Il limite più arduo da superare per una squadra è quella linea indefinita che separa la comfort zone del proprio status di sorpresa, con tutta la spensieratezza che ne consegue, dalla competitività vera e propria. Ovvero compiere quei passi avanti necessari, ed eventualmente dolorosi, per aspirare a un traguardo più interessante del semplice “andare oltre ogni più rosea aspettativa”: il titolo. Che poi è il fine ultimo di ogni franchigia.
I Portland Trail Blazers, seppur presenza fissa ai Playoff fin dalla stagione 2013-14, anno secondo dell’era Lillard, nelle ultime tre stagioni si sono ritrovati proprio dove non avrebbero dovuto essere: molto più avanti rispetto alle aspettative, con tutto ciò che ne deriva a livello tecnico e psicologico. Infatti, dopo la ricostruzione avviata dalla franchigia nell’estate 2015 con gli addii a Aldridge, Batum, Matthews e Robin Lopez, quella che secondo i pronostici doveva essere una squadra destinata al tanking ha invece sorpreso la NBA continuando a qualificarsi per la post-season. Con qualche vittoria in meno rispetto alle campagne 2014 e 2015, ma con un entusiasmo e una freschezza tali da far considerare il duo Lillard-McCollum la versione più settentrionale degli Splash Brothers.
Il buzzer beater di Lillard ai Playoff 2015 resta uno dei più belli della NBA recente.
La leadership cerebrale di Dame e l’esplosione di C.J. hanno portato questi Blazers a incarnare il classico hype positivo di una squadra che cerca di intraprende la strada giusta, senza pensare troppo al futuro, dopo i problemi, gli errori e le sfortune dei lustri precedenti, dai guai dei Jail Blazers agli infortuni di Brandon Roy e Greg Oden.
E con Damian Lillard – scelto al Draft 2012 dal GM Neil Olshey, anche lui appena arrivato all’ombra del Big Pink, così come coach Terry Stotts – in qualità di personificazione del riscatto, in un ambiente affezionato, rilassato e per certi versi unico nella NBA come quello di Portland, città lontana dai grandi giri, che ha nei rossoneri del basket gli unici beniamini da tifare nello sport professionistico (almeno fino all’arrivo dei Timbers nel soccer) e che si vanta orgogliosamente delle sue eccentricità (sempre valida la guida d’autore Portland Souvenir della gloria letteraria locale, Chuck Palahniuk) ma che prende estremamente sul serio la squadra, l’attaccamento alla maglia, la capacità di interagire con la comunità locale, la memoria della Blazermania scoppiata nel 1977, anno del primo e unico titolo. E che ormai, a partire dal management della franchigia, potrebbe non accontentarsi più. Soprattutto dopo quel che è successo in questo aprile.
Panico al Moda Center.
L’ascesa e il gran botto
Una costante delle ultime tre stagioni di Portland è stata l’accelerazione nella fase conclusiva della regular season, che ogni volta ha consentito ai Blazers l’ingresso tra le prime otto ad Ovest, partendo spesso da situazioni svantaggiate: record di 25-12 da fine gennaio in poi nel 2016 (poco prima la situazione era sul 15-24), con successivo exploit sui Clippers al primo turno di Playoff ed eliminazione in semifinale di conference per mano dei Golden State Warriors; 18-8 dall’All-Star Game nel 2017, partendo da 10 vittorie sotto il 50% e agguantando l’ottavo posto (corsa poi terminata con il naturale sweep con i Warriors); infine, l’esaltante corsa del 2018 che, iniziata nel giorno di San Valentino, ha fatto ancora una volta innamorare i fan con la striscia di 13 vittorie consecutive e un complessivo 17-7 post All-Star Game il quale, unitamente a un record positivo mantenuto stavolta per tutta la stagione, è valso ai Blazers un bel terzo posto, anche se in una situazione molto incerta in cui dalla terza alla nona posizione c’era un margine di appena tre vittorie.
5 marzo 2018: l’assurdo quarto periodo di Lillard contro i Lakers.
Più in alto si sale, più forte è il botto in caso di caduta. Per Lillard e soci è stato esattamente così: nel giro di una settimana, quattro cazzotti in faccia perpetrati da uomini in rosso, blu e oro con scritto New Orleans Pelicans sulla divisa, hanno spedito in vacanza i Blazers ancora in preda alle allucinazioni di una regular season che aveva fatto venire l’acquolina in bocca a tutto l’ambiente, facendo tuttavia passare in ombra i limiti della squadra, quei limiti che presto avrebbero presentato un conto salato.
Con l’aggravante del fatto che, se negli anni passati la griglia dei Playoff aveva propinato subito Golden State, quest’anno l’accoppiamento con i Pelicans sembrava essere più abbordabile. Pelicans che invece sono riusciti nell’impresa di far subire uno sweep a una squadra qualificatasi tra le prime tre posizioni in conference, mai accaduto prima. Un’uscita ingloriosa che ha messo i Blazers di fronte alla dura realtà: il tempo dell’innocenza e della spensieratezza è finito, per vincere sono necessarie altre cose. Forse è arrivato il momento in cui “andare oltre ogni più rosea aspettativa” non basta più.
Intanto, chi marca Rondo?
Impotenti di fronte ai Pelicans
Il piano partita che ha contraddistinto le quattro vittorie dei Pelicans sui Blazers a questi Playoff è stato abbastanza semplice e sorprendentemente efficace. Coach Alvin Gentry ha dato ordine di pressare ai limiti dell’asfissia le due principali, se non uniche, bocche da fuoco di Portland: Lillard e McCollum. Sistematico il raddoppio sul portatore di palla, anche in situazioni di pick-and-roll, lasciando andare il bloccante-rollante, in modo tale da costringere le guardie dei Blazers a passare il pallone a compagni di squadra che si ritrovavano tra le mani una patata bollente a forma di sfera arancione senza sapere come gestirla e soprattutto come infilarla nel canestro.
Holiday e Mirotic raddoppiano su Lillard lasciando perdere Nurkic, che riceve male sul passaggio del compagno e perde palla.
Dall’altra parte, invece, Anthony Davis tirava fuori, per le sue prime quattro vittorie in carriera nella post-season, una serie di prestazioni da superstar quale effettivamente lui è (35, 22, 28 e 47 punti, con 12,2 rimbalzi di media), il miglior Jrue Holiday di sempre costituiva un fattore su entrambi i lati del campo, il buon vecchio Rajon Rondo si dava da fare in difesa e con gli assist (16,2 a serata, con un 45,7% di assist percentage e un’irreale 49,0 di assist ratio) e Nikola Mirotic non faceva rimpiangere la lunga assenza di DeMarcus Cousins, oltre alla silenziosa solidità di E’Twaun Moore. Tutti elementi in grado di offrire valide alternative in attacco a Davis, che comunque di ostacoli, soprattutto sotto canestro, ne ha trovati pochini.
Qui The Unibrow, trovatosi contro Aminu mentre Nurkic è lontano su Mirotic,
prende posizione, rimbalzo in attacco e canestro.
Il grande sconfitto di questa serie è Damian Lillard. Le cifre sono impietose: media di 18,5 punti realizzati, la peggiore nei Playoff da quando è in NBA, visto che nelle precedenti edizioni non era mai sceso sotto i 21,6 del 2015 e dopo aver toccato i 27,8 un anno fa. Primato personale negativo anche per quanto riguarda la percentuale dal campo (35,2%), nonché la percentuale reale (41,5%) figlia di un insufficiente 30% al tiro da tre, che fa rabbrividire se raffrontato a certe prestazioni inanellate in regular season.
La difesa dei Pelicans ha forzato 4,0 palle perse al leader di Portland, che ha chiuso inoltre con un bassissimo 6,2 di PIE (Player Impact Estimate, misuratore dell’impatto di un giocatore su una singola giocata), praticamente dimezzato rispetto all’11,2 di un anno fa. Dati che stridono sanguinosamente con quanto fatto vedere in stagione regolare: 26,9 punti realizzati di media, 43,9% di percentuale dal campo, 51,9 di effective, 59,4 di true shooting, 2,8 palle perse, 16,5 di PIE. Insomma, Damian è stato completamente assente in questa serie.
No, decisamente non il miglior Lillard.
Se per certi versi C.J. McCollum, seppur sfiancato dalla difesa di New Orleans, è andato un po’ meglio del compagno, con il suo massimo in carriera per media punti realizzati nei Playoff (25,3), una percentuale dal campo del 51,9%, un discreto 42,3% al tiro da tre, il tutto condito dall’ottima ma inutile prestazione in Gara 4 in cui ha messo dentro 38 punti, ciò che di fatto ha condannato Portland all’eliminazione è stata l’assenza di valide alternative nel resto del roster a disposizione, con il solo Al-Farouq Aminu che è leggermente emerso con prestazioni di livello crescente attraverso le quattro partite della serie, dai miseri 7 punti dell’esordio fino ai 27 dell’ultimo match, passando per la doppia-doppia di Gara 2 (14 punti e 15 rimbalzi) ai 21 di Gara 3, chiudendo con una percentuale del 43,3% dall’arco e 51,9% dal campo.
Nurkic, nonostante due doppie-doppie, non ha mai convinto, Harkless è arrivato ai Playoff condizionato da un recente infortunio con tanto di piccolo intervento in artroscopia al ginocchio e non è certo dai vari Ed Davis, Pat Connaughton, Shabazz Napier e dal rookie Zach Collins – nonostante la loro stagione sia stata tutt’altro che negativa – che ci si potesse aspettare che facessero la differenza. Solo scampoli di partita sul parquet, invece, per Meyers Leonard, uno – è bene ricordarlo – il cui contratto a partire dalla prossima stagione supererà i 10 milioni di dollari.
Aminu saluta la stagione con 27 punti in Gara 4.
In fin dei conti, il crollo dei Blazers è di quelli destinati a rimanere nella memoria, soprattutto in relazione ai risultati della regular season e all’entusiasmo che imperversava a Rip City. Una caduta che nelle statistiche avanzate si evidenzia soprattutto nell’efficienza difensiva, andata giù dal 104,2 di defensive rating in regular season (l’ottava assoluta in NBA, a pari merito con i Warriors) al 114,7 dei Playoff. Tuttavia, avvisaglie del fatto che qualcosa non andava erano emerse già dalle ultime partite tra marzo aprile: dopo la striscia vincente di 13 successi in fila, nelle ultime 12 gare erano arrivate 7 sconfitte, un netto calo condizionato anche dal suddetto stop di Harkless e soprattutto da un guaio alla caviglia per Lillard.
Il futuro
Quando si comincia a prendere gusto con le vittorie, è difficile riuscire ad accettare le sconfitte come prima, pur nella consapevolezza di non essere ancora una squadra da titolo. Tuttavia bisogna fare attenzione a non buttare via il classico bambino insieme all’acqua sporca, perché non è che i Blazers siano diventati improvvisamente dei brocchi: più semplicemente, l’eliminazione per mano dei Pelicans ha messo a nudo i limiti di questa squadra, abilmente mascherati negli ultimi anni dalle vigorose prestazioni di Damian Lillard, che è e rimane un magnifico leader a Portland, e C.J. McCollum, uno dei migliori realizzatori puri della NBA, a cui aggiunge un costante e sfiancante lavoro di movimento senza palla e un impegno difensivo che supplisce alle lacune di Lillard quando la palla è in mano all’avversario. E lo sweep è coinciso con una contingenza in cui i Blazers non si trovavano in perfette condizioni, mentre i Pelicans viaggiavano sulle ali dell’entusiasmo e dell’ottima forma dei propri elementi migliori.
McCollum inseguito da Ian Clark, canestro con fallo.
I problemi dei Blazers risiedono nella scarsa profondità del roster, privo di alternative di livello ai due attori protagonisti e di elementi in grado di contribuire in maniera consistente dalla panchina. La necessità di personale già pronto si era evidenziata già nella passata stagione, quando l’impatto di Jusuf Nurkic, arrivato da Denver in cambio di un altro inconsistente come Mason Plumlee, si era rivelato subito determinante sulle ultime venti partite di Portland e per l’aggancio dell’ottavo posto.
Il bosniaco quest’anno è stato meno incisivo, nei Playoff non ha retto minimamente Anthony Davis e in generale ha iniziato a farsi sentire la sua ristrettezza di range, roba che nella NBA di oggi non è esattamente l’ideale per un lungo, a meno che non ti chiami Valanciunas o Gobert e sei inserito da anni in un sistema di ingranaggi rodato e funzionante. Si deciderà di puntare sulla crescita di Collins?
Le ali titolari del quintetto hanno fatto vedere buone cose, ma sono sempre pedine di complemento, in un contesto totalmente incentrato sulla coppia di guardie: Harkless si è mosso bene soprattutto nella serie positiva, pur avendo saltato oltre venti gare per infortunio; Aminu si è confermato un giocatore molto versatile e ha toccato la miglior percentuale in carriera al tiro da tre in regular season (36,9%), salita come detto al 43,3% ai Playoff.
Zach Collins tira da tre, Jusuf Nurkic no.
Detto già del buon contributo apportato durante l’anno da Shabazz Napier e Pat Connaughton tra gli esterni e da Ed Davis e Zach Collins tra i lunghi, il cruccio di Portland resta sempre Evan Turner, finora Evan..escente, scherzando un po’ con i nomi, e soprattutto, quel che preoccupa, firmatario di un contratto di 4 anni a oltre 70 milioni di dollari che durerà altre due stagioni. Il che spingerà il GM Olshey a più di una riflessione, anche perché si sta parlando di un’ala piccola, coinvolta spesso nel portare palla, che ha finito per segnare soprattutto in… area pitturata, con uno mediocre 31,8% al tiro da tre.
La preoccupazione maggiore per l’immediato futuro viene dal monte salari: i Blazers, per la prossima stagione, ce l’hanno già occupato da 111 milioni di dollari, che scendono appena a 101 per la stagione 2019-20. I contratti di Turner, Harkless e Leonard, firmati nel 2016, sono fin troppo eccessivi se rapportati al rendimento dei tre.
I margini per operare sono quindi molto ristretti, il che metterà di fronte il management di Portland ad attente valutazioni soprattutto per quanto riguarda il destino di Nurkic e Napier, che sono restricted free agent, e dei due che vanno a scadenza, Ed Davis e Pat Connaughton, finora buoni giocatori di contorno all’interno di un playbook composto in massima parte, ovviamente, da blocchi continui sul perimetro per creare le condizioni ideali a Lillard e a McCollum. I Blazers sono lontani da un gioco di spaziature e da un attacco che coinvolge tutto il quintetto, come dimostra l’ultimo posto in regular season nella media assist (19,5 a partita), nell’assist percentage (49,6%) e nell’assist ratio (15,1). A meno che, per il futuro, non si inizi a pensare di smembrare la coppia delle meraviglie, i cui contratti pesano per 53 milioni, con la cessione presumibilmente di McCollum, per intraprendere definitivamente nuove strade: ma qui siamo nel campo delle pure ipotesi, così come quella della permanenza di coach Terry Stotts, su cui dopo l’eliminazione si sono addensati dei dubbi.
Arrivato nel 2012 così come Olshey e Lillard, Stotts è attualmente uno dei più longevi a sedere su una panchina NBA: il quinto, alle spalle di Popovich (1996), Carlisle e Spoelstra (2008) e Casey (2011). Per il carattere tranquillo e per il legame instaurato nel corso di questi anni con Lillard e soprattutto con McCollum, sembrerebbe una mossa molto azzardata allontanare il coach ex Milwaukee e Atlanta. Nei Playoff, però, sommando le ultime tre edizioni è arrivato a dieci sconfitte consecutive ed è risaputo che post-season e regular season sono due sport diversi.
Terry Stotts (credits to: Kelley L Cox-USA TODAY Sports)
Il clima, si diceva all’inizio, a Portland sta cambiando: non basta più essere una bella sorpresa, una splendida outsider, una mina vagante. Per i Blazers è il momento di rinforzarsi e di puntare a qualcosa di più e l’incapacità di fornire efficaci contromosse all’operato dei Pelicans ha sollevato parecchi interrogativi (d’altronde era intuibile che qualsiasi allenatore avversario avrebbe cercato di neutralizzare Lillard).
Del resto, a gennaio lo stesso Damian era andato a colloquio con il proprietario Paul Allen per chiedere non uno scambio, ma solo rassicurazioni sulla volontà di costruire una squadra in grado di puntare all’anello. Se la superstar vuole di più, non si può restare fermi. Lui, sicuramente, troverà il modo di riscattare questo passaggio a vuoto dei Playoff 2018, ma gli altri? L’età dei giochi è ormai finita a Portland ed è da presumere che le prossime mosse della dirigenza non guarderanno molto ai sentimenti. Olshey intanto ha preso tempo. A meno che questi quattro schiaffoni con i Pelicans non siano stati solo un incidente di percorso e che a ottobre rivedremo i Blazers esattamente come prima, pronti a far saltare in piedi il Moda Center a ogni canestro degli “Alternative Splash Brothers“.