Primo Piano

MIP Check #3: PointSlow e il Lou Williams dei lunghi

Terzo capitolo della vostra nuova rubrica preferita, che ogni 4 settimane vi da un update sui giocatori che più stanno migliorando all’interno della regular season.
Lo scorso mese io e Jacopo Gramegna vi abbiamo parlato di Domantas Sabonis, Nikola Vucevic (due seri candidati per il premio di fine anno), Jerami Grant e il sempre più sorprendente John Collins – o meno sorprendente, dipende dai punti di vista.

Altro mese, altri quattro super-migliorati.

Buddy Hield

Di Leonardo Flori

I Sacramento Kings sono la più grande sorpresa della stagione 2018/19. Punto, fine della discussione. Sono la squadra più divertente da guardare, vanno sempre alla massima velocità, hanno un ottimo mix di atletismo e tiro da fuori e nel momento in cui scrivo hanno 21 vittorie e 21 sconfitte, decimi nella Western Conference ma a solo a mezza partita di distanza dall’ottavo posto dei Lakers.

Se l’uomo copertina è stato anche il principale protagonista di MIP Check #1, non può e non deve (e finora non lo ha fatto) passare sottotraccia l’incredibile passo in avanti di Buddy Hield.

Dopo una strepitosa carriera collegiale a Oklahoma. guidata anche alle Final Four NCAA, il nativo delle Bahams era stato scelto con la sesta assoluta dai New Orleans Pelicans al draft del 2016, senza però mai riuscire a portare le sue doti di uber-scorer dall’NCAA alla NBA.
Coinvolto nella trade che ha portato DeMarcus Cousins a NOLA, e scambiato quindi ai Kings, nel primo anno e mezzo in California Hield ha continuato a faticare, mostrando segnali di vita ma senza riuscire a emergere nella franchigia più disfunzionale degli ultimi 10 anni.

Quando però in estate Dave Joerger ha deciso di cambiare radicalmente l’impronta tattica dei Kings, puntando tutto sulla velocità e circondando De’Aaron Fox e Willie Cualey-Stein di tiratori, le cose sono cambiate anche per Hield.
Ritrovatosi per la prima volta in carriera come membro fisso della starting lineup, Hield è riuscito praticamente da subito ad avere un impatto importante nella metà campo offensiva.
Lo scorso anno Hield tentava 5 triple a partita, che convertiva con il 43.1%, nel 2018-19 i tentativi sono diventata più di 7 convertiti con il 44% abbondante.

Nella partita contro gli Warriors del 5 Gennaio, entrata nella storia per il maggior numero di triple combinate tra le due squadre (41), Hield ne ha realizzate ben 8, massimo in carriera. Ha poi chiuso la partita con 32 punti, il migliore tra i suoi. 

Durante i primi 2 anni nella lega, Hield ha imparato a sue spese di non essere un fuoriclasse nel crearsi il proprio tiro, quantomeno non quello dalla lunga distanza contro difensori di livello NBA. Quando però in questa stagione si è trovato accanto un playmaker di primo livello come De’Aaron Fox, che si prendesse la responsabilità di dare il ritmo alla squadra, Hield ha capito come poter massimizzare la propria produzione, prendendosi per la maggior parte tiri ad altissima efficienza. Meno pull-up, più catch and shoot.

Il manifesto del nuovo Hield: inizialmente sembra voler orchestrare lui l’azione, in realtà usa Cauley-Stein come perno dopo un gioco di scambi con Jackson torna pronto a ricevere lo scarico del centro, che aspettava solo di riconsegnargli la palla quando pronto a tirare. 

Lo scoring boom che sta vivendo la lega è stato usato dai Kings per calarsi in una nuova realtà offensiva, e Hield è stato bravo nel capire in anticipo quale potesse essere il suo ruolo all’interno della nuova macchina di Joerger e come poterne trarre il massimo.
Rispetto alla scorsa stagione i punti a partita sono passati da 13.5 a 20.1 (!!!), la percentuale reale dal 54% al 58%. Con lui in campo la squadra ha 112 di offensive rating, dato decisamente positivo, e poco importa se dal punto di vista difensivo Hield è ancora considerabile una liability, il tempo è tutto dalla sua parte per limare gli aspetti del gioco su cui ancora ha carenze.

A 25 anni – ups, 26 – sta vivendo la prima stagione in una squadra competitiva, ha per la prima volta la possibilità di lottare realmente per i playoff e mai come quest’anno è stato la prima opzione offensiva. Certo, si potrebbe obiettare che quando i giocatori destinati allo stardom vivono questo tipo di breakout season sono in realtà più giovani, al secondo/terzo anno nella lega e con alle spalle una sola stagione al college, invece delle quattro passate da Hield a Oklahoma. Il fatto di essere rimasto per così tanto tempo al college, però, ha influito sulla formazione di un attaccante che è già completo per quanto riguarda la consapevolezza di dove poter impattare meglio all’interno di una partita, sapere cosa è meglio fare e cosa no. Questa è una dote preziosa, decisamente rara in una guardia così giovane.

E’ probabilmente superfluo aggiungere che in questo caso, come per Fox e per i Sacramento Kings in generale, il meglio debba ancora venire.

 

Julius Randle

di Jacopo Gramegna

Arrivato a New Orleans con un contratto di 18 milioni (munito di player option sul secondo anno), Julius Randle è entrato in questa stagione con un non indifferente carico di nodi da sciogliere tanto dal punto di vista tecnico quanto dal punto di vista contrattuale.

Dopo un’estate che l’ha visto come l’unico reale epurato del progetto giovane dei Lakers, portandolo a firmare un contratto a cifre tutt’altro che vertiginose con New Orleans, il prodotto di Kentucky era chiamato a vivere una stagione di livello per dimostrare di valere una cifra decisamente maggiore in una squadra che vanta legittime ambizioni di playoff. E perché no, a portare i Lakers a ricredersi: i gialloviola hanno rinunciato ai diritti su di lui non offrendogli neanche un contratto annuale, preferendo presentarsi alla prima palla a due della regular season con i soli McGee e Zubac nel ruolo di centro e vedendosi costretti a correre ai ripari con la firma a stagione in corso di Tyson Chandler.

Breve recap delle scelte estive dei Lakers: i contratti annuali di Stephenson, Rondo, McGee, Caldwell-Pope e Beasley superano i 30 milioni di dollari. Tre quinti di questi sono già quasi certi di non proseguire con i gialloviola.

Oltre ad avere numerosi nodi da sciogliere per quanto concerne la dimensione extra-campo, Randle si trovava dinnanzi a una sfida tattica molto interessante: era chiamato a sostituire non solo numericamente un All-Star come DeMarcus Cousins in una squadra che, sotto la gestione di Alvin Gentry, ha sempre voluto alzare molto il ritmo, portando anche i suoi lunghi a trattare molto la palla.

Se poco più di un anno fa era impossibile non sottolineare la centralità di Cousins nel contesto-Pelicans, oggi risulta molto interessante vedere come alcune delle libertà lasciate a DMC lo scorso anno siano state assorbite da Randle, portando a un incredibile miglioramento della sua produzione.

La coppia di lunghi inizialmente scelta da coach Gentry in questa stagione è stata quella composta da Nikola Mirotic e Anthony Davis, il cui rendimento congiunto è stato alla base della grande vittoria nel primo turno di playoff della scorsa stagione contro i Portland Trail Blazers. A inizio stagione Randle, dunque, era utilizzato spesso in uscita dalla panchina, per assicurare un uomo efficiente a una second unit tra le più povere della lega, ma ha immediatamente mostrato ciò che è in grado di mettere a disposizione della sua squadra.
La sua capacità di correre il campo direttamente da rimbalzo difensivo è stata puro ossigeno per un roster che cerca costantemente di alzare i giri del proprio gioco (New Orleans è sesta per Pace con 103 possessi a gara) per nascondere i propri difetti strutturali a metà campo.

Un giocatore che sin dalle prime battute della stagione può mettere queste cifre in uscita dalla panchina ogni sera non può che far comodo a Gentry.

Pur avendo chiaramente doti di playmaking nettamente inferiori a quelle di Cousins ed essendo un giocatore di post molto meno continuo ed efficiente (con 5.4 tocchi e 3 punti per tocco in post è fuori dalla top 10 per produzione dal post a partita), Randle ha comunque ereditato dal suo predecessore la possibilità di correre il campo in prima persona, declinandola secondo un’interpretazione più individualista: il primo obiettivo è sempre la costruzione di un buon tiro per sé. L’ex allievo di coach Calipari di certo non si è fatto pregare, entrando in una perenne modalità tunnel vision che, però, sta pagando ottimi dividendi. I suoi risultati in uscita dalla panchina sono stati talmente eccellenti da portare Zach Lowe a definirlo il Lou Williams dei lunghi.

Questo lo fa come pochissimi nella lega.

Inoltre, come successo a Cousins lo scorso anno, Randle ha scelto di alzare notevolmente il volume dei propri tiri da tre per il bene del sistema della sua squadra. I risultati sulla sua efficienza sono molto interessanti: pur avendo quadruplicato il numero di triple prese rispetto allo scorso anno (da 0.5 a 2 tentativi a gara), l’ex Lakers sta tirando con la miglior percentuale perimetrale del quando è in NBA(un accettabile 32%). La somma di questi fattori lo sta portando, chiaramente, ad avere la miglior stagione al tiro della sua carriera sia per quanto concerne la effective field goal percentage (56.5%) che per quanto riguarda la true shooting percentage (61%), complice anche un rendimento dalla lunetta costante (72.3%) malgrado la crescita nei tentativi (6.3 a gara, career high anche questo). A testimoniare la sua enorme crescita di confidenza nel proprio gioco basta citare un ulteriore dato: Randle sta viaggiando con il suo carreer high nella Usage% (26.3%) e con la più bassa turnover percentage della sua carriera (13.2%). L’eliminazione quasi totale della sua dimensione di “playmaker” e la semplificazione dei suoi compiti hanno portato a un abbassamento delle sue cifre come passatore (la sua assist percentage è scesa di un punto percentuale dal 15.8% a 14.8%)  ma lo hanno reso un giocatore molto più diretto ed efficace, capace di prendere decisioni rapide in attacco secondo le necessità della sua squadra anche se coinvolto in un volume maggiore di possessi.

Semplice, diretto.

Se, però, lo stiamo inserendo tra i giocatori candidabili per il premio di Most Improved Player e non di Sixth Man un motivo ci sarà. Complici alcune nights-off per Anthony Davis e l’infortunio di Mirotic, Randle è gradualmente entrato in quintetto, non modificando il suo apporto alla squadra, anzi, potenziandolo: al momento vanta già 20 doppie doppie e una tripla doppia in stagione, con numerose escursioni sopra i 25 punti (quest’anno ha fissato il suo career high a 37) e la costante idea di essere la terza bocca da fuoco senza la quale i Pelicans non sarebbero riusciti a restare aggrappati ai propri sogni playoff.

Carreer high a 37 punti, ovviamente realizzato quest’anno.

A fine stagione Randle potrà uscire dal suo contratto e cercarne uno molto più vantaggioso di quello da 9 milioni che gli spetterebbe secondo la sua player option. A seguito di un’annata di questo spessore qualche sopracciglio potrebbe essersi alzato. Chissà che in un’estate in cui in tanti cercheranno una stella e in molti resteranno delusi, i giocatori come Randle non riescano a trarre vantaggio della situazione monetizzando al meglio sulla delusione di chi è restato a bocca asciutta.

Justise Winslow

Di Leonardo Flori

Partiamo dal presupposto che Justise Winslow è una contraddizione. E non è che io sono pazzo e mi sto inventando un concetto di sana pianta per mettere insieme 800 parole. Winslow è arrivato in NBA dopo essere stato scelto dagli Heat con la decima assoluta nel 2015, e si è presentato a South Beach come specialista difensivo con difficoltà enormi al tiro e un gioco offensivo tutto da costruire (anche se il potenziale c’era, e sia Pat Riley che Eric Spoelstra hanno dimostrato di credere in lui da subito).

Nelle prime due stagioni in Florida Winslow non ha mai toccato i 2 tentativi da 3 punti a partita, e le percentuali non hanno neanche sfiorato il 30%. Le cose sono migliorate lo scorso anno e ulteriormente in questa stagione, sono aumentati sia i tentativi che la precisione, ma il tiro non è ancora – e chissà se sarà mai – un’arma concreta nell’arsenale offensivo dell’ex Blue Devil.

Cosa fare però di un giocatore che sì è importante nella propria metà campo, ma viene quasi sistematicamente ignorato dagli avversari in quella offensiva? E’ una domanda che probabilmente anche gli stessi Riley e Spoelstra si sono fatti riguardo a Winslow. Senza però mai cedere al panico. Neanche quando pochi mesi fa Jimmy Butler ha espresso Miami come sua preferenza una volta lasciati i Timberwolves, e Minnie ha indicato tra gli altri Winslow come contropartita gradita, la dirigenza di Miami ha pensato seriamente di separarsi dalla propria forward, sperando di poterne ancora ricavare un giocatore credibile per la pallacanestro moderna.

A questo punto entra in gioco il caso, e il primo fattore contraddittorio per quel che riguarda Justise Winslow.

La data da marcare è il 19 Dicembre 2018, quando Goran Dragic è costretto a sottoporsi ad un intervento al ginocchio e saltare i seguenti 2 mesi di regular season. Guardando il roster dei Miami Heat, sconclusionato per la sua maggior parte, salta fuori un dato di per sè incredibile: gli Heat hanno materiale umano per mettere in piedi una rotazione di sole shooting guard (Josh Richardson, Tyler Johnson, Rodney McGruder, Dwyane Wade, Wayne Ellington e Dion Waiters), ma al momento di dover sostituire Dragic in quintetto il povero Spoelstra si è ritrovato senza una singola back-up point guard.

Dopo vari ragionamenti, la soluzione diventa questa.

Fino al passaggio a point guard, la stagione di Winslow parlava della solita solfa: buone (rare) prestazioni offensive alternate a partite quasi anonime, che hanno prodotto solamente 10.3 punti a partita nelle prime 26 uscite stagionali.

Da quando è partito come point guard, in 9 partite Winslow ha realizzato 15.3 punti a partita con 6 rimbalzi e 6 assist, calandosi perfettamente e da subito nel ruolo che gli era stato chiesto dal suo allenatore.

La prestazione più importante del nuovo Winslow. Per carità, quelli sono i Cavaliers a.k.a. la peggior squadra NBA, ma personalmente anche solo 3 mesi fa non avrei mai creduto a uno sviluppo del genere. 

La prima contraddizione o paradosso che dir si voglia quindi è manifesta: Winslow è arrivato in NBA come specialista difensivo con talento più che grezzo nella metà campo offensiva, e sta avendo per la prima volta successo in modo continuo giocando nel ruolo che in assoluto richiede le maggiori capacità tecniche offensive.

Essendo la nuova point guard dei Miami Heat, dunque, Winslow gestisce il maggior numero di palle a metà campo e detta quindi il ritmo della squadra, e qui entra in gioco la seconda contraddizione.

Fino al 14 Novembre, l’ultima apparizione di Dragic in campo, gli Heat avevano il decimo Pace più alto della lega, seguendo il trend di tutta la NBA. Da quando lo sloveno non ha più giocato, il Pace di Miami è crollato fino al 25esimo posto NBA. Da quando Winslow è la point guard, sono 29esimi. Con l’ex Duke a gestire le operazioni, solo i Memphis Grizzlies giocano a un ritmo inferiore rispetto a Miami, ma tutti i dati offensivi della squadra incredibilmente risultano migliori rispetto alle partite con Dragic in campo (durante una striscia di 5 vittorie e una sconfitta di inizio Gennaio, gli Heat viaggiano a 109 punti su 100 possessi).

Nel momento in cui in NBA tutti, ma letteralmente tutti pensano a correre il più possibile, Winslow ha preso una delle squadre più veloci della lega, che però stava perdendo un numero decisamente alto di partite, e l’ha fatta rallentare fino allo sfinimento. Allo stesso tempo ha migliorato la propria produzione personale e quella della squadra in termini di vittorie.
Nel momento in cui scrivo gli Heat sono al sesto posto nella Eastern Conference con 21 vittorie e 20 sconfitte, troppo lontani dal quinto posto dei Celtics ma pienamente in lotta per un’altra partecipazione alla postseason.

Nel chaos che continuerà a tormentare la squadra (vedi una delle peggiori situazioni salariali della lega), Winslow – che d’ora in avanti sarà chiamato PointSlow – potrebbe cambiare radicalmente il futuro della franchigia, e formare con Josh Richardson e Bam Adebayo il vero core da cui gli Heat possano ripartire. Poco male se ci sono voluti 3 anni e mezzo a capire in che posizione farlo giocare.

 

Joe Harris

di Jacopo Gramegna

All’interno della costante e minuziosa opera di valorizzazione di giocatori apparentemente finiti ai margini della lega portata avanti dai Brooklyn Nets sotto la gestione di Sean Marks e Kenny Atkinson, Joe Harris può essere considerato un autentico simbolo. Dopo l’addio ai Cavs e aver firmato un biennale non interamente garantito con la franchigia newyorkese nell’estate del 2016, Harris ha visto il proprio ruolo nella squadra crescere gradualmente fino a meritarsi una riconferma con un accordo biennale da 16 milioni nel corso dell’ultima free-agency. Numeri importanti in relazione al pedrigree del giocatore: 33esima scelta assoluta, tagliato da Cleveland nel 2015-16 dopo solo 5 gare disputate in quella stagione e finito in una Brooklyn che poteva essere, a ragione, considerata la peggior squadra della lega.

Oh, siamo passati anche dai Canton Charge eh.

A metà della prima stagione del suo nuovo contratto, però, appare evidente che il rinnovo di Harris è stata l’ennesima sapientissima mossa di Sean Marks che è riuscito a confermare a cifre ampiamente abbordabili un elemento divenuto fondamentale all’interno dello scacchiere tattico di coach Atkinson, che ormai lo considera un giocatore imprescindibile da schierare anche nei finali più tesi. La stagione 2018-19 ha, infatti, mostrato tutta l’importanza di Harris come equilibratore delle line-up di Brooklyn: Atkinson lo sta usando indifferentemente come guardia e ala piccola, arrivando anche a sfruttarlo come creatore di gioco secondario e in alcuni casi come power forward tattica in quintetti extra small.

Osservando le statistiche di Harris appare difficilissimo rintracciare una singola voce nella quale il prodotto di Virginia non stia viaggiando con il proprio career high: minutaggio, punti, rimbalzi, assist,percentuale dal campo, da tre, reale ed effettiva. Insomma, siamo dinnanzi a una vera e propria breakout season.

Osservandolo giocare, non ci si mette molto a comprendere per quale motivo il suo allenatore faccia davvero molta fatica a farne a meno. Innanzitutto le sue doti da tiratore sono assolutamente innegabili: il 48.5% su ben 8.4 tentativi a gara lo colloca nella stratosfera dei tiratori NBA (al momento è secondo nella Lega dopo il solo Curry). La sua meccanica compatta, morbida e rapida rappresenta una garanzia all’interno di un sistema che ricerca in maniera massiccia il tiro da tre punti come avviene per Brooklyn, attualmente sesta per tentativi da tre (34.2) a partita.

 

I Brooklyn Nets hanno proposto così la sua candidatura alla gara di tiro da tre dell’All Star Weekend. A questo punto non lo si può tenere fuori.

Ma Harris non è solo un tiratore: è un giocatore molto intelligente, in possesso di eccellente consapevolezza dei propri fondamentali e perfettamente in grado di metterli a disposizione dei propri compagni.
L’ex giocatore dei Cavaliers, infatti, ben conscio di essere spesso difeso in maniera aggressiva sui blocchi a causa delle proprie doti balistiche, riesce spesso a sorprendere le scelte degli avversari con dei tagli che generano vantaggi per sé e per l’intera squadra. Sempre sotto controllo e ben conscio dei propri limiti di natura atletica, Harris riesce a spremere il massimo dalla sua pallacanestro, esaltandola nel contesto costruito da Atkinson grazie a un senso dello spazio che gli permette di andare a occupare sempre la posizione giusta senza la palla.

In backdoor.

A ricciolo, servendo un compagno con più vantaggio.

Fino in fondo.

Anche tagliando direttamente dal lato del post…Con un circus shot per chiudere.

A fotografare la pulizia di gioco del del nativo di Chelan, Washington intervengono alcune stastistiche: Harris riesce a segnare 13.5 punti a sera (quarto dato della squadra) con un misero 17% di usage%, mentre perde solo 1.5 palloni a partita con un’eccellente 12.5 di turnover percentage. Numeri lusinghieri, che mettono sotto una luce completamente nuova i 7.3 milioni che i Nets gli dovranno nella prossima stagione: briciole per un tassello fondamentale da affiancare alle stelle che verranno cercate nella free-agency dalla franchigia newyorkese.

Considerando da dove viene e il percorso che ha svolto all’interno della propria squadra, possiamo affermare senza grossi timori di smentita che Joe Harris rappresenta per l’annata 2017-18 quello che il suo compagno di squadra Spencer Dinwiddie è stato per la scorsa: il nostro MIP romantico.

 

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Leonardo Flori

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