copertina a cura di Michele Lorusso
Malgrado il college basketball sia una delle forme di espressione cestistica – passatemi la perifrasi – che preferisco, il mio approccio con la trasmissione televisiva del palinsesto NCAA è da anni lo stesso: nessun tipo di ricerca preventiva di canali, orari e voci addette al commento, semplicemente dagli inizi di novembre in poi mi affido a del sano zapping, alla ricerca delle prime partite trasmesse in tv, fedele a quella ricerca della novità tout-court propria della pallacanestro universitaria. Questa mia, tutto sommato insignificante, abitudine quest’anno mi ha, però, regalato quella che è una piacevolissima sorpresa: dopo aver fortunosamente trovato la prima partita della stagione, l’attenzione è stata completamente calamitata dalla voce che la stava raccontando. La mia reazione è stata:
<<No, incredibile: è tornata alle origini. Che bello!>>
La voce in questione era, ovviamente, quella di Paola Ellisse.
Il fatto che fosse tornata al commento del basket universitario dopo anni trascorsi a raccontare la pallacanestro mondiale in ogni sua sfaccettatura, oltre a procurarci un irrefrenabile effetto nostalgia, ce la dice lunga sulla sua capacità di mettersi in discussione e di adattarsi continuamente in un ambito professionale che, per sua stessa ammissione, è un po’ maschilista. Sin dal 1995, infatti, Paola è stata infatti presente in maniera più o meno evidente in ciascun evento che ha segnato la crescita di popolarità della pallacanestro nel nostro paese: dalle prime telecronache su TelePiù ai racconti di Federico Buffa, passando per commenti di partite e programmi di approfondimento curati sia davanti che dietro le quinte e per le meravigliose interviste esclusive realizzate con autentiche leggende del basket planetario come Michael Jordan e Oscar Schmidt. Un percorso professionale impareggiabile, che le è valso un Oscar del basket nel 2016 e che, al momento, l’ha riportata al punto di partenza, da quel college basketball che è stato anche la scusa per poter scambiare due chiacchiere con lei alla vigilia di queste Sweet Sixteen.
Assieme a lei abbiamo sviscerato numerosi temi inerenti alla stagione collegiale, ma non è mancata l’occasione per toccare anche temi legati alla pallacanestro NBA e alla sua carriera professionale.
Jacopo Gramegna: Dopo numerose stagioni spese al commento della pallacanestro professionistica in ogni sua declinazione hai avuto la possibilità di tornare alle origini, commentando quel college basketball che ha segnato il tuo debutto televisivo. Quali emozioni ti ha provocato questo cambiamento che, in fondo, tanto cambiamento non è stato?
Paola Ellisse: Ti confesso che inizialmente mi spaventava tornare al college basket, perché ritenevo fosse una pagina ormai definitivamente compiuta. Era un rimettersi in gioco, ritrovare antiche emozioni ma doverle vivere nel rispetto di un basket molto diverso da allora. Il tutto senza avere al fianco Federico Buffa, che aveva la capacità di farmi sentire sempre sicura. A cinque mesi di distanza ti dico che sono felice di aver fatto questa scelta, perché il divertimento che provo commentando il college è unico e comincia dalla preparazione delle partite.
JG: Entrando più nello specifico: quali sono le differenze più marcate nella preparazione e il commento di una partita universitaria rispetto agli elementi a cui ricorri in un match tra pro?
Ellisse: La preparazione è totalmente diversa. La differenza più sostanziale sta nei file delle squadre: più storie e meno numeri. La NCAA di adesso non può essere incentrata sulle cifre, le carriere dei migliori sono ridotte ad una stagione e quelle dei comprimari non si possono raccontare in statistiche. In più ti ritrovi a fare quasi sempre squadre diverse, quindi non c’è continuità ma continua scoperta: ogni volta ti ritrovi a ricercare notizie su qualcuno che non hai mai visto giocare, su un sistema diverso o una filosofia di gioco opposta a quella della partita precedente. È stimolante, anche se richiede un tempo superiore agli altri campionati. Anche il racconto che ne deriva è diverso: c’è più scouting nel presentare i giocatori, anche a marzo ti puoi ritrovare a parlare di qualcuno che in stagione non si è mai visto (vedi Loyola-Chicago vs Nevada…) e quindi devi anche raccontare le caratteristiche tecniche di ogni giocatore come se fosse il primo giorno. E poi, come già detto, le storie: non c’è niente come il college basket per trovarne di straordinarie!
JG: Tra le differenze più sensibili c’è, probabilmente, quella dei modelli statistici di riferimento. Come testimonia BasketballReference.com, per la pallacanestro collegiale le analitycs sono meno approfondite e sfaccettate rispetto a ciò che avviene nella pallacanestro europea o NBA, anche per motivi di “adattabilità” di alcune regole. Qual è il rapporto di Paola Ellisse – in quanto giornalista, commentatrice e appassionata di pallacanestro – con la crescente importanza delle stats?
Ellisse: Con le statistiche ho un rapporto di amore-odio. Mi rendo conto dell’importanza che rivestono, ma sono anche convinta che non raccontino veramente una squadra o un giocatore, quindi le studio ma non le cito esageratamente. Ritengo anche che gli addetti ai lavori che ci seguono siano già informati sulle statistiche più importanti (l’esistenza di Synergy è beneficio assoluto per tutti i “malati” di stats), e che quelli che guardano la partita per il semplice gusto di farlo non abbiano tanta voglia di sentire troppi numeri non abbinati ad una grafica che ne faccia comprendere realmente l’impatto sul gioco. È l’eterno dilemma di chi commenta il basket, sport supertecnico che se trattato in modo troppo didascalico fa arrabbiare gli appassionati ma se raccontato in modo troppo gergale non è comprensibile ai nuovi spettatori. Personalmente sto ancora cercando la via di mezzo, forse prima della pensione ci riuscirò…
JG: Entriamo ora più nelle profondità di questa stagione collegiale che sta assumendo contorni davvero unici nel suo genere. I primi turni del torneo NCAA hanno regalato una quantità incredibile di upset: già alle Sweet Sixteen la “parte sinistra di tabellone” non può più vantare teste di serie numero 1 e 2. Qual è il risultato a sorpresa che, oltre ad averti maggiormente stupita, entrerà in futuro nelle clip di presentazione della March Madness?
Ellisse: Considerato che dei 17.4 milioni di bracket compilati per ESPN non ne è rimasto neanche uno in corsa dopo il primo turno direi che il torneo ha veramente ribaltato ogni pronostico come un calzino! L’uscita di Virginia, della cui difesa ero innamorata, potrebbe essere l’immagine iconica di questo torneo, quella di Arizona ha fatto saltare tutti sulla sedia, ma mi piace molto la favola di Loyola-Chicago: due vittorie allo scadere e una storia bellissima alle spalle come prima squadra realmente antisegregazionista degli anni 60. E sappiamo che un torneo NCAA non può definirsi tale se non c’è una Cinderella.
Primo turno: bye bye Miami.
Secondo Round: au revoir Tennessee.
JG: La storia insegna che non sempre la quantità di talento futuribile in ottica NBA assicura garanzia di vittoria a livello collegiale. Questo torneo NCAA non ha fatto eccezione: abbiamo visto venire eliminate molto presto delle squadre con più di un prospetto NBA. Quali sono, secondo te, gli elementi che rendono la pallacanestro collegiale meno dominata dalle individualità, quindi più propensa a premiare team equilibrati e non necessariamente composti da futuri prospetti NBA?
Ellisse: Come sai molte squadre, Indiana docet, non mettono il nome dei giocatori sulle spalle della canotta, perché l’unico nome che conta davvero è quello che sta sul davanti. Ecco, credo che la differenza sia qui. Si gioca per un microcosmo, non per uno scout pieno di numeri. Con il sistema dello one-and-done ormai nessuno ha più tempo e modo di costruire una squadra intorno ad un talento, quindi in certi casi per vincere è meglio avere più giocatori che sappiano stare in campo e abbiano voglia di sbattersi per una palla vagante, un rimbalzo o un blocco. È un retaggio di romanticismo del Gioco che mi piace tantissimo. E quest’anno più che mai si vede questa differenza. Ayton, Porter, Jackson, Bamba, Young… tutti già in vacanza, e stiamo parlando di 5 delle prime 8 scelte del prossimo giugno secondo le previsioni di nbadraft.net. Sembra un principio anacronistico, ma è bello pensare che il “dividersi il succo d’arancia” funzioni ancora per vincere a questo livello.
Visto che abbiamo già fatto riferimento ai prospetti NBA la domanda è d’obbligo: qual è il giocatore che maggiormente ti ha colpito all’interno di questa stagione collegiale? Fossi uno scout NBA, saresti davvero così convinta di preferire uno o più di questi talenti collegiali a un giocatore già capace di vincere e determinare su più livelli come Luka Dončić?
Ellisse: Dončić tutta la vita! Adoro il suo gioco, la sua intelligenza e la forza di carattere che ha dimostrato anche quando è scoppiato in lacrime in panchina. Spero trovi la squadra giusta al piano di sopra, potrebbe veramente farci divertire parecchio. Certo, arriva a un Draft in cui ci sono tanti lunghi buoni, e si sa che quelli difficilmente se li fanno sfuggire. Per rispondere alla prima parte della domanda, ci sono parecchi giocatori che mi sono piaciuti, ma per uscire dai soliti nomi ti dico Theo Pinson di Carolina. Ha una visione di gioco a 360 gradi, e se riuscisse a mettere il tiro da fuori sarebbe formidabile. Probabilmente proprio perché non ci prende in una vasca da bagno non sarà una scelta alta o non avrà un gran futuro in NBA, ma lo vedo come un buon professionista, se non in NBA in una buona squadra di Eurolega.
L’ennesima investitura per Luka.
JG: Gli upset di questa stagione, però, non hanno riguardato soltanto i talenti di spicco in ottica Draft NBA. All’interno di questa folle cavalcata NCAA abbiamo assistito anche all’eliminazione precoce nel torneo di tante “star annunciate” all’interno di team molto equilibrati. Sto pensando, ad esempio, a chi, come Joel Berry II, ha avuto una fantastica carriera collegiale a livello individuale e di squadra ma non sembra avere grosse possibilità di replicare le proprie gesta “al piano di sopra”. Come Draymond Green e Isaiah Thomas insegnano, però, questo tipo di previsione ha portato numerose falle negli scouting report. Di recente abbiamo sempre più spesso ritrovato degli All-Star in posizioni di Draft non pronosticabili. Restringendo il campo alle stelle universitarie poco considerate dagli scout, su chi punteresti come “steal of the Draft” quest’anno?
Paola Ellisse: Bella domanda! Per ogni Draymond Green ci sono cento Joel Berry, e in questa stagione ho visto un sacco di giocatori cui manca un centesimo per fare il dollaro necessario per il piano di sopra. Onestamente non riesco a farti un nome, anche perché nel caso di giocatori alla Berry non contano solamente le caratteristiche ma soprattutto il sistema in cui si finisce. Puoi essere un po’ meno bravo di un altro ma trovandoti nel sistema giusto avere più minuti e più resa, la NBA è anche questo, se non sei LBJ o simili devi poterti trovare nel posto giusto al momento giusto.
JG: A prescindere dall’unicità dei risultati, questa stagione sarà a lungo ricordata perché situata in perfetta corrispondenza con un enorme scandalo che potrebbe demolire definitivamente l’NCAA per come la conosciamo, riportare in auge la possibilità che i giocatori di rendano eleggibili al Draft dopo il liceo e segnare la scomparsa di figure leggendarie della pallacanestro collegiale. Cosa ti senti di dirci a riguardo di una situazione così complessa e articolata? Quali svolte future ti aspetti?
Ellisse: Credo che ci troviamo ad un momento che potrebbe segnare una svolta epocale, con due direzioni: la G League diventa lega di transizione per i liceali non ancora pronti al grande salto facendone dei professionisti all’interno di una sorta di “bacino” da cui le squadre NBA possano attingere, oppure la NCAA si adegua e crea un sistema di semi-professionismo che sia sufficientemente attraente per i prospetti che non hanno abbastanza talento per rendersi eleggibili dopo la High School. Lo scandalo legato alle indagini della FBI è lontano dall’essere concluso, ed è stato un duro colpo per l’immagine del college basket, anche se tutti sapevamo che il dilettantismo è solo una facciata, e che offrire una borsa di studio non può bastare ad attrarre un ragazzo che sa di poter monetizzare sul suo talento. Certo, ai miei tempi bastava un’automobile o il pagamento di un affitto, ora con gli sponsor sempre più presenti e agguerriti si parla di assegni a cinque zeri. Ma ora come allora la moralità (o il moralismo) era una superficie sotto la quale c’era di tutto. La NCAA è una lega (anche se si chiama associazione) molto ricca, ma se dovesse perdere non solo le sue star dopo un anno ma anche i talenti di secondo piano a favore di un’altra lega arriverebbe al tracollo. Non credo che sponsor o network televisivi avrebbero voglia di investire in una “terza lega”. È una situazione complicatissima, ridurla a poche righe è incompleto, ma credo che a grandi linee la vicenda possa essere riassunta così.
JG: Ora ci piacerebbe fare un passo indietro e ripercorrere un po’ la tua storia al commento: tra quella UConn-UMass che segnò il tuo debutto e l’attuale torneo NCAA c’è una figura che congiunge il tuo percorso professionale: coach John Calipari. Oltre a lui, al quale sarai sicuramente “legata” se non altro per questioni di ricordi professionali, ci sono delle figure, delle rivalità o delle telecronache alle quali ti senti particolarmente legata?
Ellisse: Ho amato due personaggi sopra a tutto il resto: Lute Olson e Rick Majerus. Già, perché il college era, e forse è ancora, il basket degli allenatori. La finale vinta da Arizona nel 1997 è stata la prima che ho commentato, e il ricordo di Mike Bibby che va a spettinare il sempre perfetto Olson è tra quelli indelebili. La storia di Lute e Bobbi Olson è una delle più commoventi che abbiamo mai raccontato, e nel 2001 vedere le strade di Minneapolis tappezzate di cartelli dedicati a Bobby – morta nel gennaio di quell’anno – prima delle Final Four faceva venire la pelle d’oca per l’emozione. Rick Majerus mi è entrato nel cuore per le storie che raccontava su di lui Federico Buffa; gli aveva voluto dedicare anche una doppia puntata de “Non è più la NBA dei vostri padri”, l’unica che non fosse dedicata realmente alla NBA. Le sue storie cominciavano sempre con “Il santone col maglione”, e poi via con i racconti sul suo amore per il cibo, il suo modo di allenare e di interpretare il gioco… È bello pensare che sia stato il mentore di quel Porter Moser che ha scosso il torneo con la sua Loyola-Chicago.
Paola Ellisse e Federico Buffa davanti all’Alamo per presentare le Final Four 1998, quelle in cui Rick Majerus e Utah si arresero solo in finale a Kentucky, dopo aver eliminato la favoritissima Carolina. A vent’anni di distanza le Final Four sono nuovamente a San Antonio: non ci piace credere alle coincidenze.
JG: Qualche anno fa ho potuto rivedere la finale del 2003, quella in cui Carmelo e Syracuse si laurearono campioni alla vigilia del Draft più importante degli anni 2000. Personalmente ho percepito come tangibile in voi la sensazione di essere testimoni di un episodio epocale: la vigilia di un’era cestistica particolarmente splendente. Si è trattata di una mia semplice suggestione, tipica di un appassionato che sapeva come sarebbe realmente andata, o eravate davvero così coinvolti tanto dal contesto quanto dall’immediato futuro che ci attendeva? Quanto è in grado di incidere sul vostro commento l’hype generato da un singolo giocatore?
Ellisse: Se ti dessi una risposta precisa sarei bugiarda. Sai, commentare una Final Four è qualcosa di unico e speciale. Sempre. E quando ti ritrovi in postazione, il più delle volte lontanissima dal campo ma comunque presente, e in cuffia parte il conteggio per la diretta, entri in una specie di bolla di emozioni. Il pubblico, le bande, alumni novantenni con la felpa dell’alma mater, i flash che scattano sulla palla a due, il rincorrersi delle azioni, giocate fantastiche e fesserie memorabili… un’emozione dopo l’altra. E dopo non sai dire esattamente cosa le abbia generate, perché ne sei completamente travolta. Federico non smetteva di saltellare sullo sgabello, io finivo regolarmente con un gran mal di gola dovuto all’aver trattenuto la commozione per ore. Quindi, onestamente, non ti so dire se la presenza di Melo abbia aggiunto un grado di emozione in più ad un cocktail comunque fantastico. Ma il fatto che tu abbia percepito quelle vibrazioni a distanza di anni mi riempie di gioia.
JG: Una domanda sul tuo compagno di quelle telecronache è, per noi, d’obbligo. In molti non sanno che tu sei una delle figure più importanti all’interno della svolta che ha portato Federico Buffa a diventare il più riconoscibile e apprezzato storyteller italiano. La libertà espressiva e di contenuti che gli hai concesso ne “La NBA dei vostri padri” ha permesso a noi amanti della pallacanestro di ammirare un tipo di narrazione che ha poi stregato tutta Italia. “L’effetto Buffa” ha poi portato ad una crescente fame di storytelling sportivo, sdoganando anche sul web un filone che fino a un lustro fa era davvero di nicchia. A modo vostro avete rivoluzionato una volta in più il modo di raccontare lo sport in Italia: come hai intuito che quel materiale non era “roba da scappati di casa” (come lui stesso lo definiva) ma aveva il potenziale per stregare l’audience senza mai annoiare? Che effetto fa essere al centro di una simile “rivoluzione”?
Ellisse: Mi fai sentire una specie di Copernico! Scherzi a parte, il fatto che Federico abbia voluto riconoscermi dei meriti mi ha realmente commossa, perché i meriti sono solo ed esclusivamente suoi per il solo fatto di essere Federico. L’idea era molto semplice, bastava aver letto i suoi Black Jesus per capire che quelle storie sarebbe state perfette per la televisione. E così gli ho proposto di raccontarle, letteralmente nei ritagli di tempo e quasi di nascosto dopo aver registrato gli studi postpartita NBA, e lui ha accettato. Gratis. Devo anche dire che non avrebbero avuto cittadinanza televisiva senza l’apporto fondamentale di Alessandro Mamoli, la cui creatività si è espressa al massimo in quel periodo. Pensa che il Mamo ha creato da solo, con il suo computer e la sua macchina fotografica, le sigle, dimostrando di essere avanti anni luce nel nostro mestiere visto che oggi siamo tutti anche cameramen e realizzatori. Quello è stato uno dei periodi più divertenti della mia carriera, ed era incredibile come in regia, dove normalmente c’è un casino pazzesco, regnasse il silenzio assoluto durante la registrazione dei suoi pezzi. E alla fine tutti, regista mixer e tecnici vari, applaudivano. Se il carisma avesse un nome sarebbe quello di Federico, lo scappato di casa cui devo i miei 26 anni del lavoro più bello del mondo.
JG: Come al solito, ci piacerebbe chiudere la nostra chiacchierata con delle previsioni che, in genere, riguardano l’immediato futuro del mondo NBA. In questo caso le domande aggiuntive sull’NCAA sono d’obbligo: chi vincerà i titoli NCAA e NBA? Chi sarà la prima scelta assoluta a giugno? Chi l’MVP della lega professionistica più bella del mondo?
Ellisse: Oh, finalmente posso sbagliare qualche pronostico! Allora, per la finale NCAA sto con la mia favorita della vigilia, cioè Kansas, che quindi secondo l’ormai nota maledizione del telecronista uscirà con Clemson alle Sweet Sixteen. Per la NBA mi piace dire Houston, non tanto perché la veda così favorita ma perché sono legata da una grande amicizia con Mike e Laurel D’Antoni e perché così non ci si riduce ai soliti Warriors. MVP Il Barba. E prima scelta, pronostico sicurissimamente sbagliato ma fatto con il cuore e non con la testa, Luka Dončić. Se vuoi quello fatto con la testa Ayton. E così ho condannato due squadre e distrutto tre carriere…