Houston Rockets e Golden State Warriors sono le due migliori squadre dell’NBA: chi può negare di averlo pensato nel corso dell’intera stagione? Ben pochi. La percezione diffusa di superiorità delle due squadre non affonda solo in una convinzione generale sedimentatasi nel corso della regular season, ma è confermata da una quantità impressionante di dati che convergono tutti in un’unica direzione. Oltre ad aver conseguito le migliori due piazze a Ovest grazie al primo e al terzo miglior record della lega (il secondo è stato appannaggio dei già eliminati Raptors), i team di D’Antoni e Kerr hanno allungato il proprio dominio statistico in quasi ogni comparto del gioco.
Nel corso della regular season sono state le due migliori squadre per punti a partita, efficienza offensiva, percentuale reale dal campo e Net Rating. Come se questo non bastasse, nel corso dei Playoff le due squadre hanno deciso anche di salire definitivamente di colpi nella metà campo difensiva passando rispettivamente dal nono (Warriors) e sesto (Rockets) piazzamento nell’efficienza difensiva alle prime due posizioni del ranking. Il risultato? Un identico record di accesso alle finali di Conference (8-2), maturato dando un’importante sensazione di maturità: anche dopo le sconfitte nessuno si è realmente scomposto, cosa che poteva sembrare ovvia per gli ormai espertissimi Warriors ma non era scontata per questa nuova versione dei Rockets.
Neanche Chris Paul si è scomposto più di tanto per l’emozione, malgrado avesse la possibilità di arrivare per la prima volta in carriera in finale a Ovest.
Come se la già diffusa sensazione di superiorità delle due squadre non fosse bastata, diversi esponenti della franchigia texana, Daryl Morey in testa, hanno anche a più riprese sottolineato come il loro unico obiettivo fosse competere con gli Warriors, vedendo nella possibilità di battere il team della Baia una vera e propria ossessione.
La prospettiva di assistere a una serie tra le due migliori squadre al mondo con gli “eyes of the tiger” dettati tanto dalla posta in palio quanto dalla rivalità in corso è iper-eccitante. Non trovate?
Precedenti stagionali
Le tre sfide stagionali ci hanno detto una cosa: le due squadre sanno come farsi male. Abbiamo assistito a delle sfide ad alto punteggio, in cui entrambe le squadre hanno messo in mostra le proprie armi migliori e le rispettive capacità di forzare gli ingranaggi delle difese avversarie. Nella prima sfida stagionale, risalente al season opener, Houston ha avuto la meglio con un 122-121 totalmente insolito per il match di debutto stagionale che ha mandato un messaggio all’intera lega, poi confermato nel corso della regular season.
Nella rivincita del 4 gennaio, a vincere sono stati gli Warriors per 124-114, in una sfida in cui erano assenti tanto James Harden quanto Kevin Durant; mentre nell’ultimo confronto stagionale, comunque risalente al 20 gennaio, a vincere è stata nuovamente la squadra texana per 116-108, complice l’assenza di un tassello fondamentale del Death Lineup come Andre Iguodala, assente anche nella prima sfida tra le due squadre.
Un season opener che ricorderemo a lungo, anche per il tiro (non valido) allo scadere di Durant.
Alla vigilia della finale di Conference, dunque, non abbiamo mai assistito a una sfida a ranghi completi tra le due migliori compagini della NBA. Siamo, in definitiva, completamente sprovvisti di un reale campione statistico che fotografi la capacità di Houston di reagire contro i “quintetti della morte” di Golden State: in queste condizioni l’attenzione posta agli aggiustamenti da parte dei due coach dovrà essere moltiplicata ed estremizzata.
Chiavi Tattiche
Come ormai noto, questi Warriors sono figli spirituali dei Phoenix Suns dei seven seconds or less di metà anni 2000: l’idea continua di flusso, l’uso estremo del tiro da tre punti, il pace-and-space, lo small ball e quanto ne consegue sono tutti concetti definitivamente sdoganati da quella versione così bella e sfortunata di Phoenix allenata proprio da Mike D’Antoni. I Rockets, invece, pur fondati sui principi classici della pallacanestro professata dall’ex allenatore della Benetton Treviso, sono il frutto di un meltin’ pot tecnico davvero intrigante: la pallacanestro dantoniana sublimata dal Moreyball e modulata sulle caratteristiche offensive del suo leader indiscusso, James Harden. Siamo, dunque, giunti al giorno in cui a contendersi la finale a Ovest sono giunte due promanazioni dirette dello stesso basket, permeate dagli stessi concetti ma distanti anni luce nei metodi attraverso i quali raggiungerli.
Azione epitome dei Suns del 2005: si corre anche da canestro subito e si cerca una soluzione perimetrale in ritmo.
I Golden State Warriors che siamo abituati a conoscere: il flusso, al transizione e il tiro da tre punti in ritmo.
In questi Rockets anche Chris Paul è tenuto a prendere un tiro di quel genere, che storicamente non gli avremmo visto prendere così spesso, per legittimare un intero sistema. Ci sono ancora molti dubbi su quale sia l’archetipo comune?
Questa premessa è fondamentale per cominciare a introdurre l’elemento scriminante che risulterà fondamentale per l’intero svolgimento della serie: il controllo del ritmo. Houston, infatti, alterna situazioni in cui colpisce immediatamente in transizione a numerosi possessi a metà campo in cui si affida alle sue due soluzioni principali: il pick-and-roll e l’isolamento. Quindi, tra le due squadre, è paradossalmente quella di Mike D’Antoni a correre meno: in regular season i Rockets erano appena quattordicesimi per PACE (99.97 possessi a gara) e in post-season il dato è sceso ulteriormente (98.29). Golden State, invece, predilige assolutamente un ritmo decisamente più alto: dopo aver tenuto il quinto ritmo della lega in regular season (101.85), gli Warriors sono al momento primi tra le squadre ancora in corsa con un dato pressoché identico, malgrado la netta tendenza dei Playoff sia quella di abbassare sensibilmente i giri del motore. Come insegna la storia recente della lega, più il ritmo è alto, più la squadra di Kerr diventa imprendibile per chiunque.
Eppure, in regular season i Rockets hanno dimostrato di poter ribattere colpo su colpo, tramutando un ritmo elevato in un punto di forza. La capacità dei Rockets di generare parziali in spazi temporali molto ristretti è risultata decisiva per far capitombolare due volte su tre Golden State: il lato oscuro della medaglia potrebbe, però, essere molto doloroso per Houston quando saranno loro a subire dei break che, se effettuati da un avversario come gli Warriors, sono in grado di costringere chiunque alla resa.
In regular season, Houston ha accettato di competere usando le armi di Golden State.
Nei tre match stagionali, Golden State ha rifilato a Houston 115.1 punti su cento possessi, mentre i Rockets si sono fermati a 111.8. Malgrado due vittorie su tre siano state appannaggio dei texani, il Net Rating (+3.3) ha arriso, dunque, ai californiani. Anche il ritmo tenuto dalle due squadre (oltre 103.57 possessi a gara) è teoricamente nettamente più vicino agli standard preferiti dagli Warriors ma Houston ha dimostrato di poter reggere l’onda d’urto. La domanda, a questo punto, diventa: riusciranno i Rockets a tenere un ritmo simile per un’intera serie o dovranno cercare di riportare la contesa su binari a loro più congeniali? La risposta sembra, malgrado tutto, propendere verso la seconda opzione. Un fattore fondamentale per dettare il ritmo di queste Western Conference Finals sarà, senza dubbio, l’incidenza delle situazioni di isolamento e pick-and-roll nel corso della serie: per Houston, infatti, tali situazioni di gioco sono imprescindibili, tanto da valere grossa parte del fatturato totale in termini dei punti.
In questa post-season, i Rockets concludono il 25.2% dei possessi con una conclusione del palleggiatore sul pick-and-roll (ottenendo 0.95 punti a possesso) e il 9.4% degli stessi con una conclusione del bloccante (ottenendo un più gramo 0.80 punti a possesso): sommando i due dati, arriviamo a sapere che il pick-and-roll frutta a Houston il 34.2% dei punti totalizzati con i due uomini direttamente impegnati sulla palla. A questo dato sommate il 14.2% di influenza degli isolamenti, da cui Harden e compagni cavano 1.06 punti per possesso, e appariranno evidenti i mezzi attraverso i quali Houston potrà cercare di addormentare il ritmo.
Houston può anche permettersi di non far succedere niente per 20 secondi, se la palla la ha in mano James Harden.
Gli Warriors, invece, finalizzano molto meno attraverso i giochi a due, sia con il palleggiatore (10.9% dei possessi) che con il bloccante (4.2%): il pick-and-roll è, per Steve Kerr, solo uno dei pulsanti d’innesco del proprio gioco. Il flusso e il movimento di palla dall’esterno verso l’interno e viceversa hanno importanza predominante e questo porta spesso a conclusioni lontane dalla palla: il 12.6% dei punti degli Warriors arriva in uscita dai blocchi e il 17.2% arriva in spot-up, per un totale che sfiora il 30% di punti totali segnati in in situazioni di ricezione lontano dall’origine del gioco.
Il pick-and-roll è, per Golden State, un’opzione esplorabile ma prima è sempre necessario muovere la palla dall’interno all’esterno e viceversa.
Per Steve Kerr, mettere i piedi dentro l’area è fondamentale anche per generare tiri da tre piedi per terra in transizione.
Per Houston, invece, queste situazioni incidono in poco più della metà dei casi (5.4% dai blocchi e 13.7% in spot-up) ma con un efficienza addirittura maggiore: in questi Playoff le conclusioni in uscita dai blocchi fruttano ad entrambe le squadre 1.06 punti per possesso, mentre i Rockets fanno registrare 1.26 punti per possesso in situazioni di spot-up, quasi 0.30 in più di Golden State (0.98). Il motivo di tale efficienza da parte di entrambe le squadre risiede nell’attenzione ai dettagli: gli angoli con cui vengono portati i blocchi, l’ampiezza delle spaziature, la capacità di effettuare relocations di qualità. Ad esempio, entrambe dispongono di bloccanti di valore, in grado di massimizzare i vantaggi ottenuti lontano dalla palla: non è un caso che queste due siano anche due delle migliori tre squadre della post-season per screen assist.
Il blocco di contenimento di Capela permette a Gordon di tirare senza essere contestato: anche da 8 metri di distanza dal ferro quell’istante di vantaggio guadagnato può tramutarsi in tre punti.
Altro tema di raro interesse riguarda le scelte di quintetti da parte di Mike D’Antoni: contro il death lineup la sua necessità sarà, ovviamente, quella di mettere in campo uomini che gli permettano di cambiare su ogni blocco per eseguire al meglio il suo classico piano difensivo: il cambio su ogni contatto e la negazione delle conclusioni perimetrali.
I principi difensivi di Houston spiegati da Chauncey Billups.
Non è un caso che in questa post-season i minuti di un difensore non sempre eccellente come Ryan Anderson si siano molto ristretti in favore di quintetti extra-small con Tucker o Mbah a’Moute da 4: l’enigma ora, quindi, riguarda l’unico vero lungo di cui D’Antoni non può fare a meno, Clint Capela. Con chi si accoppierà nei minuti in cui Kerr ricorrerà al suo miglior quintetto? La soluzione più scontata appare Draymond Green, ma non ci sarebbe da sorprendersi nel momento in cui l’ex allenatore dell’Olimpia dovesse effettuare scelte ancora più estreme, volte a fare i modo che il suo lungo non sia attratto sui cambi e non sia automaticamente costretto a coprire ampie porzioni di campo per effettuare dei close-out facilmente punibili dal numero 23.
Capela dispone di un’iperattività cestistica e di un’abnegazione notevoli e fondamentali sui due lati del campo ma il death lineup sottopone gli avversari a situazioni di stress continuo non riscontrabili contro alcun quintetto della lega. Non stupiamoci, dunque, se per porzioni molto ristrette di partita D’Antoni dovesse strappare una pagina dal libro di Steve Kerr, accoppiando Capela a Iguodala e scommettendo sulle percentuali da fuori e sulla sua creatività dal palleggio del numero 9, che sono chiaramente le più ridotte nel miglior quintetto degli Warriors. Dalla capacità di D’Antoni di plasmare quintetti efficienti difensivamente passa larga parte della possibilità di assistere a una serie lunga ed equilibrata.
Non esiste alcuna possibilità per Houston senza Clint Capela.
Players to watch
In questo momento, probabilmente, questa è la sfida dotata di maggior star power dell’intera lega. Saranno in campo tre dei migliori cinque giocatori del mondo, nonché sei dei primi venti. Non farsi rubare l’occhio dalle superstar è davvero impossibile ma in un contesto simile saranno i dettagli a fare la differenza.
Se c’è un giocatore leggermente che più di tutti può indirizzare questa serie grazie alla sua capacità di salire di livello, padroneggiare le piccole cose e punire le scelte fatte contro di lui dalla difesa avversaria, quel giocatore è chiaramente Andre Iguodala, uno che così ha vinto anche un titolo di MVP delle Finals.
Nell’unica sfida stagionale Iguodala ha mostrato tutto ciò che può far malissimo a Houston: aggiungere playmaking, punire i mismatch fronte e spalle a canestro, correre il campo. Un paio di partite di questo genere nel corso della serie potrebbero risultare decisive.
Tra i Rockets, invece, bisogna far particolare attenzione all’apporto di Eric Gordon, fin qui molto ondivago nel corso della sua post-season. Sulla sua capacità di confermarsi sull’eccellente livello delle ultime due regular season passano molte delle possibilità di Houston di contrastare lo strapotere tecnico degli Warriors: se l’apporto di Gordon dovesse essere comparabile a quello fatto registrare nelle sfide di regular season (20 punti a partita malgrado un impresentabile 8.3% da tre e un rivedibile 66.7% ai liberi), la squadra di Mike D’Antoni avrebbe un’importante arma per punire l’aggressività difensiva di Golden State.
Nei primi due confronti stagionali tra i due team, Gordon ha fatto registrare ben 54 punti con due sole triple a bersaglio: una coppia di partite che mostra come la sua combinazione di caratteristiche lo renda un attaccante pieno di risorse che potrà tornare decisamente utile contro l’iper-efficiente sistema offensivo degli Warriors.
Gordon è fondamentale per legittimare a pieno il Moreyball: anche quando il tiro da tre non entra, lui è sempre perfettamente spaziato a 8 metri dal canestro ed è costantemente in grado di chiudere al ferro.
Pronostico
La possibilità di assistere a una serie lunga è combattuta è negli auspici di tutti, ma negare che i Golden State Warriors siano favoriti sarebbe un goffo tentativo di negare la realtà dei fatti. Il talento degli interpreti californiani e la loro capacità di salire di livello interpretando al meglio uno spartito che sembra cucito su misura per loro sembra un ostacolo insormontabile per tutti. Se c’è una squadra che quest’anno, però, può provare a fermarli è proprio Houston: sognando una Gara 7 che avrebbe davvero i contorni della teogonia, il pronostico si ferma al 4-2 per i ragazzi di Steve Kerr. Starà a Chris Paul, James Harden e Mike D’Antoni sovvertire l’ordine delle cose: questa sfida con Golden State è il momento in cui viene a convergere il lavoro di due anni per i texani.
Dall’arrivo di coach D’Antoni al probabile MVP 2018 di James Harden, passando per l’eliminazione subita dagli Spurs, la trade-Paul e la prima piazza raggiunta a Ovest: questa serie ha i connotati del redde rationem per tutto ciò che è avvenuto negli ultimi due anni in Texas. Dal suo risultato dipende anche buona parte dell’immagine futura che ci resterà di questi Rockets.
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Anche per me Golden State è favorita, anche se spero che vinca Houston, che in caso di finals con Boston, lascerebbe qualche fievole speranza ai biancoverdi.
Però dico Golden State 4 a 3