Nel mondo dello sport professionistico, a pagare per primo le conseguenze di una stagione sotto le aspettative è quasi sempre l’allenatore. I motivi, al di là di quelli tecnici, sono di natura prettamente pratica: a meno di un’onestà intellettuale da far invidia a Dante, è raro vedere una dirigenza che solleva sé stessa dall’incarico, così come è piuttosto improbabile che la stessa dirigenza riesca a sbarazzarsi con una sola mossa di tutti i giocatori a roster. Effettivamente, che un allenatore perda la fiducia dei propri giocatori o che non riesca a mantenere le promesse, di gioco o di risultati che siano, fatte al momento della firma del contratto non è certo un’eventualità così remota, ma allo stesso tempo non faticano a tornare alla memoria i tanti casi di coach sollevati prematuramente dall’incarico.
Dopo appena 5 vittorie e ben 19 sconfitte, la dirigenza dei Bulls ha pensato che l’era Hoiberg ai Bulls dovesse ritenersi conclusa. Premesso che solo il tempo ci dirà se John Paxson e il GM Gar Forman avranno preso la giusta decisione, proviamo ad analizzare la situazione per capire se la scelta del front office di Chicago sia stata ponderata o meno.
Se già nella scorsa stagione la difesa dei Bulls aveva mostrato delle evidenti lacune, con l’arrivo in estate di giocatori che non fanno degli scivolamenti laterali il proprio cavallo di battaglia era obiettivamente difficile che le cose potessero migliorare. Era infatti lecito attendersi che l’aggiunta a roster del figliol prodigo Jabari Parker avrebbe alzato ulteriormente il tasso tecnico della squadra, ma d’altra parte le difficoltà dell’ex Bucks nella propria metà campo dovevano essere già state messe in preventivo. Nonostante il suo Defensive Rating sia leggermente migliore rispetto a quello di squadra – 109,4 per Parker contro il 109,8 dei Bulls – pare proprio che Hoiberg non sia riuscito a nascondere i difetti del suo numero due, che nonostante l’aria di casa non ha ancora dimostrato la giusta mentalità per non costituire un handicap per i suoi compagni di squadra.
Azione di contropiede orchestrata dai Rockets dopo un errore al tiro dei Bulls. Nella GIF non si vede, ma quando la squadra di casa cattura il rimbalzo che dà il là all’azione offensiva Parker e Capela sono fianco a fianco, sostanzialmente alla stessa distanza dal canestro dei Bulls. Capela, “inseguito” molto blandamente da Parker, corre verso il ferro mentre Parker preferisce rallentare la corsa affidando, anche a gesti, un lungo di 2,08 metri nelle mani del povero Holiday. Due punti facilissimi per lo svizzero in cambio di 3-4 metri di corsa risparmiati da parte di Parker, non esattamente un affarone.
Ovviamente non tutti i problemi difensivi dei Bulls sono figli della scarsa attitudine di Parker. Così come lo scorso anno, non ci vuole poi molto a far saltare la difesa di Chicago: a volte un semplice pick-and-roll ben orchestrato è più che sufficiente per trovare la via del canestro.
Capela rolla indisturbato verso il canestro con la benedizione del duo Arcidiacono-Carter Jr., facendo sì che Markkanen, che forse troppo preventivamente si era messo a protezione del ferro abbandonando la marcatura su un tiratore come Tucker, non possa tornare ad occuparsi del suo uomo. La finta che umilia il disperato tentativo di Parker è la ciliegina su una torta difficile da digerire.
In una stagione finora profondamente negativa, le prime partite del rookie Wendell Carter Jr. costituiscono una delle pochissime note liete in casa Bulls. Il prodotto di Duke non ci ha messo molto a rubare il posto da titolare a Robin Lopez, non esattamente il centro ideale per la pallacanestro Pace & Space di Hoiberg, e fin qui ha dimostrato di valere l’investimento fatto in estate dai Bulls con la settima scelta dello scorso Draft. Mani vellutate e buonissimi movimenti in post sono stati il suo biglietto da visita, ma per quanto sia uno dei prospetti più NBA ready della scorsa Draft class, data la sua giovanissima età non possiamo certo pensare di trovarci di fronte ad un giocatore NBA fatto e finito. Il rookie dei Bulls, oltre a non avere la velocità di piedi per tenere il passo degli esterni – difetto che, per dovere di cronaca, affligge anche alcuni colleghi più blasonati – ha dimostrato infatti di essere ancora acerbo per quanto concerne le letture difensive.
Il solito Capela taglia indisturbato verso il canestro mentre Carter Jr., che pure se lo vede sfilare davanti, assiste inerte alla scena. Nessuna scusa che tenga in questo caso, sono passati appena dieci secondi dalla palla a due.
Come già anticipato, a fare le spese dell’avvento di Carter Jr. è stato il ben più esperto e ben più logoro Robin Lopez, che però quantomeno garantiva alla causa dei Bulls una solidità difensiva che al momento il suo collega più giovane non può per forza di cose assicurare. Se a tutto questo aggiungiamo che Zach Lavine non è certo noto come uno dei più grandi difensori della nostra epoca e che Kris Dunn, uno dei pochi a roster che garantisce una certa continuità nella propria metà campo, è fermo da inizio stagione per un problema al ginocchio, è evidente come la fase difensiva dei Bulls non possa essere da top team NBA. Chicago arriva a contestare soltanto 62,6 tiri avversari a partita – 20 squadre su 29 restanti fanno di meglio – principalmente a causa di disattenzioni individuali. Volendo accanirci sparando sulla Croce Rossa, chiudiamo l’approfondimento sulla difesa dei Bulls con un paio di situazioni in cui gli ex ragazzi di Hoiberg si trovano a difendere in transizione.
La partita non è più in discussione già da diversi minuti, ma sul parquet ci sono ancora quattro titolari più il rientrante Markkanen, tornato poi in quintetto a partire dalla partita successiva. Per dei Rockets pur non in formissima è un gioco da ragazzi mettere a referto due punti facili facili.
Holiday cerca educatamente di far capire a Carter Jr. che non è poi così saggio lasciare tutti quei metri di spazio a Chris Paul, ma i suoi sforzi sono vani.
Dato il poco lusinghiero record di Chicago, era improbabile che le brutte notizie finissero qui. Nonostante la presenza in panchina di quello che ai tempi di Iowa State era considerato un vero e proprio guru della fase offensiva, con 100,9 punti segnati ogni 100 possessi i Bulls possono potenzialmente vantare il peggior attacco dell’intera lega. Ci si potrebbe giustamente chiedere, a fronte della presenza a roster di realizzatori di tutto rispetto come Parker e LaVine, come tutto ciò sia effettivamente possibile. I dati parlano chiaro: il problema di Chicago non sta tanto nei punti nelle mani dei vari interpreti – tra le squadre non di grido della Eastern Conference i Bulls sono per distacco quelli con più talento puro a disposizione – quanto invece nello stile di gioco degli interpreti stessi. I Bulls giocano una pallacanestro ormai anacronistica, che non tiene conto dell’evoluzione del gioco verso il tiro da tre. I Bulls tentano solo 29,2 triple a partita (ventitreesima squadra della lega in questa classifica), convertite nel 34,6% dei casi.
Più che nelle indicazioni del coaching staff, le responsabilità vanno individuate nei giocatori che finora hanno tenuto le redini dell’attacco dei Bulls, cioè Zach LaVine e Jabari Parker. I due, e in particolar modo Parker, tendono ad evitare il tiro dalla lunga distanza preferendo penetrare in area o affidarsi al tiro dal mid-range, una tipologia di conclusione ormai palesemente in via di estinzione nel panorama NBA e a cui invece i Bulls ricorrono nell’11,3% dei loro possessi. C’è da dire che questa ostilità nei confronti del tiro da tre è giustificata anche dalle percentuali scadenti con cui i due trovano il canestro dalla lunga distanza – 31,1% per LaVine, 28,6% per Parker – ma il loro play style non può che condizionare negativamente il rendimento dei Bulls nella metà campo avversaria.
Parker si libera sul perimetro e riceve palla da Payne. Fin qui tutto bene, se non fosse per il fatto che, anziché tentare una tripla approfittando della distanza dal difensore, l’ex Bucks opta per una penetrazione che si conclude con un tiro dal midrange. Possiamo solo immaginare il disprezzo provato da Daryl Morey di fronte a uno spettacolo del genere.
Preso per aumentare la pericolosità della squadra nella metà campo avversaria, per ora la stagione di Parker in canotta Bulls non è di quelle da raccontare ai nipoti. Approfittando dell’assenza dei vari lungodegenti, il prodotto di Duke ha avuto spesso la palla in mano, ma non sempre ha dimostrato di avere la necessità necessaria per gestirla. Jabari non brilla per shot selection, non appare mai sicuro con la palla in mano (perde mediamente la bellezza di 2,6 palloni a partita) e dà l’impressione di voler strafare per migliorare le sorti della squadra. È probabile che non renda al massimo se troppo responsabilizzato e che in un contesto più competitivo, come potrebbe essere già quello dei Bulls a ranghi completi, possa giocare qualche minuto in meno, ma con più qualità e lucidità. Il fatto che Markkanen venga impiegato occasionalmente anche da centro è di per sé positivo, dato che permette a Parker di giocare quasi esclusivamente da 4: nei minuti fin qui giocati da ala piccola non è stato esattamente un valore aggiunto per Chicago.
Purtroppo per i Bulls, le note dolenti non si limitano ai soli leader tecnici della squadra. Già, perché al momento la panchina, oltre ad offrire un contributo non certo eccezionale in termini di punti – 32,1 in media a partita, 26° dato della lega – consta di ragazzi che non offrono caratteristiche granché diverse da quelle dei titolari. Il rientro dei vari Dunn, Portis e Valentine taglierà sensibilmente il minutaggio degli attuali comprimari, ma per il momento questo è quello che passa il convento.
Shaquille Harrison riceve lo scarico di LaVine e avrebbe metri e metri di spazio a disposizione per punire la difesa di Indiana che nel frattempo è collassata nei pressi del ferro… e invece no. I fatti gli danno ragione: perché tentare una tripla con spazio quando puoi potenzialmente andarti a schiantare su tre difensori avversari?
Altro dato preoccupante è quello relativo all’attacco in transizione. Pur avendo a disposizione il roster con l’età media più bassa della lega (24,4 anni), i Bulls fanno una fatica immane a creare pericoli alle difese avversarie dopo aver recuperato il possesso del pallone. Sono solo 12,2 i punti che mediamente Chicago realizza in situazioni di contropiede, decisamente troppo pochi per una squadra che dovrebbe avere nella freschezza uno dei propri punti di forza. Per quanto riguarda invece il PACE, c’è da dire che i Bulls rientrano perfettamente nella media NBA (101,11, quindicesimo dato della lega), ma è altrettanto vero che la statistica in questione rischia di essere condizionata dai diversi possessi che, in virtù di una shot selection non eccezionale, vengono gettati alle ortiche con una conclusione affrettata, magari dal mid-range.
“La decisione di esonerare Hoiberg non è stata presa in base al nostro record. Abbiamo avvertito un’atmosfera diversa nelle ultime settimane e c’era bisogno di cambiare le cose”. Parole e musica di John Paxson nel corso della presentazione del nuovo coach, Jim Boylen. Si è trattato effettivamente di una questione di motivazioni o siamo di fronte alle classiche frasi di circostanza? Pur non respirando l’aria che tira nello spogliatoio dei Bulls, siamo portati a propendere per la seconda ipotesi, dato che non sembrano esserci evidenti motivi che ci portino a convincerci del contrario.
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Dal suo arrivo nella Windy City fino a pochi giorni fa Hoiberg non è mai stato messo in condizioni di poter mettere in pratica la sua idea di pallacanestro. Al suo primo anno si ritrova un Derrick Rose in piena crisi di identità e un Pau Gasol diverso da quello dei fasti di Los Angeles. Anziché optare per il rebuilding, l’anno successivo la dirigenza tenta il tutto per tutto arruolando Rondo e Wade, lontani anni luce per caratteristiche dal Pace & Space predicato da Hoiberg. Nato sotto una cattiva stella, il trio Butler-Rondo-Wade naufraga inesorabilmente. Si riparte finalmente da zero, con un progetto che sembra puntare sullo sviluppo dei giovani e che in linea teorica sarebbe dovuto proseguire anche quest’anno. Che le ultime stagioni dei Bulls sotto la guida di coach Hoiberg siano state al di sotto delle aspettative è innegabile, ma crediamo che, più che al coaching staff, le responsabilità siano da imputare ad un front office che ha puntato su un allenatore emergente senza dargli però la possibilità di esprimersi al meglio con un roster adatto alla sua filosofia. Se a tutto ciò aggiungiamo la delicatissima situazione legata agli infortuni – il ritorno di Markkanen sul parquet ha coinciso con l’ultima gara di Hoiberg sulla panchina dei Bulls, mentre Dunn e Portis sono fuori dai giochi da inizio stagione – il record di 5-19 assume ben altre proporzioni. L’assenza prolungata di tre giocatori chiave, due dei quali sviluppati brillantemente da Hoiberg stesso nel corso dell’ultimo anno, ha influito non poco ai fini di quel record che forse non è un aspetto così secondario come sembra negli uffici dei Bulls.
In effetti, la conferma di LaVine e l’arrivo di Parker nella scorsa offseason erano indici della volontà di fare un passettino in avanti rispetto all’ultima stagione di tanking, ma era evidente che, in ottica Playoff, erano fin troppe le variabili che dovevano incastrarsi alla perfezione. Abbiamo visto come il peggior attacco della lega conviva con una delle peggiori difese, ma le colpe non possono ricadere esclusivamente su Hoiberg. La giovanissima età dei suoi ragazzi, unita a una situazione infortuni disastrosa e ad un progetto tecnico tutt’altro che chiaro, ha fatto sì che le speranze Playoff svanissero dopo una manciata di partite. Ma siamo realmente sicuri che la partecipazione alla prossima postseason, al di là della realisticità dell’obiettivo, fosse la cosa migliore per questi Bulls?
Iniziare un processo di rebuilding presuppone il sacrificio della competitività sull’altare della crescita dei giovani e una certa dose di pazienza, dote che non sembrerebbe essere il fiore all’occhiello del front office di Chicago. Già ad inizio stagione un’altra annata di tanking poteva e doveva essere presa in considerazione, ma a questo punto, con i Playoff compromessi a meno di miracoli, continuare a perdere dando allo stesso tempo spazio ai giovani pareva la soluzione più logica. Al di là delle motivazioni infatti, l’aspetto più sorprendente di questo esonero è la tempistica. Dare una chance a Boylen – un uomo che, pur non avendo mai avuto la possibilità di diventare head coach prima d’ora non è certo l’ultimo arrivato nel panorama NBA – già ad inizio stagione avrebbe potuto avere senso, così come sollevare Hoiberg dall’incarico al termine della regular season per affidare la guida tecnica della squadra a qualcuno che sposasse in pieno il progetto (?!) dei Bulls. Ci sfugge invece il senso di esonerare un allenatore dopo una ventina di partite senza che abbia potuto mettere in pratica la sua pallacanestro con l’intero roster a disposizione.
Mentre noi parliamo qualcuno sta affinando l’intesa…
A Chicago c’è molto lavoro da fare. Come dichiarato dallo stesso coach Boylen, i Bulls devono migliorare soprattutto a livello di attenzione individuale, cercando di limare le pecche di gioventù che inevitabilmente i ragazzi mostrano in campo. Più che dei risultati bisognerà preoccuparsi di individuare una volta per tutte la rotta da seguire, onde evitare di ripetere gli errori del passato. Ora tocca a Boylen e ai suoi ragazzi dimostrare che la dirigenza ha fatto la scelta giusta, sperando che il vento di Chicago possa spazzare via le nuvole – tra cui quella nerissima della sconfitta record contro i Celtics – e far tornare il sereno sui Bulls.
Statistiche aggiornate al 08/12/18