Trasformare una squadra da, senza mezzi termini, perdente, a una delle realtà più solide della Eastern Conference nel giro di cinque anni sarebbe già materia di studio. Farlo spostando per due volte l’asticella del record di vittorie nella storia della franchigia è sicuramente materia di studio. Coach Dwane Casey ha appena concluso la sua settima e ultima stagione alla guida dei Toronto Raptors, dimostrandosi ancora una volta uno degli allenatori più preparati, in una lega che ultimamente sta accogliendo una quantità di ottimi head coach difficile da trovare in altre epoche.
Nonostante LeBron James rimanga un problema insoluto per tutto l’universo cestistico, in special modo per i Raptors, la stagione dei canadesi è stata la più vincente nella storia della franchigia nonché la più interessante per evoluzione tattica a parità di uomini sul parquet.
Basterebbe un dato per legittimare quanto il vento del nord abbia iniziato a spirare verso la direzione dell’intera NBA: lo scorso anno i Raptors erano ventiduesimi per triple tentate a partita. In questa stagione, con lo stesso coaching staff e pochissimi cambianti nel roster, soltanto Rockets e Nets hanno collezionato più conclusioni da oltre l’arco.
Inversione di rotta
I Toronto Raptors hanno chiuso la Eastern Conference al primo posto con un record di 59-23, vincendo ben otto partite in più rispetto allo scorso anno. Buona parte del merito va attribuito a Casey e al suo staff, i quali, lontani del crogiolarsi in un modo di giocare che comunque riusciva a riscuotere i suoi dividendi, hanno deciso di accettare le tendenze provenienti dagli ambienti più glamour della lega e vestirsi come una squadra del 2018. I Raptors 2.0 hanno pochissimo da spartire con i loro individualisti e midrangeiani predecessori: da ora in poi si tira da 3.
Il passaggio, come anticipato, dai bassifondi della classifica di triple alle vette della stessa, è molto meno elementare di quello che potrebbe apparire, specialmente se il roster non viene praticamente toccato. Anzi, salutano due affidabili tiratori come Ross e Patterson mentre arrivano CJ Miles (onesto mestierante e poco altro) e dal Draft un rookie di nome OG Anunoby che non sembra avere il pedigree della superstar.
Cos’è cambiato esattamente? Per utilizzare le parole di Masai Ujiri (plenipotenziario General Manager dei canadesi): “culture reset”. Non è questa la sede per addentrarci nei molteplici significati che il termine “cultura” assume nel linguaggio occidentale e in particolar modo nello sport americano, tuttavia basti dire che un atteggiamento top-down, in cui il capo di un’organizzazione impone un determinato modo di vedere le cose al resto del team, non è praticabile se alla base manca un’idea comune di fondo. Se Ujiri vuole più spacing e più passaggi ma DeRozan continua a fermare la palla c’è poco da resettare.
Evidentemente in quel di Toronto la sensazione che si potesse fare meglio era condivisa da tutta la baracca; attraverso la lavagnetta di Casey e la sua trasposizione sul parquet abbiamo potuto apprezzare questo riuscitissimo cambio di rotta.
Pallone che si muove sui polpastrelli, tripla piedi per terra di DeRozan, sensazione che qualcosa sia cambiato per davvero.
Il dato sulle triple tentate è soltanto la punta dell’iceberg: i Raptors sono passati dall’essere la peggior squadra per assist (18,5 per game lo scorso anno), all’avere il sesto dato nella lega (24,3), ad avere il tredicesimo Pace in NBA (22esimo la scorsa stagione), all’avere il terzo Offensive Rating della lega e il terzo Net Rating, a giocare il 22,5% di situazioni da spot-up (peggio solo di Spurs e Nets) per chiudere con il dato più rivelatore per la discrepanza ideologica coperta tra il prima e il dopo.
Il 59% dei tiri presi dai canadesi proviene da un assist. Lo scorso anno appena il 47,2% delle conclusioni erano assistite, risultando ovviamente la squadra fanalino di coda per quanto riguarda il ball-movement.
Questa sorta di rebranding sportivo non ha coinvolto soltanto gli aspetti strettamente cestistici, ma anche tutte quelle piccole cose che rendono una cultura tale. Arrivare in orario agli allenamenti, monitorare quotidianamente i progressi dei giocatori, andare più spesso a cena fuori, tutti piccoli accorgimenti che hanno reso l’ambiente dei Raptors immune a scaramucce interne e che nascono dalla volontà di Dwane Casey di assecondare gli dei del basket affinché la loro benevolenza ricada a Nord. Non è un caso che la panchina di Toronto sia, senza eccellenti interpreti, la più mortifera della lega.
Sull’apporto della panchina avremo occasione di tornarci, ma modificare la filosofia di una squadra può rivelarsi un autogol spaventoso se i giocatori più rappresentativi non digeriscono la cosa. Per Lowry e DeRozan, uno dei backcourt più letali in NBA ma anche uno dei meno abituati a giocare un certo tipo di pallacanestro, è stato un salto notevole. I risultati però danno ragione a coach Casey.
The New DeMar
Se per Lowry non si è trattato di un cambiamento radicale, dovendo soltanto limitare la USG% e di conseguenza lasciare sul piatto qualche conclusione, per il prodotto di USC il discorso è un po’ diverso. In questa stagione DeRozan ha tentato 3,6 triple a partita mandandole a bersaglio con un modesto 31%. Lo scorso anno le triple erano 1,7 per game, le percentuali non arrivavano al 27%. Non solo. La sua Usage% è calata di quasi 5 punti percentuali, il suo minutaggio non era così basso dalla sua stagione da rookie, se lo scorso anno il 30,5% dei suoi tiri venivano dal mid-range quest’anno sono appena il 23,3%, i 5,2 assist a partita sono il dato migliore della carriera per quello che è ancora un All-Star, che sarà probabilmente ancora un All-NBA, ma che sostanzialmente è un giocatore profondamente cambiato.
Qualsiasi argomento abbia utilizzato coach Casey per favorire questo mutamento è palese quanto il gioco di DeRozan ne abbia giovato. Da versione blockbuster di Kobe Bryant si è trasformato nella guardia del 2018, capace di spaziare il campo, muovere la palla, coinvolgere i compagni, l’essenza del basket moderno racchiusa in un cestista che fino allo scorso anno era soltanto un grandissimo atleta condizionato da un software obsoleto che gli permetteva di vedere soltanto una parte del tutto. L’upgrade sistemico lo ha portato a un livello di basket in cui i suoi numeri vanno a beneficio della squadra, in confronto al 17,1% di frequenza in isolamento dello scorso anno, il nativo di Compton è sceso al 13,3% appena 0,4 punti percentuali in più di Bradley Beal. Culture reset.
C’è da guardarla un buon numero di volte per convincersi che no, non è andato a cercare fortuna al ferro ma ha riaperto per un liberissimo Ibaka.
Ovviamente i miglioramenti di DeRozan non sono stati un episodio isolato: nei canadesi soltanto Siakam e Powell, tra i giocatori con almeno una tripla tentata a partita, hanno una percentuale inferiore al 30% da oltre l’arco. In una squadra che si è trasformata improvvisamente in una fucina di triple avere quelle percentuali permette non solo di spaziare il campo, ma di farlo con buone probabilità di muovere il punteggio e di conseguenza costringendo gli avversari a sguarnire l’area per le residue penetrazioni di Kyle&DeMar.
D’altronde questa rivoluzione culturale non ha certo inficiato le capacità di Toronto di andare al ferro, dal momento che i 48,6 punti a partita nel pitturato sono il sesto dato della lega, grazie alla miglior stagione offensiva di Valanciunas (visione di gioco ampiamente migliorata, 59% di eFG% e una stagione da 74 triple tentate, contro le 4 totali da quando è in NBA), alle intatte qualità in penetrazione di DeRozan e al solido contributo di gente come Poeltl e Siakam, un lusso alla categoria comprimari.
In effetti il segreto meno segreto della stagione dei Raptors è proprio quello di costringere gli avversari a subire sistematicamente parziali da quella che è stata, a mani basse, la miglior second unit della NBA.
Panchina, difesa, Casey, sempre Casey
Tra i quintetti con almeno 300 minuti di impiego in regular season, quello composto da Miles, Poeltl, Siakam, VanVleet, Wright è il migliore per Net Rating dopo lo starting five dei Sixers, è il quarto per efficienza offensiva, il sesto per quella difensiva. In una lega sempre più orientata alla creazione di super-team o comunque alla creazione di squadre attente nella miscela ideale di quei cinque che nei momenti chiave si andranno a giocare la partita, ci si dimentica di quanto sia importante, nell’arco di una stagione da 82 partite, creare non solo un roster profondo ma che quella profondità la sappia sfruttare a suo vantaggio.
Il ball movement della vostra panchina tipo.
Difficilmente una panchina ultra-competitiva basterà per diventare una contender (i Raptors lo hanno dimostrato in questi Playoff), eppure quello che ha fatto coach Casey non è ascrivibile a mero esercizio di team bulding o roba simile. Lavorare con un gruppo di 10/12 individui, elevare il gioco dei più forti e dei meno dotati allo stesso tempo, infondere principi di gioco egalitari indipendentemente da chi calca il parquet, risponde all’esigenza di dover arginare proprio quelle squadre ingiocabili con i loro migliori cinque.
I numeri di cui sopra su 100 possessi dimostrano non solo lo sviluppo dei giovani di Toronto (che comunque è stato strabiliante in questa stagione), ma anche la costante brutalizzazione che le panchine avversarie erano costrette a subire quando in campo per coach Casey non c’erano i titolari. Il contributo della panchina ha portato numerose vittorie in Canada, oltre a una rinnovata fiducia in un’ossatura piuttosto anonima a inizio anno che invece si è dimostrata all’altezza della situazione. La stessa natura comunitaria ha influenzato un rendimento difensivo solidissimo, non particolarmente scostato dall’idea difensiva mostrata nella scorsa stagione ma beneficiario di piccoli ma significativi miglioramenti dei singoli. Ad esempio Valanciunas contesta un tiro in più a partita (9,8 gli stessi di Anthony Davis più di Embiid), Siakam, Anunoby e Poeltl si sono dimostrati un problema per gli avversari, specialmente i primi due promettono di diventare difensori d’élite on e off the ball. Il fiocchetto finale sono le 6,1 stoppate a partita che pongono i Raptors dietro ai soli Warriors, risultato raggiunto senza annoverare rim-protector di livello assoluto ed ennesimo capolavoro di quello che dal prossimo anno non siederà più sulla panchina dei canadesi.
Alla 23 Ujiri ha pescato tale OG Anunoby che a oggi è il miglior difensore di quella rookie class e con Casey ha fatto un primo anno molto promettente. Il barbuto con la palla in mano sarebbe Harden by the way.
Per quanto si faccia fatica, in ogni ambito della vita a dire la verità, a scindere il processo dai risultati, la stagione dei Toronto Raptors è stata la più grande sorpresa in positivo insieme all’exploit dei baby Sixers. Sradicare un sistema di gioco saldamente radicato come lo era quello dei canadesi è un esercizio rischioso, a maggior ragione se il sistema in questione, per quanto limitante, produce dei risultati. Quello messo insieme da coach Casey è stato il collettivo più vincente nella storia della franchigia, i risultati ottenuti quest’anno sono stati la riprova che parliamo di uno dei migliori coach della lega. Nonostante uno status già riconosciuto da un paio di stagioni, Casey non ha esitato a rimettere tutto in discussione alla ricerca della più alta espressione cestistica mai vista a Toronto.
I Playoff sono andati male, la dirigenza dei Raptors ha preso atto e ha tracciato una linea. Grazie del passaggio, da qui continuiamo da soli. Come se la rivoluzione culturale avesse superato chi ne ha acceso i primordiali fuochi. D’altronde lo sport va sempre meno a braccetto con la riconoscenza, ma se a Toronto arriveranno dei risultati mediante questa nuova prospettiva cestistica, gran parte del merito andrà anche a coach Dwane Casey.