Primo Piano

MIP Check, episodio #1: What does the Fox say?

Primo episodio di MIP Check, ma cos’è MIP Check? Come il titolo suggerisce, sarà un approfondimento a cadenza mensile che si propone di analizzare da vicino il cammino dei principali candidati al premio di Most Improved Player of the Year, il giocatore più migliorato della stagione, dalle primissime early takes di questo pezzo, dopo un mese di regular season, fino all’inizio dei Playoff ad Aprile.

Lo scorso anno il premio è andato a Victor Oladipo, che ha monopolizzato la corsa fin dalle prime partite e ha stracciato la concorrenza, composta dai comunque sorprendenti Clint Capela e Spencer Dinwiddie che hanno vissuto vere e proprie breakout season (con la guardia dei Brooklyn Nets venuta fuori letteralmente dal nulla).

Nella prima parte andremo ad analizzare, per il primo episodio della rubrica, quelli che erano i principali favoriti per la vittoria del premio a inizio Ottobre, a detta nostra e non solo, ossia Brandon Ingram dei Los Angeles Lakers e Jamal Murray dei Denver Nuggets.

Brandon Ingram

di Leonardo Flori

La giovane ala dei Lakers, in procinto di cominciare la sua terza stagione nella lega, ha vissuto un’estate particolarmente movimentata. Non perchè la sua permanenza nella città degli angeli sia mai stata in discussione – anzi, i Lakers si sono sempre rifiutati di inserirlo in un’ipotetica trade per arrivare a Kawhi Leonard – quanto per gli accadimenti che hanno riguardato i Lakers stessi, che a inizio Luglio sono riusciti a mettere le mani sul premio più ambito della free agency 2018.

(Credits to Yahoo! Sports)

Firmare LeBron James significa esporsi forse alla più grande ondata mediatica che l’universo sportivo possa offrire in questo momento (paragonabile soltanto ad acquistare Cristiano Ronaldo nel calcio); aggiungeteci che a completare quest’operazione sia stata la squadra di stacco più famosa e glamour del panorama NBA, nella città più importante degli Stati Uniti per quanto riguarda i medesimi argomenti, e sarà facile capire che essere un giocatore dei Lakers durante la scorsa estate non era esattamente come giocare in una qualsiasi delle altre 29 franchigie.

Nonostante sia stato riconosciuto da subito come il più importante tra i giovani prospetti dei Lakers, il ruolo di Ingram è stato lievemente messo in dubbio dall’ondata di firme con contratti annuali per veterani da parte dei Lakers, che hanno smantellato metà del vecchio roster aggiungendo ai vari Lonzo Ball, Kyle Kuzma, Josh Hart e Ingram stesso giocatori più esperti come Rajon Rondo, Lance Stephenson e Javale McGee, rendendo le gerarchie confuse come non mai.

Sono bastate però poche partite di preseason e qualche più che discreto endorsment proprio da parte di LeBron James, per capire che tutti dentro l’organizzazione Lakers considerino Ingram come la seconda punta di diamante della squadra, e il giocatore su cui costruire il proprio futuro una volta finita la James-Era. Ma come ha reagito a tutto questa pressione Ingram?

L’inizio di stagione non è stato esaltante come ci si sarebbe attesi, l’ala ex Duke era chiamata ad un ulteriore passo in avanti per quel che riguarda la produzione offensiva, ancor di più durante le primissime partite di regular season durante le quali Lonzo Ball era al 50%.
Ingram ha però faticato a trovare una collocazione gerarchica precisa nell’attacco dei Lakers, non è riuscito ad aumentare i tentativi da 3 punti a partita (2.0, contro gli 1.8 del 2017-18 e i 2.4 del 2016-17, per Basketball Reference) nè le percentuali (35%, contro il 39% dello scorso anno). Il campione è sicuramente troppo ristretto per poter dire che Ingram non farà i passi in avanti previsti, ma la squalifica di 4 partite arrivata dopo la rissa che ha poi riguardato Chris Paul e Rajon Rondo durante Lakers-Rockets, alla seconda partita di regular season, non ha certo aiutato (chi volesse rinfrescarsi la memoria può farlo qui).

Tornato dalla squalifica, Ingram ha continuato sulla falsa riga delle prime due partite, alternando prestazioni più che convincenti a partite più anonime, e la ricerca di un’identità precisa da parte della squadra e la tensione attorno a Luke Walton non hanno certo aiutato un giocatore che, nonostante tutto, ha alle spalle solamente due anni di NBA.

L’obiettivo principale dei Lakers in questa stagione, dal punto di vista tattico, era cercare di correre il più possibile, vista la mancanza di tiratori in squadra, e i giocatori stanno rispondendo bene a questo tipo di richiesta del coaching staff (nel momento in cui scrivo il Pace dei Lakers è 105.5, e rappresenta il quarto miglior attacco della lega); con Ingram in campo la situazione migliora ulteriormente, il Pace sale a 106.1 e l’Offensive Rating passa dai 110.2 di squadra ai 111.9. Le cose peggiorano lievemente cambiando metà campo, LA difende meglio di un punto percentuale senza di lui, ma i problemi difensivi sono legati all’incompletezza generale del roster e la mancanza di un piano difensivo accurato da parte dello staff tecnico, che sta ancora cercando una soluzione definitiva.

Con il tempo, i Lakers miglioreranno (e lo stanno già facendo, visto che al momento sono settimi nella Western Conference con 9 vittorie e 7 sconfitte), ma perchè Ingram mantenga le attese di inizio stagione e si attesti indiscutibilmente come braccio destro di LeBron – ruolo che nelle ultime settimane è sembrato appartenere di più a Kyle Kuzma – il suo attacco necessita di soluzioni più variegate, più tiro da 3 punti e forse più fiducia da parte dei compagni, visto lo Usage Rating che deve salire rispetto al 22.5% attuale (per nba.com/stats). 15.2 punti, 4.5 rimbalzi e 2.3 assist a partita (numero spaventosamente basso per un passatore così sottovalutato) non possono bastare, specie se accompagnati da un Player Efficiency Rating di 11.

E sopratutto, TAKE MORE THREES BRANDON.

 

Jamal Murray

di Jacopo Gramegna

Il secondo giocatore atteso secondo l’opionone comune,a disputare il proprio breakout year era senza alcun dubbio la combo-guard canadese dei Denver Nuggets, reduce da una stagione da sophomore al di sopra di ogni aspettativa

Dopo essersi messo alle spalle il fatidico rookie wall e aver avuto un’impennata verticale in pressochè ogni voce statistica nel corso del suo secondo anno della lega, il prodotto di Kentucky stimolava l’immaginario collettivo per il suo ormai quasi acclarato status di secondo violino in una squadra in rampa di lancio come Denver.

Le sue incendiarie capacità realizzative on e off-the-ball, che perfettamente si sposano con le abilità nel playmaking di Nikola Jokić e l’intelligenza spaziale di Gary Harris, lo rendevano chiaramente un candidato a compiere un secondo balzo statistico che lo avrebbe portato a scavallare i 20 punti di media in una squadra finalmente matura al punto giusto per tornare ai playoff.

Se sul secondo punto la Denver di inizio stagione sembra dare ampie garanzie, lo stesso non si può dire della crescita tecnica e statistica del numero 27 della franchigia del Colorado. Chiariamoci, Murray non sta giocando una cattiva stagione, ma il suo rendimento non sta evidenziando il tipo di esplosione preventivata. Le statistiche grezze recitano 17.1 punti, 3.9 rimbalzi e 4 assist in 33.7 minuti di impiego: tutte cifre in crescita rispetto al suo secondo anno nella lega. Se l’impatto sulle statistiche della sua fantastica prestazione contro i Celtics è innegabile, altrettanto lampante appare un attuale suo difetto di condizione, legato a una crescita fisica piuttosto marcata e a un conseguente bisogno di abituarsi alla sua nuova fisicità.

Malgrado tutto, comunque, Murray è stato autore di una prova che non scorderemo semplicemente. E, come noi, non la dimenticherà neanche Kyrie Irving.

Il ritardo di forma è agevolmente rintracciabile soprattutto nelle statistiche inerenti il suo tiro, soprattutto dall’arco, vistosamente calate in questo inizio di 2018-19. Dal rassicurante 37.8% fatto registrare su 5.4 tentativi nel corso dell’annata appena trascorsa, Murray è sceso fino al 28.9% su 4.8 tentativi. A risentirne, ovviamente, sono state sia la percentuala effettiva (47.9, la più bassa in carriera) che quella reale (52.5%, cinque punti percentuali in meno della scorsa annata).
La sua, probabilmente momentanea, parziale perdita di esplosività lo rende meno capace di costruirsi un vantaggio dal palleggio e, di conseguenza, molti dei suoi tiri diventano maggiormente contestati e si stampano sul ferro. Nelle prime 15 gare della sua stagione, il prodotto di Kentucky ha superato solo quattro volte quota 20 punti e in tre sole gare stagionali ha superato il 50% dal campo: insomma il freno a mano sulle statistiche di Murray sta tutto lì.

Alla stanchezza fisica, che lo porta a sbagliare qualche tiro di troppo anche se ben preso, non corrisponde comunque una mancanza di lucidità mentale: in questo caso è abbastanza freddo da non proseguire nell’attacco e servire Jokic a rimorchio. Questa è una dote importante, non a caso più di una volta quest’anno Murray ha chiuso le gare in crescendo.

In ogni caso, il numero 27 dei Nuggets ha già raggiunto lo status di inamovibile nel crunch time e i dati del suo coinvolgimento nel sistema di Denver risultano coerenti con quanto auspicato prima di questa stagione: il 23.9 % di usage rate è il secondo dato più alto della squadra, a pari merito con Trey Lyles che, però, gioco-forza è meno incisivo sul sistema offensivo dei suoi. I 33.7 minuti giocati di media ogni sera (con ben 6 escursioni sopra i 35 minuti giocati) contribuiscono a ingarbugliare la sua condizione fisica ma sono anche un indizio evidente di quella che è la sua posizione all’interno del contesto creato da Mike Malone.

Anche sotto quest’ottica, dunque, appare interessante seguire come si svilupperà ne corso della stagione la sua convivenza con Isaiah Thomas. Nel momento del ritorno dell’ex Celtics, dinnanzi alla settima pick al Draft 2016 si pareranno due possibilità: il rischio di vedere il proprio rendimento compromesso da una convivenza ingombrante o la prospettiva di un miglioramento nelle percentuali derivante dalla presenza di Thomas. Se il numero 0 dovesse accettare costruttivamente il proprio ruolo in squadra, garantendo a Murray qualche minuto in più off-the-ball e permettendogli di rifiatare per qualche istante oltre ciò che gli è concesso fare con Monte Morris (che comunque sta giocando una stagione largamente positiva) come back-up, per l’ex Kentucky Wildcats potrebbe nuovamente aprirsi la prospettiva di un boost verso il premio di MIP. In caso contrario, Denver non dovrebbe metterci molto a sconfessare il marginale investimento estivo fatto su Thomas.

Nessun patema d’animo, dunque: anche se, per il momento, non è in grado di produrre il definitivo step-up che gli avrebbe permesso di gareggiare per questo particolarissimo award di fine anno, Murray resta comunque un giocatore nel pieno nel suo sviluppo tecnico all’interno di una squadra con numerosi profili in continuo mutamento.

De’Aaron Fox

di Leonardo Flori

De’Aaron Fox era arrivato lo scorso anno a Sacramento come prima grande speranza per il backcourt dei Kings negli ultimi anni (sì, è passato anche Isaiah Thomas, ma le attese erano leggermente inferiori).
I Kings avevano speso la quinta scelta al draft 2017 per assicurarsi l’ex Kentucky, e contavano sulla sua incredibile rapidità, capacità di difendere e giocare efficacemente il pick ‘n roll per riportare la franchigia californiana a buoni livelli.

E la prima stagione in NBA di Fox non è stata un totale fallimento, conclusa con 11 punti, 3 rimbalzi e 4.4 assist a partita; il problema principale, con Fox, è stata la mancanza di affidabilità del suo jumper, una minaccia relativamente bassa per gli avversari. Durante la stagione da rookie, Fox ha tirato soltanto con il 30.7% da 3 e ha fatto registrare 0.75 punti per possesso nella metà campo offensiva (per Sinergy Sports), un rendimento paragonabile a quello di Cameron Payne – non esattamente l’ideale a cui aspirare per una quinta scelta assoluta.

Il folgorante inizio di stagione dei Kings, però, ha dato una nuova linfa vitale a Fox (o è stato il contrario? Una via di mezzo). Coach Joerger ha capito che non poteva continuare a far guidare alla sua point guard una squadra che spaziasse male il campo come i Kings dello scorso anno, rendendo praticamente nullo il contributo di un giocatore che punta tutto sulla velocità e al quale servono più spazi aperti possibili per arrivare al ferro o smistare assist in contropiede.

L’arrivo di Nemanja Bjelica e le maggiori responsabilità affidate a Buddy Hield (che a sua volta ha compito notevoli passi in avanti) hanno aiutato Sacramento ad aprire maggiormente l’area, con la collaborazione random di Iman Shumpert e Justin Jackson dalla panchina, e ciò ha permesso a Fox di portare il proprio gioco a un livello superiore.
Nel momento in cui scrivo il #5 dei Kings sta tenendo 19 punti a partita, accompagnati da 4.4 rimbalzi e 7.3 assist, è diventato il legittimo go-to-guy della squadra e ha aumentato i tentativi da 3 punti dai 2.1 della scorsa stagione ai 3.2 di questa, con la percentuale realizzativa che è passata dal 30% del 2017-18 al 41% di questa stagione (!!!) – per Basketball Reference.

Fox ha mantenuto i propri punti di forza, difesa e primo passo bruciante, ma il lavoro fatto in estate sul tiro lo ha fatto diventare una minaccia da ogni punto del campo, con il rischio di subire una tripla lasciandogli troppo spazio che sta arrivando ai livelli di quello di lasciargli la strada libera per il ferro standogli troppo vicino.

Inoltre l’ex Kentucky ha lavorato molto sul proprio corpo (anche se la strada è lunga, visti i soli 77 kg che supportano i 190 cm), diventando più forte e quindi più in grado di assorbire i contatti fisici al ferro e concludere comunque; lo scorso anno Fox tentava solamente 2.7 tiri liberi a partita, un numero straordinariamente basso se comparato a quelli di giocatori con un pedigree simile a quello di Fox in termini di rapidità e capacità di arrivare al ferro – Russell Westbrook, DeMar Derozan, James Harden. In questa stagione, i liberi tentati a partita sono diventati 6.3.

Le qualità fisiche lo favoriscono inoltre andando a rimbalzo, con la possibilità di catturare immediatamente il pallone e portarlo a una velocità disumana nella metà campo avversaria per servire il compagno meglio posizionato.

Lo scorso anno i Kings erano al 28esimo posto per triple tentate a partita, e giocavano con il Pace più basso della lega. Dopo la prima settimana di questa regular season, nessuna squadra giocava più possessi a partita dei californiani.
Sacramento, per la prima volta da anni, è una squadra decisamente competitiva e con un’identità ben precisa. Fox ne è il leader, e la sensazione è che i margini di miglioramento siano ancora ampissimi.

 

Zach LaVine

di Jacopo Gramegna

Il contratto da 78 milioni di dollari per i prossimi quattro anni firmato nella scorsa estate ha immediatamente lasciato ben poco spazio all’immaginazione: Zach LaVine era chiamato a mostrarsi prontamente all’altezza di uno stipendio così ricco.

La risposta del prodotto di UCLA è stata, fino a questo momento, assolutamente squillante e perentoria.
Finalmente sano e responsabilizzato anche dalla complessissima situazione-infortuni dei Bulls, LaVine ha preso possesso dell’attacco della squadra di coach Hoiberg presentandosi come principale arma offensiva dei suoi. Agevolato anche da un inizio ondivago di Jabari Parker, il suo exploit nelle responsabilità realizzative è coerentemente fotografato tanto dai 25.3 punti di media quanto dal suo usage rate da stella pura: 32.9, una cifra che al momento lo pone nella top 3 della lega.

LaVine non ha mostrato alcuna difficoltà nell’accettare una simile investitura offensiva, riuscendo a non compromettere la propria efficienza pur tirando in media ben 5 conclusioni in più della scorsa stagione: l’attuale 55% di true shooting percentage su circa 20 conclusioni a sera è il miglior dato della sua carriera. Un dato che può ancora crescere, visto che al momento non arriva neanche al 32% nella percentuale da tre punti.

Il suo inizio è stato tanto eccezionale da valergli già una compilation di questo genere.

Se questi dati non fossero abbastanza chiari, per cristallizzare numericamente la sua centralità quasi dispotica nell’attacco di questi Bulls basterebbe semplicemente dare uno sguardo al suo usage rate nel crunch time: uno spaventoso 41.3 da cui riesce a generare 4.2 punti di media nei finali, due dati che lo pongono saldamente nella top 10 della lega tra i giocatori che hanno giocato almeno 5 partite terminate in the clutch (distacco tra le squadre entro i 5 punti a 5 minuti dalla fine o meno).

In questa veste di go-to-guy, LaVine ha gettato luce sulla vastità del proprio repertorio offensivo, che va ben oltre la capacità di essere una double threat tanto al perimetro quanto al ferro.
Ad esempio, l’ex giocatore dei Timberwolves sta mostrando un’enorme crescita nella capacità di lettura delle particolari attenzioni che le difese gli rivolgono, oltre che un’eccellente creatività nel trovare soluzioni per punirle: tanto i 4 assist quanto i 7.3 tiri liberi conquistati ogni sera sono career high che rispecchiano le sue migliorate doti di scansione degli schieramenti difensivi avversari.

La posizione di Robinson è pessima, ma i tempi e la qualità di quella palla schiacciata per Carter sono indubbi.

Anche i 5,4 rimbalzi recuperati ogni sera sono il suo massimo in carriera, un dato che risulta interessantissimo se combinato con le assenze di giocatori come Lauri Markkanen e Bobby Portis: in contumacia a questi due ottimi rimbalzisti coach Hoiberg ha, con ogni probabilità, chiesto ai suoi esterni di andare con maggior efficacia a rimbalzo e il suo numero 8 ha immediatamente risposto presente.

Insomma, la crescita di LaVine abbraccia numerosi aspetti del gioco e rientra di certo tra le note più positive di questo inizio stagione. Cosa può tenerlo, però, lontano dall’MIP? Il suo primo nemico è il record di Chicago, al momento fermo a un mesto 4-13. Tradizionalmente questo premio viene affidato a chi compie un passo in avanti all’interno di un ambiente vincente, magari risultando decisivo per la definitiva affermazione nel novero delle contender per i playoff di una squadra che aveva passato anni nel limbo: una prospettiva piuttosto lontana per LaVine.

Poco male però: confermandosi su questi livelli, il numero 8 dei Bulls può almeno sperare di presentare una sua candidatura come riserva per un depauperato Est all’All Star Game. Un attualmente non preventivabile miglioramento del record di Chicago potrebbe, invece, spianargli la strada verso il raggiungimento di entrambi gli obiettivi.

 

 

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Leonardo Flori

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