Dove eravamo rimasti
Target Center, Minneapolis, 11 aprile 2018.
Bisogna riprenderla da qui la narrazione sui Denver Nuggets, sconfitti dopo un supplementare nel “dentro o fuori” valido per l’ottavo posto sotto i colpi di quelli che, pochi mesi dopo, sarebbero diventati i volti rispettivamente del passato (breve e mal gestito) e del futuro dei Minnesota Timberwolves: Jimmy Butler (31 punti) e Karl-Anthony Towns (doppia doppia da 26 punti e 14 rimbalzi). Da quel momento, poi, l’estate della franchigia del Colorado è stata caratterizzata da una serie di operazioni non particolarmente mirate a supplire alle lacune tecniche e tattiche del roster (anzi), ma giustificate o dalla necessità di snellire un monte ingaggi ingolfato dalla presenza di contratti esorbitanti ed evitare di pagare una luxury tax divenuta un’amara realtà dopo il rinnovo di Jokic (148 milioni per 5 anni) e quello successivo di Barton (54 milioni per 4 anni con player option per l’ultima stagione), o dal fatto di connotarsi per una prospettiva molto “low risk, high reward”: molto bene se va bene, poco male se va male.
In vista del primo obiettivo Denver è prima stata costretta a privarsi di Wilson Chandler, veterano dello spogliatoio nonché uno dei pochi baluardi difensivi a roster in assenza di Millsap, per far assorbire ai Philadelphia 76ers il suo ultimo anno di contratto da 12,8 milioni (dovutogli dopo che questo aveva esercitato la player option), risparmiandone però più di 50 tra ingaggio e luxury tax. Dopodiché, appena una settimana dopo, Kenneth Faried e i suoi 13 milioni abbondanti di contratto sono stati spediti a Brooklyn insieme a Darrell Arthur (7,4 milioni), una prima scelta al Draft 2019 (protetta 1-12) e una seconda del 2020 per una fugace apparizione in Colorado di Isaiah Whitehead (immediatamente tagliato e ora al fresco dell’autunno russo del Kuban). Risultato: ventuno milioni di monte ingaggi liberati, 43 risparmiati considerate anche le imposte e luxury tax scongiurata per la prossima stagione. Difficilmente si poteva fare meglio, sicuramente si poteva fare peggio.
Per quanto concerne le operazioni del secondo tipo, invece, Denver si è forse mossa in maniera ancora più intelligente e lungimirante. Prima, la notte del Draft, avendo il coraggio di assumersi quel “meraviglioso rischio” rispondente al nome di Michael Porter Jr., arrivato con la pick #14 (nemmeno nei suoi sogni più felici Tim Connelly pensava avrebbe avuto la possibilità di sceglierlo): un rischio grande (ricordiamo che il soggetto in questione ha praticamente saltato tutta la sua unica stagione al college per un infortunio non indifferente) calcolato, ponderato e dai dividendi potenzialmente giganteschi, assunto con l’audacia di chi sa di poterselo permettere (ed effettivamente Denver non ha alcuna necessità di accelerare il recupero di MPJ quest’anno) ma ugualmente non scontato, specie considerando l’agire di franchigie che, potendo scegliere prima dei Nuggets e con maggiore necessità di un nuovo uomo franchigia da cui ripartire, hanno preferito “andare sul sicuro” scegliendo giocatori immediatamente utilizzabili ma che – anche nel migliore degli scenari – difficilmente ne determineranno le sorti nel breve/medio periodo.
In seguito, concedendo una chance di rinascita – a basse cifre – ad Isaiah Thomas, elemento simbolicamente perfetto per rappresentare quella che, mai come quest’anno, sembra essere la strada che i Denver Nuggets intendono battere: quella sulla quale, dopo ogni passo, ci si ricorderà vicendevolmente che prendere 110 punti a partita non conta niente, se alla fine ne segni 111.
Punti forti
E allora sì, bisogna partire proprio da qui, dall’attacco. Il sesto Offensive Rating della lega (111,3 punti per 100 possessi) e 110 punti segnati a partita raccontano infatti di una squadra che non può che fare della fase offensiva il suo punto di forza principale. I Nuggets vogliono segnare, segnano e poco gli importa del resto. Dopo aver tirato il modo migliore per mettere punti a tabellone è ipotizzare che la palla possa non entrare, quindi lanciarsi verso il ferro per provare a prendere il rimbalzo offensivo e garantirsi una seconda possibilità: è così che Denver si posiziona al secondo posto per rimbalzi offensivi catturati (11 per game) e al terzo per second chance points (14 a partita). Poi c’è un rovescio della medaglia, ed è facilmente intuibile: se a quel punto il rimbalzo non lo prendi, non sei minimamente predisposto alla transizione difensiva e capita che tu possa arrivare ad essere tra le prime 8 squadre per fast break points subiti (13): that’s the Nuggets’ way!
Chi sia il centro di gravità permanente sembra poi anche superfluo ricordarlo. Sembra superfluo perché basta guardare una sola partita dei Nuggets per rendersi conto di quanto l’attacco – in tutte le sue sfaccettature – nasca e si sviluppi nelle educatissime mani di Nikola Jokić. Se non altro per il semplice motivo che il lungo serbo, nella metà campo offensiva, non c’è letteralmente nulla che non sappia fare in maniera straordinaria: può segnare in post up, può spaziare il campo (40% da fuori l’anno scorso), può garantirti quasi 3 rimbalzi offensivi a partita (visto che può tagliare fuori qualsiasi cosa) convertiti in 3,1 second point, può mettere il pallone per terra e punire il difensore in ritardo sul closeout, può inventarsi linee di passaggio inesistenti (6,1 assist a partita, con il 28,6% di assist percentage) in punta o da posizioni di post medio/alto – dove è anche eccezionale negli hand-off -, può guidare la transizione direttamente da rimbalzo difensivo (e immaginate se buttasse giù qualche chilo…). Qualsiasi cosa. Il prototipo perfetto di playmaking 5 se ce n’è uno, il giocatore intorno al quale qualsiasi squadra vorrebbe costruire il suo attacco.
Così, en passant: il difensore sarebbe tale LeBron James, non proprio uno che sposti facilmente
Murray legge bene il mismatch tra Jokic e Bogdanovic, e serve il bosniaco in posizione di post medio. A quel punto si attiva la rotazione difensiva di Indiana, con Young che porta il raddoppio (peraltro anche coi tempi giusti) e Turner che scala sull’uomo sotto canestro. Il problema non sussiste: passaggio quasi alla cieca sul lato debole e tripla dal mezzo angolo non contestata
Qua i commenti nemmeno servono
Non di solo Jokić si vive a Denver, tuttavia. Di fianco al lungo bosniaco, infatti, coach Malone è riuscito in maniera ottimale a creare un ecosistema composto da atleti che – in modi diversi – potessero trarre il massimo dal suo game style. Il primo fra questi è Gary Harris: giocatore straordinario off the ball e tra i migliori della lega a muoversi sulla linea di fondo tagliando verso canestro, il prodotto di Michigan State è forse quello che meglio di tutti riesce a far fruttare le sublimi doti da passatore di Jokic, tirando con un 40% da tre su 6 tentativi, che diventa 41% su 4,5 tentativi (il 34% delle sue conclusioni) se si considerano solo le conclusioni in catch and shoot, e raccogliendo con tempismo spesso perfetto gli assist che lo vedono come ricevitore dopo un taglio backdoor.
Non se la intendono affatto male i due, no
Ai due sopra vanno poi sommati il ritrovato (si spera per tutta l’anno) Paul Millsap, un Will Barton che, dopo l’ottima scorsa stagione, dovrebbe definitivamente splittare in starting five dopo l’addio di Wilson Chandler, una panchina molto interessante composta da gente come Lyles, Malik Beasley, Juancho Hernangomez, Mason Plumlee e dal nuovo arrivato Isaiah Thomas, ma soprattutto Jamal Murray, indicato pochi giorni fa dei GM della lega come il giocatore “most likely to have a breakout season in 2018-19″. Non senza motivo, in effetti, visto l’enorme passo avanti compiuto dalla PG di Denver la scorsa stagione, con la sua produzione offensiva passata da 9,9 punti a 16,7 e le sue percentuali dal campo salite dal 40 al 45%. Anche lui si integra in maniera perfetta con Jokic, al quale spesso e volentieri delega i compiti di playmaking per scorrazzare dietro i blocchi e tirare in uscita o attaccare il canestro senza palla per ricevere poi, a destinazione raggiunta, uno di quei cioccolatini che il serbo sistematicamente ti regala. Tuttavia, questo non deve portare a mettere da parte la sua abilità nel giocare con la sfera tra le mani, visto l’ottimo ball handling a disposizione, la pulizia di movimento, la capacità di attaccare il ferro in penetrazione e di costruirsi il tiro dal palleggio.
Anche qui ogni commento sembra superfluo
Lo sconfinato bagaglio tecnico di Murray in fase offensiva
Punti deboli
Appare abbastanza intuitivo, alla luce di quanto detto sopra, comprendere quale sia il punto debole di questi Nuggets. Già, proprio la fase difensiva. Denver ha chiuso infatti la scorsa stagione con il 23esimo Defensive Rating (109,9 punti subiti su 100 possessi) e a al 22esimo posto per punti subiti a partita (108,5); per di più ha concesso agli avversari la più alta percentuale al tiro dal campo (47,6%: che, per capirci, significa che praticamente un tiro ogni due contro i Nuggets finisce dentro) e la più alta percentuale da fuori (37,8%).
Gli stessi giocatori che ne fanno le fortune su una metà del parquet tendono ad assicurargli sistematici disastri quando si tratta di difendere. Se infatti dentro l’area gli è più facile “limitare i danni” grazie ai 2,13 m concessigli da Madre Natura, quando si tratta di uscire sul perimetro Jokic è una sentenza in negativo: sfidato in 1vs1 dopo un cambio sul blocco non è in grado di tenere il primo passo di nessuna delle guardie della Lega e nemmeno di parecchi esterni (il che è giusto un problemino, nella pallacanestro attuale), e in molte circostanze, sul pick and roll avversario, è quindi costretto a rimanere bloccato in area, concedendo comodi tiri dal midrange non contestati. E poi anche goffamente lento a seguire il diretto marcatore che esce a portare lo screen (e arrivando sempre in ritardo complica sempre i piani difensivi sul pick and roll, appunto) e, soprattutto, sembra mancare della più totale volontà di applicazione.
Ecco giusto per farsi un’idea
Stesso identico discorso vale anche per Jamal Murray, come attestano, su base statistica, il suo Defensive Rating salito da 107,2 a 109,2 nel corso dell’ultima stagione e, su base tecnica/visiva, i costanti cali di concentrazione che lo portano spesso e volentieri a farsi attirare dal pallone e a perdere di vista il diretto avversario, o la tendenza a passare sempre “under the screen” lasciando quei pochi centimetri di spazio che spesso sono sufficienti all’avversario per prendere un buon tiro.
Aldilà dei singoli, però, tra i quali si salvano solo i poveri Harris e Millsap, spesso costretti agli straordinari per supplire alle lacune dei compagni, è l’intero sistema difensivo di Denver che sembra fare acqua: spesso e volentieri il lato debole viene ignorato per un’eccessiva attrazione dei giocatori verso il pallone o per semplici disattenzioni, e questo porta Denver – tra le altre cose – ad essere tra le prime dieci squadre della Lega a lasciare tiri aperti dagli angoli, quelli a più alta percentuale di realizzazione (3,3 a partita dal right corner e 4,1 dal left corner, secondi nella lega).
La cosa incredibile è che qui Mason Plumlee la finta di Dieng di andare verso destra per poi andare sul lato debole manco la vede. Semplicemente, ad un certo punto, si addormenta sotto canestro, Dieng si allarga, riceve e spara comodo comodo
Decidetelo voi cosa stesse facendo Barton in mezzo all’area
Scenario migliore
Jokić fa una stagione intera su livelli da MVP, limitando drasticamente i danni anche nella metà campo difensiva (dove comunque, per dovere di informazione, dei passi avanti si sono già visti realmente). Isaiah Thomas torna sui livelli di Boston e si afferma come uno dei migliori della lega in uscita dalla panchina, Millsap è pienamente recuperato, mentre Murray e Harris si consacrano definitivamente come uno dei migliori backcourt della Western Conference, con il primo che arriva ad un passo dal vincere il Most Improved Player of the Year. L’attacco funziona a meraviglia e la difesa riesce quantomeno a non essere un colabrodo come l’anno scorso. Al termine della regular season il fattore campo sfugge per un soffio a favore degli Utah Jazz, che vengono però sconfitti in una pazza Gara 7 a Salt Lake City.
Scenario peggiore
La partenza di Wilson Chandler pesa sugli equilibri difensivi della squadra molto più del previsto, e ogni cosa che viene fatta di buono su una metà campo viene sistematicamente annullata quando si torna in quella meno nobile. Il recupero di Michael Porter Jr. non procede bene, Isaiah Thomas agita malumori all’interno dello spogliatoio non riuscendo a trovare lo spazio che pensa di meritare a discapito di un Jamal Murray che, da parte sua, non riesce a compiere il salto di qualità definitivo in difesa che possa consacrarlo come una delle migliori PG della Western. La panchina inizia traballare, e la competitività di una Conference con un LeBron James in più fa nuovamente scivolare i Nuggets nella lotta serrata per un ottavo posto che alla fine arriva più per defezioni (Dejounte Murray out for the season, e Spurs che comunque chiudono noni ad un passo dalla off-season; Butler spedito a Miami) e scelte altrui (Memphis a dicembre decide di iniziare a tankare per non perdere la scelta) che non per meriti propri. Al termine di un primo turno perso 4-0 contro Houston, coach Malone viene gentilmente messo alla posta.
Pronostico
A Denver c’è una quantità di talento ancora inesplorato che fa spavento. Jokić è già adesso qualcosa che non si è mai visto su un parquet, il miglior lungo passatore del nuovo millennio di NBA e forse non solo, eppure l’impressione costante è che con un po’ di applicazione e volontà si potrebbe parlare di un giocatore con le carte in regola per giocarsela con i più forti. Anche il ceiling di Jamal Murray è parecchio alto, e il rientro di Millsap (si spera per tutta la stagione) riporterà equilibrio e difesa ad una squadra che, comunque, già l’anno scorso è andata ad un supplementare dall’ingresso in post-season. Con l’infortunio di Murray che ridimensiona gli scenari degli Spurs, Jimmy Butler destinato ad approdare sulla costa dell’Atlantico, e l’incertezza che regna intorno a squadre come Grizzlies e Clippers (e volendo anche Portland, che potrebbe far saltare il tappo nel corso dell’anno) i Playoff quest’anno sono un must, in mancanza del quale non potrebbe non parlarsi di fallimento. Una battaglia per il sesto posto con i Pelicans di un Davis formato MVP appare oggi lo scenario più probabile, con l’ostacolo primo turno che sarà però insormontabile, indipendentemente dal piazzamento finale.