Toronto Raptors

Lo straordinario anno della panchina dei Raptors

In gergo metropolitano, il vocabolo broski – al plurale broskis – indica quel particolare livello di amicizia, forse il più elevato, in cui si farebbe qualsiasi cosa l’uno per l’altro, senza lamentarsi né giudicare. La connection tra broskis è più di una fratellanza: si avvicina meglio al concetto di essere una cosa sola. E diventa fondamentale se il gruppo di amici è impegnato insieme sul campo nell’inseguimento di un obiettivo mai raggiunto prima.

In questa stagione NBA, a costituire un blocco granitico e unitario, mosso da altruismo e abnegazione, è stata la panchina dei Toronto Raptors, la migliore della lega in regular season. Grazie al suo apporto, la franchigia canadese ha conquistato il primo posto nella Eastern Conference (secondo record assoluto della NBA alle spalle dei soli Houston Rockets) e ha vinto il primo round dei Playoff battendo i Washington Wizards. Se poi la corsa si è arrestata in semifinale di fronte al LeBron James più ispirato della storia, con i Cavs che hanno sbattuto fuori Toronto con un impietoso 4-0 causando di fatto il clamoroso esonero di coach Dwane Casey, questo è un discorso a parte.

 

Stoppata, transizione, circolazione di palla, rimbalzo offensivo, canestro da tre: tutto firmato dalla second unit dei Raptors

In un’ipotetica assegnazione collettiva del premio di sesto uomo dell’annoby committee, come sono soliti dire gli americani – i “panchinari” dei Raptors sarebbero seri candidati al riconoscimento, visto che inoltre per tali awards si fa riferimento solo alla regular season e che questo gruppo di giocatori avrebbe pure un nome con cui identificarsi: i Bench Broskis. Un epiteto finito, grazie a una trovata di marketing, sulle candide t-shirt prodotte in occasione dei Playoff, con tanto di nome e numero dei giocatori interessati, e sul bandierone sventolato a bordo campo all’Air Canada Centre durante le partite.

Il quintetto dei Bench Broskis “titolari”, se così si può dire, della stagione 2017-18 è stato composto, in ordine di ruolo dai piccoli ai lunghi, da Fred VanVleet, Delon Wright, C.J. Miles, Pascal Siakam, Jacob Poeltl, con un ruolo minore riservato a Lorenzo Brown (il cui nome però non era neppure sulla t-shirt, a differenza degli altri), Norman Powell (che ha sorpreso in negativo dopo l’exploit di un anno fa) e Lucas Nogueira (che non ha trovato molto spazio). Riserve che durante la scorsa estate si sono allenate insieme a Los Angeles per prepararsi al meglio a fornire il loro contributo, il quale ha consentito ai Raptors di vivere, con 59 vittorie su 82 partite, la loro miglior stagione della loro ancor giovane storia, iniziata nel 1995, nonostante non si possa dire la stessa cosa della postseason, in cui il miglior risultato resta la finale di conference raggiunta nel 2016, finita con quella che sarebbe stata la prima di tre eliminazioni consecutive da parte di Cleveland.

 

Un altro esempio del gioco di squadra della panchina di Toronto: pick-and-roll rapido tra Wright e Poeltl, con l’austriaco che dopo aver rollato in area attira un raddoppio e trova Siakam libero sotto canestro dopo un taglio non visto dal difensore.

 

Come costruire una panchina efficace

Dopo aver rinunciato a qualsiasi velleità di ricostruzione, nonostante uno spazio salariale tuttora stracolmo, il lavoro di questa edizione dei Toronto Raptors ha seguito due precise linee guida, in parte collegate tra loro, volte a superare i due principali limiti della squadra, per cercare di renderla competitiva fino in fondo: 1) uscire da un attacco poco “contemporaneo”, seppur produttivo, a basso ritmo e nel quale la palla finiva per ballare a lungo nelle mani di Kyle Lowry e DeMar DeRozan; 2) fornire maggior profondità al roster, in funzione dell’upgrade descritto al punto 1.

L’attacco dei Raptors, nel corso del campionato, ha conosciuto finalmente i cambiamenti desiderati, con un PACE più alto e un maggior ricorso alla circolazione di palla e alle spaziature, in modo tale da aumentare i canestri assistiti e le conclusioni da tre punti. Quindi, il coinvolgimento più attivo di tutti i giocatori presenti sul parquet ha reso necessario dotare la squadra di un numero più consistente di efficaci alternative ai titolari. In tal senso, negli ultimi tre anni almeno, è stato compiuto con pazienza un lavoro articolato su ben tre livelli: il front office, guidato dal President Of Basketball Operations Masai Ujiri; lo staff tecnico di coach Dwane Casey; lo staff tecnico di Jerry Stackhouse, allenatore dell’affiliata di G League, i Raptors 905 (vincitori del titolo 2017). L’operato di quest’ultimo, in particolare, si è rivelato particolarmente prezioso, dal momento che dalla G League sono transitati quasi tutti gli elementi dell’attuale panchina, la cui età media si aggira sui 25 anni.

 

Quando la G League era ancora D-League, cioè un anno fa, i Raptors 905 la vincevano grazie anche a VanVleet e Siakam.

La somma di tali attività ha condotto così alla progressiva costruzione della miglior second unit della NBA, attraverso opportune scelte al Draft successivamente sviluppate direttamente sul parquet, sia in NBA che nella lega di sviluppo (è appunto il caso di Wright, Siakam e Poeltl), una pesca fortunata nel sommerso come avvenuto per VanVleet e l’arrivo di C.J. Miles da Indiana. L’evoluzione del sistema di gioco dei Raptors ha offerto un numero più alto di possibilità a molti giocatori e in determinati frangenti delle partite sono stati proprio i role players a prendere in mano le redini dell’attacco, consentendo ai titolari un maggior riposo.

Seconda nella lega in regular season per minuti giocati con 21,2 di media (solo i Sacramento Kings, che però non concorrevano per i Playoff, hanno fatto giocare di più i loro rincalzi), la panchina di Toronto ha concluso le 82 canoniche gare al secondo posto anche per efficienza in attacco, a pari merito di quella dei Golden State Warriors e alle spalle di quella degli Houston Rockets, con 109,9 di Offensive Rating, e per Defensive Rating (101,6), peggio soltanto dei Detroit Pistons e nettamente meglio del dato complessivo di squadra (112,5). Se si guarda il Net Rating, inoltre, le riserve dei Raptors sono prime con 8,3, sopravanzando di gran lunga i colleghi degli Houston Rockets (6,8). Con la squadra di D’Antoni, la second unit dei Raptors condivide un altro secondo posto, quello per effective field goal percentage (54,0%), e si piazza al quarto per true shooting percentage (56,4%). Segnali evidenti che dalla panchina la squadra di coach Casey, oltre a concedere poco agli avversari, ha ottenuto un contributo efficiente per quanto riguarda il tiro e pure in termini di circolazione di palla, registrando un positivo terzo posto in assist to turnover ratio con 1,81 e discrete assist percentage (59,3%, undicesima posizione) e assist ratio (16,5, decima). Molto importante anche il secondo posto assoluto in Player Impact Estimate (PIE) della bench di Toronto con 59,3, distanziata da un’inezia dal 54,6 degli Warriors.

 

VanVleet finta il tiro da tre, attende un blocco, Siakam si avvicina ma lascia il compito a Poeltl. VanVleet gioca il pick-and-roll e punta l’area ma, trovandola intasata, scarica sul lato debole per la tripla di Siakam che si era allargato sul perimetro al momento del blocco di Poeltl.

I piccoli: VanVleet e Wright

Dando uno sguardo alle individualità degli Bench Broskis, nel reparto guardie Fred VanVleet e Delon Wright sono stati il prezioso backup di Lowry e DeRozan, offrendo sostanza, energia, versatilità e, non ultima, vena realizzativa. VanVleet è stato la più felice rivelazione della stagione: nonostante le dimensioni contenute (1,83 di statura), la coriacea point guard da Wichita State, undrafted nel 2016 ed entrata dalla porta di servizio della Summer League, si è dimostrata un sinonimo di efficienza sia in attacco sia in difesa: in una regular season da 8,8 punti di media in 20 minuti di utilizzo e in 76 gare disputate (rispetto agli scampoli di 37 partite nella passata stagione, caratterizzata da continui assegnamenti in G League), VanVleet ha sfoggiato un ottimo 41,9% nelle conclusioni dall’arco, le sue predilette insieme a quelle al ferro, essendo amante del pick-and-roll giocato fino in fondo battendo il difensore, con rifiuto pressoché totale dei tiri dal midrange.

Cresciuti anche i dati relativi agli assist: 23,1% nell’assist percentage (rispetto al 18% del 2016-17) e 26,8 di assist ratio (migliorata rispetto al precedente 20,5). La sua orgogliosa mentalità di underdog intenzionato a dimostrare che gli altri si sbagliavano, lo ha portato fino a un career-high di 25 punti contro i Lakers e a una prestazione da 22 contro i Cavs. A fine stagione sarà free agent, e vista la situazione salariale di Toronto, che pure potrà ricorrere ai Bird Rights, non sarà semplice rifirmarlo.

 

Poi, a volte, i panchinari servono a questo: VanVleet, servito da DeRozan, firma il game winner contro i Pistons.

Cifre simili a quelle di VanVleet in regular season (8,0 punti di media in 20,8 minuti di impiego) e addirittura migliorate nei Playoff (8,6 punti in 21,5 minuti, tirando con il 42,9% da tre, mentre in regular season concludeva con il 36,6% dall’arco) sono quelle della guardia Delon Wright, che oltre ad aver contribuito con 18 punti alla vittoria in Gara 1 con i Wizards e con altrettanti, di cui 11 nel quarto periodo, in Gara 5, si è scoperto utilissimo, grazie alla sua altezza e alle lunghe braccia e alla sua notevole mobilità, per difendere su almeno tre ruoli, dalla point guard all’ala piccola.

Il terzo anno dei Raptors, proveniente dalla University of Utah e scelto al numero 20 nel Draft 2015, è un giocatore particolarmente versatile e intelligente che sembra essere sempre nel posto giusto, che si tratti di una rotazione difensiva o di un extra-pass in attacco. Un duro lavoro di allenamento ha pagato, spazzando via quei dubbi riguardanti soprattutto il suo tiro: ha concluso la regular season con il 46,6% dal campo, grazie anche al maggior numero di possibilità dovuto all’evoluzione del gioco di Toronto.

 

Delon Wright ruba eccellentemente palla a John Wall, sgusciando dal blocco di Marcin Gortat, e finalizza a canestro.

I lunghi: Siakam e Poeltl

A livello di lunghi, Pascal Siakam e Jakob Poeltl con la loro ottima intesa hanno offerto soluzioni alternative e variegate rispetto a Serge Ibaka e Jonas Valanciunas. Il sophomore camerunense Siakam, praticamente migliorato in ogni voce statistica rispetto all’anno da matricola (in cui è stato anche MVP delle finali dell’allora D-League), si è distinto per la sua versatilità difensiva, oltre che per la sua velocità in transizione in entrambe le direzioni e per l’ottima tecnica individuale. Non solo: Siakam è dotato di un’ottima visione di gioco che lo rende un eccellente passatore. Ha infatti concluso la regular season con una media assist di 2,0, niente male per un lungo, nonché fattore di un certo rilievo se si considerano i nuovi dettami del sistema di gioco implementato a Toronto in questa stagione. In febbraio, contro i New York Knicks, ha ottenuto il suo career-high in fatto di assist, 6, e a tutto questo ha aggiunto una media di 0,8 palle perse in regular season, scesa a 0,7 ai Playoff. Balzi enormi in avanti, inoltre, nel PIE: 10,2 in regular season (un anno fa era 6,0) e 8,3 nei Playoff (dal 2,0 del 2016-17).

 

La difesa dei Cavs è quella che è, ma Poeltl e Siakam dimostrano di capirsi. E pure bene.

L’austriaco Poeltl, nona scelta al primo giro del Draft 2016, ha incrementato le sue cifre rispetto all’anno da rookie, passando in regular season da 11,6 a 18,6 minuti giocati e da 3,1 a 6,9 punti, nei Playoff 4,4 a 15,5 minuti di utilizzo e da 1,7 a 5,4 punti realizzati, tirando con una percentuale dal campo del 54,8%. Lungo prettamente interno, Jakob si è ben destreggiato nei compiti a lui richiesti: protezione del ferro, rimbalzo offensivo e finalizzazione del pick-and-roll, quest’ultima un aspetto in cui si è trovato particolarmente a suo agio. Non ha convinto del tutto ai Playoff, con un Net Rating di -9,5, che stride parecchio con il 7,6 in stagione regolare.

 

Poeltl ha anche buone doti di passatore e visione: qui pesca ottimamente Siakam in angolo per la tripla.

C.J. Miles e gli altri

L’unico veterano vero e proprio dei Bench Broskis è C.J. Miles, che sulla carta è un’ala piccola che può giocare anche in guardia e che coach Casey ha utilizzato come importante arma tattica nei quintetti piccoli, grazie al suo tiro da tre e alle capacità difensive su guardie e ali, nonostante una stagione non eccelsa (10,0 punti realizzati in 19,1 minuti, con 37,9% dal campo, ma miglior Net Rating in carriera, 7,2). La sua esperienza si è rivelata positiva per questi Raptors, così come la sua capacità di lanciarsi in transizione e di aprire il campo. Alle conclusioni dall’arco non ha brillato in regular season, con un 36,1%, ma è cresciuto nettamente nei Playoff (42,2%).

Tra i Bench Broskis va annoverato anche Norman Powell, che aveva iniziato la stagione da titolare per dodici partite, prendendo il posto del ceduto DeMarre Carroll, ma un infortunio all’anca lo ha retrocesso in panchina, da cui è salito l’anglo-nigeriano O.G. Anunoby, dimostratosi un difensore sul perimetro migliore dei compagni Lowry e DeRozan e più alto e solido di Powell, che invece ha collezionato pure brutte cifre al tiro da tre. Lucas Nogueira e Lorenzo Brown hanno trovato invece pochissimo spazio quest’anno.

 

Un futuro da scrivere

Nonostante la panchina dei Raptors sia stata la migliore della NBA, l’esito della stagione per la franchigia non si è rivelato tuttavia diverso dagli ultimi anni, con una campagna Playoff ancora una volta caratterizzata da una non indifferente sofferenza dal punto di vista agonistico.

Pochi giorni dopo l’eliminazione, Toronto ha preso una decisione in netta controtendenza con la continuità che ha segnato gli ultimi anni: il licenziamento di coach Casey, che era in sella dal 2011. Ora non è certo se Toronto deciderà ancora una volta di mantenere intatto questo gruppo, che è ancora nel suo prime, per restare competitiva oppure, vista l’attuale difficoltà a muoversi sul mercato (e non ha neppure la scelta al Draft 2018, ceduta ai Nets), opterà per la via della ricostruzione, iniziando magari dalla rinuncia alla sua stella, DeRozan, uscito malissimo con un’espulsione da Gara 4 a Cleveland.

Nel primo caso, è plausibile che gli elementi della panchina, ampiamente valorizzati in questa stagione, possano fungere da pedina di scambio per arrivare a giocatori in grado di innalzare ulteriormente il tasso tecnico della squadra, mentre nella seconda ipotesi sarà intorno a loro che potrebbe ruotare il venturo rebuilding. In ogni caso, qualsiasi direzione verrà presa, niente e nessuno potrà cancellare i risultati raggiunti dalla second unit dei Toronto Raptors nella stagione 2017-18 né la maniera in cui questa panchina è stata costruita. Le imprese dei Bench Broskis restano un modus operandi che costituisce un ottimo paradigma da seguire per tutte le squadre che hanno necessità di incrementare la profondità del proprio roster al fine di essere più competitive nella caccia al titolo NBA.

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Pubblicato da
Francesco Mecucci

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