Come era lecito attendersi, Gara 2 delle NBA Finals 2018 si è svolta su binari tecnico-tattici ed emotivi ben distanti da quelli di Gara 1. I due coach hanno immediatamente effettuato degli aggiustamenti che hanno ricalibrato i terreni di battaglia su cui le due squadre si sono confrontate: il risultato è stato un match ben più combattuto di quanto il punteggio finale dica. Una sfida nella quale, però, Golden State ha dato ancora una volta l’impressione di avere troppe armi, troppa esperienza e troppo talento per lasciarsi sopraffare dagli accorgimenti degli avversari.
L’impatto di JaVale
Uno degli aggiustamenti più interessanti alla palla a due è stato l’inserimento di JaVale McGee nel quintetto base da parte di coach Kerr. Se nella prima gara di queste Finals la sua staffetta con Looney è stata di importanza capitale, nel secondo capitolo della sfida è stato il numero 1 a prendersi immediatamente il proscenio. L’idea di Steve Kerr risulta di immediata interpretazione: l’intenzione era quella di sfruttare l’atletismo verticale e orizzontale di McGee nelle due metà campo per inceppare i meccanismi di coach Lue. La scelta ha pagato immediatamente dei dividendi altissimi. Sin dal primo possesso, infatti, gli Warriors hanno giocato un semplicissimo slip-the-pick che ha immediatamente evidenziato il ruolo dell’ex giocatore degli Wizards: mettere in imbarazzo le scelte difensive di Love e dei Cavs in generale. In uno spazio dilatato dai tiratori come quello dell’attacco di Golden State, McGee è in grado di punire aspramente qualsiasi scelta effettuata contro di lui. Che Cleveland optasse per un aiuto-e-recupero o per un cambio, il prodotto di Nevada si è mostrato decisamente troppo rapido ed esplosivo come rollante per non far danni evidenti alla difesa dei Cavaliers.
Sulla debolezza delle collaborazioni difensive dei Cavs, infatti, gli Warriors hanno costruito un primo quarto quasi da record, nel quale hanno trovato tantissime conclusioni ad altissima percentuale e hanno attaccato ripetutamente Love, reo di non effettuare sempre scelte inappuntabili. Anche quando non era McGee in prima persona a capitalizzare, gli Warriors sono agevolmente riusciti a costruire dei vantaggi semplicemente abbozzando un pick-and-roll con il proprio numero 1.
Ancora una volta, il pick-and-roll non si concretizza, ma a coach Kerr basta paventare un blocco per portare Love al cambio e produrre scompensi nella difesa di coach Lue.
Non è finita qui: la presenza di McGee ha anche scoraggiato Cleveland nell’uso del post, elemento fondamentale per controllare il ritmo nel primo episodio di queste Finals. Le doti di intimidatore di McGee hanno, dunque, prodotto un duplice effetto: modificare le traiettorie dei tiri degli attaccanti dei Cavs e, soprattutto, causare l’innalzamento del ritmo della sfida. Non a caso, anche a partire dalla sua difesa, spesso Golden State ha potuto correre e trovare tiri ad alta percentuale.
Cercare alternative
Incoraggiato dai buoni risultati ottenuti con il coinvolgimento di Love sin da inizio Gara 1, Lue ha cercato di rendere più produttivi altri membri del suo quintetto, tentando di permettere a LeBron di arrivare meno provato e ancor più lucido ai finali di partita. A inizio Gara 2, quindi, i Cavs hanno cavalcato leggermente meno la versione point forward di James, cercando di responsabilizzare George Hill e JR Smith. Il concetto utilizzato da coach Lue è stato molto semplice: generare dei pick-and-roll che prevedessero LeBron sia da bloccante che da palleggiatore per moltiplicare le sue opzioni offensive e, automaticamente, liberare spazio per Hill e Smith. Il primo quarto dei due è stato incoraggiante: entrambi hanno segnato 5 punti e dato un’impressione di aggressività che ha aiutato Cleveland a chiudere il quarto con soli quattro punti di scarto da Golden State. A seguito del primo quarto, però, Smith è sceso decisamente di colpi, mentre Hill ha cominciato a sentirsi in fiducia anche al di fuori delle situazioni di gioco a due con LeBron. A trarre giovamento di questo piano gara sin da subito è stato anche Tristan Thompson che poteva lavorare nelle pieghe dell’attacco, recuperando rimbalzi offensivi e trovando con discreta continuità soluzioni nei pressi del canestro.
In questo contesto, LeBron ha potuto iniziare la gara in maniera più morbida ma ugualmente efficace: 10 punti, 4 rimbalzi e soprattutto 5 assist nel primo quarto parlano chiaramente di un giocatore in controllo e con discreta fiducia nei suoi compagni. Cleveland ha, così, chiuso il primo quarto sotto di sole quattro lunghezze, malgrado le eccellenti percentuali di Golden State.
Anatomia di un tentativo di fuga
Dopo un primo quarto sostanzialmente equilibrato, Golden State ha avuto la chance di provare a fuggire già sul finire di primo tempo. Gli elementi che hanno permesso alla squadra di Kerr di scavare il primo solco sono stati sostanzialmente tre: l’uso della transizione di Curry, la gestione della gara di Kevin Durant e l’insperata alchimia trovata, nella seconda metà del secondo quarto, da un paio di quintetti raramente visti prima di questo secondo capitolo delle Finals 2018. Partiamo dal numero 30: come già dimostrato in Gara 1, quando Curry può correre, lo scenario per Golden State viene completamente stravolto. Nello scacchiere decisamente più dinamico tratteggiato dagli aggiustamenti dei due coach il due volte MVP si è esaltato, risultando incontenibile per i Cavs che hanno fatto fatica ad accoppiarsi sia a metà campo che, soprattutto, in transizione. Anche Curry ha immediatamente preso parte al festival di mismatch generati contro Love e di tiri ad alta percentuale segnati, per poi dedicarsi al controllo del ritmo della gara.
I Cavs hanno faticato a fronteggiare il 30 in maniera efficace prima che quest”ultimo raggiungesse l’arco, venendo ripetutamente puniti: 16 punti e 6 assist nel primo tempo sono sufficienti a tratteggiare un controllo totale sul primo tempo.
Passiamo ora all’ex giocatore di OKC: dopo gli enormi problemi al tiro nel primo match delle Finals, Durant ha deciso di approcciare alla sfida in maniera molto intelligente, limitando le forzature ed esplorando ogni aspetto del suo sconfinato talento. Il numero 35 ha giocato pienamente nello spartito della sua squadra, effettuando una serie di letture di qualità, punendo ogni mismatch che gli veniva proposto e servendo i suoi compagni liberi nel flusso della Gara: la calma serafica di Durant in un ruolo simile ha un che di sinistro per qualsiasi squadra della lega. Se domina senza forzare, coinvolgendo i compagni e segnando con oltre il 70% dal campo, chiunque dovrebbe aver paura.
Se i rendimenti di Curry e Durant possono apparire scontati, meno banale ci risulta l’impatto delle lineup con cui Golden State ha chiuso il quarto. Il quintetto composto da Curry, Livingston, Durant, Green e West, infatti, ha prodotto per la prima volta nella serie qualcosa di veramente simile ai tipici terzi quarti di Golden State: un parziale di 7-0 in un minuto che ha portato Golden State dal +4 al +11.
Il pitturato è ben occupato difensivamente e il campo è decisamente aperto.
Quando, poi, al posto di West e Livingston sono entrati Young e McGee (che ha rilevato Thompson dopo una breve parentesi), le cose non sono cambiate: il vortice ormai creato da Golden State è stato tale che gli Warriors hanno anche toccato il +15. Un quintetto che corre così il campo e ha quel coefficiente di pericolosità perimetrale può decisamente concedersi alcuni sprazzi di disfunzionalità di Young e McGee, a maggior ragione contro una squadra con enormi problemi di comunicazione difensiva come i Cavs. In questo contesto Golden State ha chiuso il primo tempo avanti di 13, dando la netta impressione che nel terzo quarto potessero spazzare via i Cleveland come sono soliti fare.
Il terzo quarto di Love
Differentemente dalle aspettative, invece, i Cavs hanno giocato un terzo quarto coriaceo, sospinti soprattutto dalla ritrovata verve offensiva di Kevin Love. Il numero 0 si è mostrato ancora una volta un elemento imprescindibile del piano partita di Lue: nel momento esatto in cui l’ex giocatore dei Timberwolves ha cominciato a segnare da oltre l’arco, Cleveland è tornata in linea di galleggiamento. Love ha lucrato sulle situazioni generate dagli altri esterni, godendo di maggiore spazio anche grazie alla buona giornata al tiro di George Hill. Nel corso del terzo quarto, infatti, i Cavs sono riusciti finalmente a convertire con buona costanza i quality shots che si costruivano grazie a un’ottima pazienza nella ricerca dell’extra-pass. Appena il tiro da tre ha iniziato ad entrare, per lui si sono aperte nuovamente anche le porte del pitturato: con tagli dal lato debole e attaccando i close-out, Love ha completato un quarto di grande spessore offensivo, nel quale da solo ha totalizzato un terzo (3) delle triple segnate da Cleveland a fine gara (9/27 da oltre l’arco per i Cavs, statistica senza dubbio influente).
Nella metà campo difensiva, però, Love ha ancora una volta rappresentato l’anello debole di una catena già non troppo solida. Come Penelope, dunque, il prodotto di UCLA ha rischiato di disfare ogni progresso faticosamente accumulato nella metà campo offensiva: LeBron James ha lottato affinché questo non avvenisse, realizzando anche al sua unica, importante, tripla della gara. Alcune giocate decisive di Thompson (una tripla in transizione e un arresto di potenza a centro area di capitale importanza) e di Durant (l’assist per la tripla di West) hanno, però, frustrato le velleità dell’unico quarto balisticamente efficiente dei Cavs. Dopo le prove tecniche di rimonta in molti si sarebbero aspettati un quarto quarto combattuto. Per la seconda volta nella gara, però, le nostre aspettative sono state disattese dalla realtà.
Alle radici del record di Steph
Come abbiamo potuto osservare, la partita si è sgretolata non appena Steph Curry ha deciso di compiere un ulteriore passo nella storia, infilando il record di triple per una singola finale. La valaganga che ha travolto Cleveland ha la sua origine nelle due triple consecutive di Steph che hanno riportato i Cavs sotto di 13 punti. Osservandole si nota come entrambe si poggino saldamente su ciò che Curry ha costruito nel corso della sua carriera e, più in piccolo, su ciò che ha creato nel primo tempo della gara: la bravura nel creare scompensi negli avversari e la testardaggine nel perseguire la sua pallacanestro. Giova, a questo punto, ricordare che, dopo l’ottimo primo tempo, Curry ha discretamente litigato con la partita nel terzo quarto, cercando continuamente conclusioni forzate da oltre l’arco. Quei due possessi che hanno quasi definitivamente indirizzato la sfida hanno una doppia matrice: tanto tecnica quanto psicologica. Il primo canestro in step-back è il risultato di un pick-and-roll che viene interpretato da Curry esattamente come è stato fatto nel corso di tutta la gara dagli Warriors: forzando un cambio e isolando il lato del mismatch che può portare maggiori dividendi. Nance, forse memore del primo tempo in cui Love ha concesso un’autostrada per il ferro e sicuramente forte delle numerose triple forzate malamente da Curry, ha deciso di cercare di tenere l’1 vs 1, scommettendo sul suo equilibrio difensivo e sui suoi mezzi atletici. Inutile dire che il risultato è stato l’esatto opposto di quanto visto fino a quel momento nella gara. Il secondo canestro, in maniera antitetica, viene generato dalla voglia di impedire che Steph prenda ritmo: dopo aver concesso il primo canestro, Nance non vorrebbe far entrare in striscia Curry, allora lo spinge dentro. Lo scarico, in maniera quasi automatica, causa un rilassamento nel difensore. Il numero 30, a questo punto, è diabolico nel punirlo e fargli fare una seconda brutta figura. Questo ennesimo record di Curry è, ancora una volta, la summa di tutto ciò che ha reso grande Golden State e il suo numero 30 in questi quattro anni: preparazione tattica, talento individuale, sfacciataggine e una buona parte di puro timore creato negli avversari.