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Tornare a volare – Danilo Gallinari

Quand’ero bambino, se piangevo, i miei genitori non mi davano una coperta. Mi davano una palla e mi spedivano nel cortile sul retro. Devo aver pianto molto perché ero uno di quelli in grado di palleggiare e tirare a 5 anni. Sono cresciuto in un paesino di 2000 anime, 45 minuti fuori Milano. Mio padre, Vittorio, è stato un grande giocatore in Italia, ma non abbiamo mai parlato di pallacanestro. Non è mai venuto alle mie partite. Diceva di non voler pestare i piedi al mio allenatore.

 

“Firmai per la prima volta con una squadra di club a 12 anni. Iniziai a vivere da solo a 14 e sono diventato un professionista a 16. Sono cresciuto giocando solamente da guardia, e improvvisamente mi sono ritrovato ala piccola a 16 anni accoppiato a uomini di 35 anni”

 

Sin da giovanissimo, ho avuto addosso molta pressione: la gente parlava di me, scriveva sul mio conto. I miei genitori mi dicevano di non leggere il giornale. Firmai un contratto con un club a 12 anni, cominciai a vivere per conto mio a 14. Diventai professionista a 16. Sono cresciuto giocando solo da point guard e improvvisamente mi sono ritrovato ala piccola a 16 anni accoppiato a giocatori di 35 anni. Allora mio padre ha cominciato a vedermi giocare. Oggi i ragazzi in Italia conoscono meglio giocatori NBA rispetto a giocatori del proprio paese, ma al tempo era il contrario. Il mio sogno era arrivare in nazionale e in Serie A.

 

Credits to nba.com

 

A 17 anni, mi unii all’Olimpia Milano, il club nel quale aveva militato mio padre. Giorgio Armani era lo sponsor. Tutti volevano giocare per Milano per via della sua figura. Lo chiamavano Re Giorgio, King Giorgio. Abbiamo speso giorni interi nei suoi negozi per prendere le misure e provare le tute. Ero il giocatore più giovane in squadra e a volte mi portava ai suoi incontri d’affari per fargli da modello. Ora è il proprietario di Milano. Non guardo molta pallacanestro in tv. Anche ai miei allenatori dico: “Se volete che faccia meglio qualcosa, non dovete mostrarmelo in video. Mi fido di voi.” Tuttavia, seguo Milano. L’international scouting analyst dei Clippers, Francesco Alfier, taglia a pezzi le partite per me ogni settimana.

 

Ho cominciato a pensare alla NBA quando avevo 18 anni, il mio ultimo anno a Milano. Andrea Bargnani era appena stato chiamato con la prima scelta al Draft dai Toronto Raptors, un grande momento per lui e per l’Italia. Andrea e io giocavamo assieme in nazionale e quindi una parte di me pensava, “Forse posso farlo anch’io”. All’epoca c’erano tre o quattro americani in ogni squadra di Eurolega e li avevo sentiti parlare della pallacanestro collegiale d’élite. Giocare contro quei ragazzi fu un’iniezione di fiducia. Cominci a dirti, “Forse sono al loro livello.” Poi vidi gli scout NBA farsi avanti.

 

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Tra i playoff e i provini in vista del Draft 2008 mi presi solo tre giorni di pausa. Arrivai negli Stati Uniti e ogni squadra mi chiese di lavorare molto con i pesi e fare molti squat. Volevo dimostrare loro di potercela fare, ma non ero abituato a tutti i pesi. Cominciai a sentire dolore nella parte bassa della schiena. Alla prima partita di Summer League giocata coi Knicks, andai in penetrazione a canestro e “Tractor” Taylor mi fermò con un fallo duro mandandomi a terra. Tutti pensavano che fossi infortunato a causa di quella giocata, ma sentivo dolore da ormai un mese. Avevo male al nervo sciatico e il dolore mise fuori uso tutta la mia gamba sinistra, dal gluteo al polpaccio.

Ero la sesta scelta al Draft e non volevo operarmi. Provai tutte le altrenative. In tre occasioni presi delle epidurali, ciò che i dottori danno alle donne incinte in travaglio. La prima e la seconda volta le epidurali non sortitono effetto. La terza volta misero così tanta medicina nell’ago che svenni. Cercai di camminare nella sala ricovero con mio padre e caddi a terra. Per otto mesi non riuscii a dormire per più di due ore a notte. Non ero nemmeno in grado di sedermi su una sedia. Facevo colazione inginocchiato sul pavimento. Con il dolore alla sciatica, più ti muovi e meglio è quindi la cosa migliore della giornata era andare in palestra. Cercai di giocare un pezzo di quella stagione, ma ogni volta che tornavo in panchina dovevo stare a pancia in giù. Quando finalmente mi decisi a operarmi alla schiena non ero nervoso. Ero il ragazzo più felice del mondo.

 

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Vivere a New York non fu un grosso passo da compiere per me. Mi ero trasferito quattro volte tra i 14 e i 20 anni. A molti giocatori non piace il Garden perché i tifosi sono duri e se perdi ti urlano contro. Io li amavo. Ogni giorno c’era qualcuno in prima fila, come Armani, di nuovo. Nelle mie prime due stagioni perdemmo molte partite, ma al terzo anno costruirono una squadra vera con Amare’ Stoudemire, Raymond Felton e Wilson Chandler. Eravamo convinti del fatto che avremmo vinto.

 

Poi, a febbraio, sparì tutto. Stavo cenando al Moscato, uno dei miei ristoranti italiani preferiti a Scarsdale, con Ronny Turiaf e Kelenna Azubuike. Erano circa le 10:30 di sera quando chiamò il mio agente. Guardai i miei compagni di squadra e dissi semplicemente “Uh oh”. Mi diressi in un’altra stanza, dove il mio agente mi disse: “Sei stato scambiato per Carmelo Anthony e devi andare a Denver domani”. Rimasi scioccato. Mi servì del tempo per processare tutto. Tutti i giocatori che vennero scambiati – io, Wilson, Raymond, Timofey Mozgov – trascorsero i due giorni seguenti a New York. Cenammo insieme, uscimmo insieme, poi prendemmo un volo privato per Denver. Durante il viaggio continuavamo a guardarci negli occhi, pensando a cosa fosse successo e a quello che sarebbe successo.

In qualche modo funzionò. A Denver eravamo una squadra che correva tanto, con un grande gioco offensivo e con un’alchimia incredibile. Alla mia terza stagione lì, vincemmo 57 partite, il maggior numero di successi da quando i Nuggets militavano in ABA. Eravamo al 3° posto ad Ovest, pronti a sfidare i Warriors al primo round e gli Spurs al secondo. San Antonio giocava a un ritmo molto più lento del nostro, e pensavamo che non sarebbero riusciti a rimanere al nostro passo. Ricordo che pensammo di intravedere una strada verso le Finals.

 

“Dopo otto mesi di riabilitazione non sentivo il mio ginocchio sinistro come quello destro. Il medico di squadra fece una risonanza e scoprimmo che il legamento era rimasto leso. Fu un incubo. Sembrava che un’intera stagione mi fosse stata letteralmente rubata”

 

Poi mi ruppi il legamento crociato anteriore sinistro. Ricordo ancora la data: 4 aprile 2013. Si trattò della fine per noi, e dell’inizio dei Golden State Warriors. Invece di operarmi subito, aspettai per circa tre settimane prima di scegliere un dottore di Vail, che mi fu raccomandato da alcuni giocatori NBA e persino alcuni calciatori in Italia. Poiché mi ruppi sia il menisco che il crociato, il medico operò prima il menisco, lasciandomi sulle stampelle per sei settimane. Dopodiché, mi operò il crociato anteriore, ma invece di eseguire un’operazione standard i dottori optarono per una tecnica meno invasiva. L’intervento doveva durare un’ora e mezza, ma terminò solamente dopo 45 minuti. Fu strano. Ricordo che mia madre diede di matto, facendo un sacco di domande nella sala di attesa.

Dopo otto mesi di riabilitazione, non sentivo il mio ginocchio sinistro come quello destro. Il medico della squadra fece una risonanza magnetica e scoprimmo che il legamento era rimasto leso. Perciò mi sottoposi all’intervento standard per riparare il crociato: il problema era che il mio ginocchio sinistro era così danneggiato che il chirurgo dovette prendere una porzione di legamento dal ginocchio destro e unirlo con un legamento donato sul ginocchio sinistro.

Iniziai un altro periodo di riabilitazione, lungo sei mesi. Fu un incubo. Sembrava che un’intera stagione mi fosse stata letteralmente rubata.

La salute è tutto. Quando sono sano, penso di non avere dubbi su cosa posso portare sul parquet. Ebbi due buoni anni a Denver, e quando diventai free agent nell’estate 2017, i Clippers erano la migliore squadra fra quelle che mi volevano. Avevano ancora Blake Griffin e DeAndre Jordan, mentre Chris Paul era l’unico sul piede di partenza. Perciò mi incontrai con Steve Ballmer, Doc Rivers, Blake e D.J. a casa di Coach Doc. Sentii come se avessimo delle ottime connessioni fra noi, quindi pensai che avremmo potuto continuare ad averne una volta in squadra.

 

“Il basket è anche un gioco mentale. Ad agosto ho compiuto 30 anni e ora mi sento più preparato e costante che mai. Sono orgoglioso di quello che siamo riusciti a raggiungere”

 

Avevo un nuovo contratto, una nuova città e la voglia di provare assolutamente cosa potevo fare. All’inizio della stagione provavo dolore al muscolo gluteo, ma tutti pensavano che si trattasse semplicemente di un ematoma. Quindi continuai a giocare sul dolore. Eppure arrivai a un punto, nel corso della nona partita contro Miami, in cui non riuscii nemmeno più a camminare; pensai che non si trattasse di un semplice livido. Una risonanza rivelò che si trattava di uno strappo a un livello del 40% del muscolo gluteo. Seguirono trattamenti, una iniezione di PRP (terapia ricca di piastrine, ndr) e tornai a giocare dopo quattro settimane. Era troppo presto. Il muscolo si stirò nuovamente nello stesso punto. Dopo sei settimane tornai in campo nuovamente, e giocammo bene per 10 partite. Poi, contro Golden State, Draymond Green abbassò il suo gomito sulla mia mano che si fratturò. “Allora succede solo a me”, pensai.

Al training camp dell’anno successivo pensai che sarei potuto tornare a giocare con costanza e avere una stagione davvero positiva. Il basket è anche un gioco mentale. Ad agosto ho compiuto 30 anni e ora mi sento più preparato e costante che mai. La squadra mi sta compensando per quello che porto al tavolo, ed è una cosa che non prendo alla leggera. Se c’è un lungo che deve essere marcato uno contro uno, voglio difendere su quel giocatore, e i miei allenatori lo sanno. Sono orgoglioso di quello che siamo riusciti a raggiungere.

 

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L’Italia si è appena qualificata ai Mondiali, e mi piacerebbe giocare questa estate. Da dove vengo rappresentare il proprio paese è la cosa più importante, e quando la nazionale ti chiama, vai sempre. Non gioco con la Nazionale da molto tempo. Due anni fa mi ruppi la mano durante un’amichevole contro l’Olanda. Nel basket europeo c’è molto più gioco ruvido e faccia tosta, perciò pensai che l’Olanda stessero cercando di infastidire me e i miei compagni. Caddi nella trappola e tirai un pugno. Fu un mio pessimo errore. L’anno scorso avevo il desiderio di giocare, ma dovetti restare a Los Angeles per essere sicuro di sentirmi al massimo delle forze per la stagione. Fu dura, perché le persone a casa pensavano che non volessi giocare, e mi presi molto odio addosso dai media. Eppure i media non sono la mia vita reale. La vita reale è andara in palestra ogni giorno e provare a migliorarsi.

Non parlo solamente di pallacanestro. Bramo la competizione, non importa cosa stia facendo. È lei che mi guida. Il secondo sport in cui sento di essere bravo è il ping pong, ed abbiamo un tavolo nelle nostre strutture. Sono il migliore fra i membri dei Clippers. Lawrence Frank, il presidente della squadra, è il secondo. È mancino, e i mancini sono difficili da battere. Gioco anche a golf, solitamente a Westchester o Penmar. Mi piace molto, ma non sono bravo. Come ogni altra cosa, però, voglio migliorarmi.

Ho avuto un sacco a che fare con gli infortuni. Quando sei nella NBA e non appari nella line-up, puoi sentirti invisibile. Non ho mai dubitato della mia abilità, però. Sono stati proprio gli infortuni a darmi un maggior apprezzamento per ogni giorno in cui mi sveglio, pronto a fare quello che amo.

 

 

Articolo tradotto con Nicolò Basso

Guarda i commenti

  • Sta facendo la sua miglior stagione da quando è in NBA, finalmente sta giocando con continuità e con grande intelligenza, il talento non è mai stato in discussione, è il giocatore italiano più forte di sempre.
    Ad inizio anno già era una sfida giocarsela per i play off e con la partenza di Harris sembrava un'impresa rimanere tra le prime otto ad ovest, eppure sono ancora lì.
    La sua prestazione nella vittoria contro i Thunder è un'altra gemma di questa stagione.
    I Clippers devono cercare assolutamente di arrivare settimi e giocarsela con Denver per provare a passare al secondo turno di playoff. Sarebbe un'impresa, ma sono una squadra ancora inesperta, non si sa mai. Meglio giocarsi un turno di playoff contro Denver che contro Oklahoma o Houston, o peggio contro Golden State.
    Forza Gallo!

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Pubblicato da
Andrea Capiluppi

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