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NBA Finals 2018: analisi e pagelle di Gara 3

Gara 3 delle NBA Finals 2018 potrebbe aver definitivamente indirizzato la serie verso il repeat dei Golden State Warriors, malgrado un approccio iper aggressivo da parte dei Cleveland Cavaliers e delle percentuali perimetrali tutt’altro che eccellenti da parte di Golden State.
Elementi fondamentali del terzo successo dei californiani sono stati il ritorno di Andre Iguodala, la perseveranza di Steve Kerr sulle sue scelte e, senza alcun dubbio, la gara da leggenda di Kevin Durant.
Cleveland, da parte sua, ci ha provato, proseguendo sulla scia di piccoli aggiustamenti che cercano di condizionare la gara fin da subito, magari coinvolgendo sempre più il supporting cast.

L’aggressività dei Cavs

L’aspetto impressionante dell’inizio del terzo capitolo delle NBA Finals 2018 è la sincronia quasi perfetta tra il calore climatico della Quicken Loans Arena e l’aggressività senza pari esercitata da Cleveland nella prima metà del primo quarto. I concetti cardine dell’avvio non sono cambiati così tanto rispetto alle due gare precedenti: l’idea era quella di coinvolgere immediatamente tutti coloro i quali non fossero LeBron James, con Kevin Love in testa. E, infatti, sin dal primo possesso, abbiamo assistito a una riproposizione del pick-and-roll tra Hill e James, con il 23 nelle vesti di bloccante, propedeutico a generare un tiro da tre di Love in versione terzo uomo sul gioco a due. Il messaggio è stato immediatamente chiaro: la volontà era quella di creare scompensi usando la presenza di LeBron sia on che off-the ball per creare spazio per i suoi compagni.

La difesa di Golden State è stata da subito così impegnata a riparare agli scompensi creati dai cambi di LeBron che non ha avuto alcuna difesa contro un gesto barbaro di questo tipo di LeBron accoppiato con JaVale.

Un altro elemento di grande interesse dell’inizio della partita è rintracciabile nella pressione totale esercitata da Cleveland in vari punti nevralgici del gioco di Golden State. Cleveland è stata asfissiante a rimbalzo offensivo, nelle primissime fasi della costruzione dell’attacco degli Warriors e nella capacità di restare attaccata ai tiratori di Golden State, favorendo un inizio traumatico dei californiani nel tiro perimetrale. I risultati più evidenti sono stati chiaramente una serie di extra-possessi vincenti per i Cavs e un numero di palle perse non indifferente per gli Warriors nel corso di tutto il primo tempo. In un contesto così ipercinetico, a rubare l’occhio più di chiunque altro nel supporting cast è stato JR Smith, autore di sette punti in un amen e perfettamente a suo agio nelle situazioni di caos organizzato, prima di spegnersi con il prosieguo della gara. A prendere il suo posto, poi, per continuità offensiva, ci ha pensato Rodney Hood, finalmente scongelato nelle rotazioni e capace di punire in transizione e nelle pieghe dell’attacco dei Cavs, sfruttando i vantaggi creati dai suoi compagni.

A variare rispetto alle altre gare, però, è stato anche l’uso del post-basso: anche in questa gara Cleveland ha immediatamente cercato di gestire il ritmo appoggiando la palla in situazioni di post ma, differentemente dalle altre gare della serie, l’uso delle situazioni di post-up era propedeutico alle costruzioni di buoni tiri perimetrali. Coach Tyronn Lue ha mandato anche i propri esterni in post, ben conscio delle capacità di Kevin Love di agire sul perimetro punendo qualsiasi accoppiamento. Un uso ragionato e meno frenetico del post à-la-Warriors, dunque, che ha seriamente messo in difficoltà i ragazzi di Steve Kerr, forzati prima al mismatch in post da LeBron e poi costretti a recuperare contro le uscite nei giusti tempi della palla. Sia nel primo che nel secondo quarto, quando Cleveland ha provato a scappare, gran parte dei problemi per Golden State nascevano proprio da quest’uso dalla qualità delle esecuzioni a partire dal post basso. Non è un caso che, malgrado un uso costante del post-up, il primo tiro libero sia arrivato solo a inizio terzo quarto per i Cavs: la loro pallacanestro si è propagata dall’interno all’esterno e non viceversa.

Mismatch Killer

Come in Gara 2, nelle situazioni di difficoltà come quelle di inizio primo quarto e fine secondo quarto, coach Kerr si affida alla sua arma definitiva: Kevin Durant, killer di ogni tipo di mismatch che possa essere anche solo immaginato. Come recita un vecchio mantra della pallacanestro, per uscire da un momento di difficoltà bisogna cercare tiri ad alta percentuale. Proprio con i tiri dall’alto tasso di efficienza Durant si è messo in partita, ricevendo inizialmente in situazioni di post basso dopo un cross-screen (un blocco sulla linea di fondo usato per generare un cambio da parte della difesa) e pasteggiando a centro area contro gli inermi difensori di Cleveland, che pure avrebbero provato a contrastarlo. Quando, poi, Iguodala ha trovato Klay Thompson con un intelligentissimo dietro-schiena che ha sbloccato Golden State dall’arco, Durant ha deciso di mettersi a lavoro anche attaccando fronte-a-canestro.

Con un KD così padrone dei suoi mezzi tecnici, l’unica cosa che coach Lue poteva provare a fare era cercare di stargli più vicino negandogli la conclusione immediata e, magari, mandando un raddoppio quando non disponeva la visione completa del campo da gioco. Durant, da parte sua, ha risposto toccando quasi tutti i suoi palloni fronte a canestro dalla punta, non esponendosi mai al rischio di perdere la palla per colpa di un raddoppio mandato su di lui nei giusti tempi. Il risultato è che, in single coverage, KD ha disposto di qualsiasi avversario gli venisse mandato contro per tutto il primo tempo. A fine primo tempo per lui ci sono 24 punti con il 70% dal campo su dieci conclusioni. Ha praticamente tenuto a contatto da soli gli Warriors.

Anche nel primo quarto ne ha segnata una praticamente identica

Dopo un primo tempo di questo genere, ovviamente gli spazi per i suoi compagni sono aumentati e KD ha immediatamente capito come servirli, restando sempre nello spartito dell’attacco Warriors.

A fine serata ci saranno anche ben 7 assist a referto per KD. Nessun tipo di contromossa cercata da Lue è stata minimamente efficace.

Scary Curry e la coerenza di Steve Kerr

Non è stata una serata semplice per Steph Curry. Ha infilato solo 3 delle sue 16 conclusioni, limitandosi a una sola tripla, anche se scoccata nel decisivo quarto quarto. Eppure, il numero 30 è stato comunque il giocatore più condizionante della gara per i Cavs. La difesa di Cleveland era completamente incentrata sul tentativo di strappargli la palla di mano, negandogli tiri in ritmo dal perimetro. La scelta era quella di mandar dentro i suoi compagni, costringendoli a effettuare delle decisioni pesanti. L’idea, dunque, era quella di usare sempre il difensore del rollante in raddoppio su Curry, favorendo il taglio di Green sul quale veniva mandato un aiuto con tempi leggermente anticipati per costringerlo a scegliere in una finestra temporale ancora più ristretta. Inutile dire che, con Curry e Thompson in una serata durissima al tiro, grossa parte delle chance di vittoria dei californiani sarebbe passata dalla qualità delle decisioni di Green. Il numero 23, ovviamente, non ha deluso, punendo ripetutamente la difesa di Cleveland.

Il numero 30 di Golden State si è, poi, potuto concedere quel tipo di percentuali anche grazie a quella che è, con ogni probabilità, la sua miglior partita difensiva di questa serie: anche quando coinvolto contro LeBron ha sempre difeso al meglio delle sue possibilità, usando i suoi esigui mezzi fisici per contrastare ogni tipo di mismatch e riuscendo anche, in alcune occasioni e con alcuni trucchi del mestiere, a risultare vincente. Un altro elemento impagabile del gioco di Curry è rintracciabile ovviamente, nella capacità di dare sferzate di adrenalina all’attacco di Steve Kerr semplicemente mettendo le mani sulla palla nella propria metà campo nei giusti tempi. In questo modo ha alimentato la transizione e quanto ne è conseguito è stato puro Golden-State-Basketball. E quando gli Warriors giocano il loro basket, soprattuto nel terzo quarto, arrivano i parziali: non a caso i Dubs hanno aperto il secondo tempo con un parziale di 17-6.

In questo contesto, si è rivelata fondamentale la scelta di Steve Kerr di riproporre in campo JaVale McGee a inizio terzo quarto, non lasciandosi ingolosire dalla possibilità di sfoderare immediatamente gli Hampton Five. Con la difesa così presa dal tentativo di negare le conclusioni perimetrali a Curry e mandare degli aiuti sul rollante, è risultata fondamentale la sua capacità di farsi trovare a centro area, sulla linea di fondo e come rollante, oltre che la sua abnegazione difensiva quando coinvolto dai cambi su LeBron. La sua staffetta con Jordan Bell, non così diversa da quella effettuata con Kevon Looney nelle prime due gare, ha lasciato un importante segno sulla gara, regalando un paio di valvole di sfogo insperate quando la pressione perimetrale dei Cavs si è fatta importante.

E anche quando saltava ogni tipo di comunicazione difensiva.

L’eterno ritorno di Kevin Durant

La teoria dell’eterno ritorno dell’uguale di Friedrich Nietzsche ha un corrispettivo cestistico: le due performance career-defining di Durant nella Gare 3 delle finali 2017 e 2018. Per ritornare a far male a Cleveland con la stessa arma con la quale aveva deciso Gara 3 del 2017 , però, il numero 35 ha dovuto mostrare tutto il proprio multiforme arsenale, costringendo Cleveland a fronteggiare un KD diverso di gara in gara: dall’attaccante freddo ma con diverse difficoltà al tiro di Gara 1, al killer essenziale di Gara 2, fino all’evoluzione definitiva di Gara 3. Esplorare ogni anfratto del proprio talento per tre gare lo ha messo in condizione di arrivare nel momento topico di Gara 3 a dover scoccare quel tiro, che ci riporta con la mente a un anno fa, pur provenendo da percorsi tecnici diversi.

In un anno sono cambiate le statistiche inerenti alla sua incidenza sulla squadra: più isolamenti, meno canestri assistiti, meno triple in transizione all’interno del flusso. Il senso del dramma sportivo, però, è rimasto lo stesso, invariato e, se possibile, ancora più ammantato da un senso di crudeltà. E di crudeltà sportiva bisogna comunque parlare, perché, ancora una volta, nella carriera di James è tornato vivo il tema della solitudine nei momenti decisivi. Nel quarto quarto quasi tutti i Cavs hanno abbandonato la barca. LBJ è apparso ancora una volta immerso in un supporting cast non in grado di stargli accanto fino alla fine. Eterni ritorni ben diversi, che hanno uguale incidenza su queste Finals 2018.

Avevamo parlato di Curry come probabile MVP di queste Finals. Forse ritrattiamo.

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Pubblicato da
Jacopo Gramegna

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