Utah Jazz

Coach of the Year: Quin Snyder

Non è passato neanche un anno da quando ci siamo chiesti quale estate, e soprattutto quale futuro, attendessero gli Utah Jazz. All’epoca dei fatti, il rischio che il giocattolino quasi perfetto faticosamente costruito da coach Quin Snyder cominciasse a perdere inesorabilmente qualche pezzo era piuttosto alto e imponeva una doverosa riflessione in quel di Salt Lake City: nella drammatica eventualità, poi puntualmente verificatasi, meglio mandare tutto all’aria e imboccare il sentiero, piuttosto trafficato, del rebuilding oppure continuare lungo la via tracciata nei tre anni precedenti e tentare di migliorarsi?

Dato che state leggendo un pezzo incentrato sulla candidatura di Quin Snyder a Coach of the Year risulta piuttosto evidente che il front office dei Jazz abbia optato, per certi versi coraggiosamente, per la seconda opzione, dando fiducia al progetto tecnico dell’allenatore di Mercer Island, un uomo che sembrava aver prematuramente chiuso il suo rapporto con la pallacanestro una decina di anni fa per colpa di risultati sotto le aspettative, ma anche di uno dei tanti scandali dell’universo NCAA nell’ambito del reclutamento di promettenti liceali.

La carriera del promettente Quin Snyder appare quasi irrimediabilmente compromessa. Ex allievo di Myke Krzyzewski, uno che di pallacanestro collegiale ne sa qualcosa, Coach Q rischia seriamente di rimanere fuori dal giro, in un ambiente che storicamente non perdona nulla a nessuno. Per sua fortuna, passa soltanto un anno prima che il front office degli Spurs gli offra la panchina degli Austin Toros, loro affiliata nell’allora D League. È qui che Snyder fa la conoscenza di Dennis Lindsey, all’epoca assistant General Manager dei nero-argento, il quale nel 2014, in qualità di GM dei Jazz, chiamerà lo stesso Snyder sul pino della franchigia di Salt Lake City. Nel frattempo Snyder non era certo rimasto con le mani in mano: le varie esperienze da vice a Philadelphia, Los Angeles – sponda Lakers – e Atlanta, oltre ad una parentesi in Russia, sono il biglietto da visita per la sua prima vera panchina nel mondo NBA.

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Passano tre anni, ma neanche il tempo di smaltire la delusione per l’eliminazione alle Semifinali di Conference, tappa che ad ogni modo non può che costituire il felice, per quanto parziale, raccolto della lenta e faticosa semina del coach e del suo staff, e Lindsay e Snyder si ritrovano al bivio di cui sopra. Che Salt Lake City non abbia lo stesso mercato di San Francisco, Houston e compagnia cantante (qualcuno ha detto Boston?) non sarà certo la scoperta del secolo, ma non erano in pochi a credere che quanto di buono mostrato dai Jazz di Snyder fosse sufficiente a trattenere Hayward e di conseguenze le speranze di avere un futuro nella Western Conference. Così non è stato, ma, come dichiarato anche dallo stesso Lindsey, la squadra si era spinta troppo oltre per poter pensare di azzardare un rebuilding strutturale.

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Utah ha detto no al tanking: fiducia nel proprio credo tattico e acquisti ad esso funzionali sono stati i principi ispiratori alla base del mercato. Il front office ha saputo individuare in Ricky Rubio una valida e più economica alternativa a George Hill, con lo spagnolo che è andato a formare un backcourt totalmente rinnovato con la steal dell’ultimo Draft, quella dinamo che sta riscrivendo i record della pallacanestro americana; inoltre, salutati senza troppi rimpianti Joe Johnson e Rodney Hood, nello Utah è arrivato anche un Jae Crowder reduce dalla più che deludente esperienza in canotta Cavs. Risultato? Nonostante l’addio della stella della squadra e i problemi fisici accusati da Gobert, i Jazz hanno brillantemente chiuso la regular season con 48 vittorie e 34 sconfitte. Se buona parte dei meriti va giustamente attribuita a chi scende in campo, non temiamo smentite quando affermiamo che dietro l’ottima stagione di Mitchell e soci si celano – neanche troppo – il genio e la fidata lavagna di coach Quin Snyder.

Capacità di adattamento

“The strength of our team is our team.”

Dietro le parole di coach Snyder, proferite nel post-partita di Gara 2 del Primo Turno, c’è ben altro che mera retorica. Far rendere al meglio il materiale tecnico e umano a disposizione è la conditio sine qua non un allenatore possa rientrare nel discorso COY ed è sostanzialmente quello che Quin Snyder fa da quattro anni a questa parte sulle montagne dello Utah.

Come già anticipato, lo sfortunatissimo approdo di Hayward a Boston e l’addio di George Hill non hanno determinato un cambio di rotta del progetto tecnico dei Jazz. Esattamente come lo scorso anno, la manovra offensiva dei ragazzi di Snyder si basa su una rapida circolazione di palla volta a muovere la difesa avversaria e a scoprirne i punti deboli. Si parlava pocanzi di acquisti funzionali: Rubio e Mitchell hanno le giuste caratteristiche per far girare il pallone sul perimetro. Good to great è il mantra di casa Jazz: gli esterni non si accontentano di prendersi il primo tiro utile, ma aspettano pazientemente finché la difesa avversaria non è del tutto saltata.

Ingles prima, Mitchell poi e infine Rubio avrebbero la possibilità di prendersi una tripla non contestata, ma hanno la lucidità di selezionare il miglior tiro possibile, quello del solissimo Favors nell’angolo sinistro.

Questa ossessiva ricerca del miglior tiro possibile fa sì che i Jazz, con un discreto 46,2%, si collochino al tredicesimo posto per percentuale dal campo. Ad essere sacrificato sull’altare del good to great è inevitabilmente il ritmo, non esattamente il cavallo di battaglia di coach Snyder. Tuttavia, confrontando la regular season appena conclusa con quella dello scorso anno, notiamo un sensibile miglioramento nel numero di possessi gestiti mediamente dai Jazz: dal terrificante 93,62 della stagione 2016-2017, più basso dato della lega, il PACE è salito a 97,78.

Altro possesso magistralmente gestito dai ragazzi di Snyder: il pallone si muove rapidamente, permettendo a Rubio, ma potenzialmente anche a Mitchell, di trovare diversi metri di spazio per punire la disattenta difesa dei Lakers.

In definitiva, Rubio e compagni selezionano accuratamente il tiro da prendere prediligendo la qualità alla quantità, ma di fronte a difese più organizzate della media e al rischio di non riuscire a trovare la via del canestro, il fatto di giocare meno possessi degli avversari si è rivelato più di una volta un’arma a doppio taglio. Ed è qui che entra in gioco Donovan Mitchell.

Con tutta probabilità, quando i Nuggets hanno accettato Trey Lyles e la ventiquattresima scelta in cambio della loro numero tredici, neppure lo stesso Lindsey era consapevole di essersi assicurato un potenziale dominatore del gioco. L’impatto di Donovan Mitchell con la NBA è stato devastante: parlando di rookie, Spida è quello ad aver mandato a bersaglio più triple nel corso della regular season – 187, con buona pace di gente come Lillard e Curry – oltre ad aver recentemente strappato a Jordan il record di punti (55) segnati da una guardia nelle prime due gare di Playoff. Eppure non è stato sempre tutto rose e fiori: prendendo come termine di paragone il Mitchell deluxe delle ultime settimane, la sua versione autunnale non si sarebbe mai sognata di poter polemizzare con Ben Simmons sul significato del termine rookie. Fino all’exploit dell’1 dicembre, quando con 41 punti ha annichilito i Pelicans, la stagione di Mitchell aveva infatti conosciuto alti e bassi: in quell’occasione decisiva è stata la mano del coach, che ha intravisto in Mitchell del potenziale e ha deciso di continuare a dargli fiducia nonostante qualche serata storta e un roster che, tutto sommato, offriva valide alternative. Per il talento bisogna ringraziare Madre Natura, ma l’atteggiamento e in parte anche la maturità che il prodotto di Louisville dimostra sul parquet sono frutto dei preziosi insegnamenti di un maestro come Snyder: tanto per fare un esempio, parecchie delle triple che Mitchell riesce a mandare a bersaglio sono propiziate da rimesse minuziosamente studiate dal coach: potenza sì, ma con controllo.

In un contesto organizzato come quello di Utah, Mitchell è l’unico a godere di una certa libertà espressiva: il suo mix di talento ed esplosività ha ben presto convinto il coach a concedergli, oltre ad un gran numero di possessi da gestire (il 28,8% di Usage parla chiaro), la possibilità di esulare dagli schemi in caso di necessità: quando il piano partita non da i frutti sperati, è Spida a dover e poter far saltare il banco.

Il probabile vice Rookie dell’Anno non è però l’unica arma a disposizione dei Jazz. Oltre alle doti di ball-handling e gestione del pallone di cui abbiamo già avuto modo di parlare (nonostante i ritmi blandi, con 318,8 passaggi a partita Utah è al settimo posto di questa classifica), gli altri due esterni titolari dei Jazz sono anche in grado di concludere l’azione in maniera autonoma rispetto alle folate di Mitchell. Non ci dilungheremo troppo sul ritrovato Ricky Rubio, che ben presto sarà protagonista di un approfondimento su queste pagine. Per il momento vi basti sapere che, oltre ad essere un valido difensore e un eccellente uomo-assist, e fin qui niente di nuovo, dal suo arrivo a Salt Lake City il play spagnolo sembra aver almeno parzialmente riscoperto quella vena realizzativa che i detrattori gli hanno contestato sin dal suo approdo in NBA: il 35,2% dall’arco rappresenta il suo massimo in carriera, così come i 13,1 punti realizzati in media nel corso della regular season.

Se, volendo semplificare tremendamente i compiti individuali, Rubio passa, Mitchell attacca e Gobert difende, Joe Ingles è il collante perfetto per tenere unite le varie tessere del mosaico tattico dei Jazz. L’australiano, vero e proprio pretoriano di Quin Snyder, lo scorso anno ha dimostrato a suon di prestazioni di meritare i 52 milioni in quattro anni offertigli dal front office dei Jazz e, almeno per il momento, la scelta di Dennis Lindsey di investire sull’ex Barcellona sembra tutt’altro che azzardata. Proprio come nella scorsa stagione, Ingles è un coltellino svizzero nelle sapienti mani di Snyder: il suo QI decisamente sopra la media gli permette di leggere in anticipo il gioco in entrambe le metà campo. Tuttavia, rispetto allo scorso anno Jingles sembra essere addirittura migliorato: se la mira è rimasta pressoché stabile su livelli decisamente alti (44% da 3, che sale addirittura a 46,1% nei 4,3 possessi giocati in situazione di catch & shoot), ad essere aumentate sono le sue responsabilità con il pallone tra le mani. L’Ingles 2017-2018 si trova a toccare quasi il doppio dei palloni rispetto allo scorso anno (51,6 oggi, 36,5 nel 2016-2017), oltre a gestire mediamente un possesso in più da portatore di palla (2,6 contro 1,7) in situazione di pick-and-roll. I possessi aumentano e l’efficienza rimane sugli stessi, ottimi, livelli: il merito… beh, ormai avreste dovuto capire di chi è.

In particolare, Ingles sembra aver sviluppato un asse privilegiato con Gobert. Qui il francese rolla verso il ferro senza che nessuno tenti di ostacolare la linea di passaggio, con quest’ultimo che puntualmente arriva a destinazione. In altri casi, invece, ad Ingles basta semplicemente alzare il pallone: con le leve che si ritrova, per Gobert non è poi così difficile mettere a referto due punti.

Tirando le somme, nonostante la partenza della stella offensiva della squadra, l’attacco dei Jazz non è crollato come era lecito aspettarsi. L’Offensive Ratings parla chiaro: dal 107,4 dello scorso anno si è passati al 106,2 di questa stagione, il tutto rimpiazzando un All-Star con un rookie scelto alla 13. Se non è opera di un Coach of the Year questa…

 

Not in my house!

Passiamo ora alla specialità di casa Jazz, la fase difensiva. Nonostante la presenza di Rudy Gobert, perenne candidato al titolo di Defensive Player of the Year, agevoli indubbiamente il compito del coaching staff, c’è da dire che Snyder è riuscito a cucire una fase difensiva su misura della sua torre, in virtù della quale i Jazz possono vantare la seconda miglior difesa della lega (solo 101,6 punti concessi su 100 possessi). Poter contare su un rim protector efficace come il francese consente al backcourt dei Jazz di marcare stretti gli avversari sul perimetro e, di conseguenza, la difesa asfissiante degli esterni costringe gli avversari ad una difficile scelta: prendersi una tripla probabilmente contestata o puntare al ferro?

Ennis riesce a superare senza troppe difficoltà Exum e sfida Gobert nell’uno contro uno. Alla fine è lui ad avere la meglio, ma siamo sicuri che andare dritti contro il lungo dei Jazz sia stata la scelta migliore?

Se saltare il diretto marcatore non è un problema per l’esterno avversario di turno, lo stesso non si può dire del trovarsi di fronte all’apertura alare di Rudy Gobert e alla sua velocità di piedi, che gli consente di contenere con efficacia ogni tipo di avversario. L’obiettivo, neppure troppo velato, di coach Snyder è quello di costringere gli avversari a prendersi dei long-two a scarsa percentuale, una tipologia di tiro divenuta ormai l’incubo peggiore di ogni analyst che si rispetti.

Nonostante alla fine sia arrivata una sconfitta, in Gara 4 contro i Rockets la presenza di Gobert ha fatto sì che gli avversari ripiegassero a malincuore sui tanto detestati tiri da due punti.

I motivi per cui gli attacchi avversari soffrano di un timore reverenziale nei confronti del 27 in canotta Jazz sono presto spiegati: con 16,1 tiri contestati a partita, Gobert è tra i primi cinque giocatori della lega in questa graduatoria. Inoltre, al di là delle due stoppate ad allacciata di scarpa, il francese è in grado di abbassare la percentuale realizzativa degli avversari, attestata mediamente al 48,1%, al 45,4%, una miseria se si considera che la stragrande maggioranza dei tiri che si trova a difendere viene tentata nel pitturato.

Forte della presenza di Gobert a presidiare il ferro e consapevole delle sue poche chance in post contro Green, Rubio tenta l’anticipo con un rischio decisamente calcolato, che non molti suoi colleghi nella lega possono permettersi.

Tuttavia, considerando che il francese ha dato forfait in ben 26 occasioni per problemi fisici, nel corso della stagione Snyder ha dovuto per forza di cose fare affidamento anche sui suoi compagni. Oltre all’apporto dei vari Ingles, Rubio e Favors, non nuovi a questo genere di sforzi nella propria metà campo, merita una menzione d’onore il rendimento offerto da Jae Crowder in questi suoi primi mesi a Salt Lake City. Che l’ex Cavs fosse uno dei migliori 3&D della lega era già noto da tempo, ma dopo la disastrosa esperienza in Ohio in molti dubitavano della sua utilità alla causa Jazz. Dubbi ben presto fugati: il quintetto Rubio-Mitchell-Ingles-Crowder-Gobert vanta uno strepitoso Defensive Ratings di 87,4, che la dice lunga sull’apporto offerto dal prodotto di Marquette nelle vesti di sesto uomo.

Chiudiamo con una considerazione sui due giovani talenti dei Jazz, Mitchell e Exum. Il primo, oltre a fare sostanzialmente ciò che vuole con la palla in mano, sta dimostrando un’ottima attitudine anche nella propria metà campo: in fondo, prima di riscoprirsi superstar, Spida era un ottimo prospetto di 3&D. Capitolo Exum: come da triste copione, gli ormai soliti problemi fisici gli hanno dato tregua solo per 10 gare nel corso della regular season. Tuttavia, per quanto abbiamo potuto vedere il futuro è dalla sua parte, e anche il presente non è poi così male: se in Gara-2 è riuscito a limitare uno scorer del calibro di Harden a 2 punti e un assist su ventidue possessi qualcosa vorrà pur dire.

Gli Utah Jazz sono una squadra tosta, dalla mentalità operaia, che però predica una pallacanestro da palati fini. Rischiare il tutto per tutto e snobbare una stagione di tanking con vista su una delle Draft Class più interessanti degli ultimi anni è stata una scelta coraggiosa da parte del front office, che in questo modo ha dimostrato di avere cieca fiducia nel roster ma soprattutto nell’operato del proprio coaching staff (che, nota a margine, dalla prossima perderà Igor Kokoshov, neoallenatore dei Suns). Con Quin Snyder siamo di fronte al classico self-made man, un uomo che conosce il significato della parola “gavetta” e ha fatto tesoro di ogni esperienza, positiva e negativa riservatagli dalla sua carriera. Quest’anno la concorrenza al premio di Coach of the Year è particolarmente agguerrita: non sarà certo facile spuntarla e riportare a Salt Lake City un premio che manca dal 1984. Quel che è certo è che, dell’anno o meno, i Jazz hanno uno dei migliori allenatori del panorama NBA, l’uomo giusto per traghettare Mitchell, Gobert e lo Utah verso un luminoso futuro.

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Pubblicato da
Federico Ameli

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