Se la Terra fosse piatta, come sostengono impavidi atleti interessati ad avviare esprimenti sociologici dagli esiti incerti, nel terzo appuntamento con NBA Worldwide ci troveremmo a dissertare con ogni probabilità di giganteschi e vorticosi buchi neri
Senza richiamare strampalate teorie prive di qualsivoglia rilevanza accademica, in questa sede ci limiteremo all’analisi dell’universo cestistico australiano, altrettanto intrigante e variegato, seguendo l’impostazione che già conoscete.
SULLA MAPPA
Per cinque stagioni consecutive, dal 2013 al 2017, almeno un giocatore australiano di nascita e/o passaporto è arrivato, salvo sfortunate coincidenze e infortuni, a giocarsi l’anello di Campione sul palcoscenico delle NBA Finals, spendendo sul parquet ogni residuo di energia. La provocazione di Andrew Bogut, dopotutto, potrebbe aver dato un’idea.
A tal proposito, la rubrica desidera ringraziare sin da ora la prima chiamata assoluta al Draft 2005: il trentaquattrenne da Mulgrave, sobborgo di Melbourne, non poteva trovare tempismo migliore per scegliere di tornare in NBA in grande stile dopo l’esperienza conclusasi prematuramente con la maglia dei Sydney Kings nella National Basketball League. La squadra, che già aveva fiutato l’affare ai tempi del lockout — trattativa saltata in dirittura d’arrivo per un inghippo assicurativo —, ritroverà L’MVP stagionale e Difensore dell’Anno (già) al via della prossima annata sportiva.
Il rientro a Golden State, non previsto, ha sorpreso un po’ tutti. Al suo arrivo in Australia oramai un anno fa, Bogut aveva infatti confermato il proprio addio definitivo alla NBA :
“Prima che me lo chiediate: il contratto non prevede clausole d’uscita verso NBA o Europa. Ho intenzione di rimanere qui per due anni.”
Al suo ingresso nella lega da storica #1, Bogut venne naturalmente accostato — suo malgrado — a Luc Longley, primo nonché sino ad allora unico atleta australiano ad aver militato nella NBA.
L’approdo oltreoceano di quest’ultimo, quanto mai casuale, merita un approfondimento: nel 1986, il nativo di Melbourne fece drizzare le antenne ad alcuni osservatori giunti nel paese con l’obiettivo di visionare da vicino un altro coetaneo, tale Andrew Vlahov – finito undrafted nel 1991, il prodotto di Stanford ripiegherà sulla già citata NBL, vincendo il premio di rookie of the Year.
Andò meglio al predetto Longley che, portata a compimento la carriera universitaria, al termine della brillante stagione da senior a New Mexico, si dicharò eleggibile al Draft del 1991, dove venne selezionato con la 7ª chiamata assoluta dai Minnesota Timberwolves. Il primo impatto con la lega, tuttavia, non fu facile, come confermato dal diretto interessato in un pezzo d’archivio apparso su The Guardian:
“Fino ad allora avevo sempre giocato per divertimento e amore nei confronti della pallacanestro. Quando arrivai in NBA, gli atleti giocavano per guadagnarsi da vivere, per le carriere, le famiglie e le rispettive reputazioni. Si trattava di un livello d’intensità al quale non ero stato abituato e per qualche ragione ero ancora restio ad accettarlo.”
La svolta professionale giunse nel 1993-1994, quando, oltre la boa di regular-season, fu coinvolto in uno scambio che lo portò a Chicago, rimasta frattanto temporaneamente orfana di MJ. Il chiacchierato ritorno – con la #45 sulla schiena — annunciato da Jordan a 18 mesi di distanza attraverso un conciso ed efficace fax avrebbe dato avvio di lì a poco alla cavalcata da record 72-10 vittorie. Longley trovò nell’Illinois la propria dimensione, testimone privilegiato di una delle prestazioni collettive più memorabili in stagione singola nella storia dello sport.
Venne premiato nel 2012 in occasione di G’ Day USA Gala, che da anni dà risalto alla componente australiana negli States. Phil Jackson, che lo precedette sul palco, non perse occasione per tesserne le lodi. Lui, riservato di natura, reagì con compostezza:
“Se mi trovo qui è perché penso di essere stato un pioniere. Non facciamo finta che io sia stato un All-Star o un giocatore straordinario, ma certo un precursore sotto molti punti di vista. Non una stella, ma un role-player in una grande squadra”.
La definizione di cui sopra descrive al meglio la condizione di Patty Mills, orgoglio aborigeno che citiamo perché all’interno dell’ingranaggio perfetto dei San Antonio Spurs Campioni NBA nel 2014, manifesto d’eccellenza international.
SKILLS CHALLENGE
Come nel precedente episodio, introduciamo un’analisi d’insieme partendo dagli obiettivi strategici fissati ed esplicitati a livello federale da Basketball Australia nel piano programmatico 2016-2020 To Tokyo and Beyond. In tale arco temporale, il paese ha fatto leva su una sinergia tra istituzioni puntando a promuovere progetti coordinati efficacemente a livello nazionale.
Dopo aver ospitato in quel di Melbourne il Baskteball Without Borders Asia Camp per la prima volta nel giugno 2016, i vertici sono rimasti fedeli alla propria linea d’azione, giungendo a ottenere presto risultati notevoli. Nello specifico, va sottolineato l’accordo trilaterale sottoscritto nero su bianco nel maggio 2017 tra l’Australian Sport Commission (ASC), Basketball Australia e la NBA, che ha portato all’apertura di NBA Global Academy nella capitale, Canberra, punto nevralgico cui fanno capo le altre cinque strutture analoghe sparse in più continenti.
Un passo in avanti importante accolto con orgoglio da Anthony Moore, CEO della federazione:
“Il nostro Centro d’Eccellenza ha trascorsi illustri per quanto riguarda la formazione di atleti che possono competere a livello mondiale e siamo entuasiasti di poter condividere la nostra conoscenza ed esperienza con la NBA.”
La partnership di ampio respiro ha dato la possibilità di implementare i servizi del Centro d’Eccellenza nazionale attivo sin dal 1981 (CoE l’acronimo inglese), che mette ora a disposizione complessivamente 12 borse di studio così ripartite: cinque per giovani ragazzi australiani, le restanti sette per profili meritevoli su scala internazionale. Inoltre, sin dalla sua inaugurazione, la sede ospita la serie NBA Academy Games, partite d’esibizione dove si sfidano talenti da ogni parte del globo.
Sempre più stretta anche la collaborazione tra le due leghe professionistiche di riferimento sopra citate. Dal 2017, infatti un numero crescente di formazioni dal campionato australiano prende parte ad amichevoli oltre confine sfruttando la vasta componente Aussie in NBA, in campo e in panchina. Per ora si tratta di semplici esibizioni di pre-season, ma a sentire Larry Kestelman, capo NBL dal 2015 e oramai ex proprietario di maggioranza dei Melbourne United campioni in carica, gli scenari futuri sono molteplici:
“Sento i brividi sulla schiena se penso che ci stiamo relazionando con un soggetto affermato nel mondo della pallacanestro. Siamo pronti a giocare sul grande palco. Avremo partite NBA qui, non ho alcun dubbio a riguardo. Loro sono molto bravi a gestire il business e pianificano il da farsi con molto anticipo, questo è un primo passo.”
Un modello che si è cercato di emulare, ad esempio, sul piano economico quando, a inzio dicembre, ABP (Australian Basketball Players) e federazione hanno formalizzato l’intesa per la nascita di un accordo collettivo a tutela dei giocatori simile a quello in essere nella lega gestita da Adam Silver.
Per quanto riguarda l’attenzione ai giovani praticanti di ogni età, è bene ricordare l’impegno tangibile di Basketball Australia, che ha stanziato oltre 200 milioni di dollari di risorse per promuovere la pratica sportiva nel segno della partecipazione e dell’inclusione. Spicca in tal senso Aussie Hoops, programma introduttivo e di avvicinamento alla pallacanestro attivo nelle scuole del paese. Tramite apposita fondazione, l’organo incaricato ha messo a punto quattro differenti proposte rivolte sia alle selezioni nazionali (maschile e femminile), sia ai più piccoli.
Infine, non vanno dimenticate, tra le altre, l’iniziativa Next Stars varata dalla NBL e il progetto AAU in fase di studio nel quale è coinvolto in prima persona Ben Simmons con il patrocinio Nike, che andrebbe ad affiancarsi al già esistente Exum Élite: l’obiettivo, senza farne mistero, è quello di unirsi in futuro al circuito Nike EYBL.
WHO’S NEXT
Dopo la stagione da senior mandata in archivio a Sant Mary’s, con in bacheca il titolo di Giocatore dell’anno della West Coast Conference, Jock Landale era considerato dagli addetti ai lavori un outsider al 2° giro nel tabellone del Draft 2018. Non scelto, nonostante un numero considerevole di workout con più franchigie NBA, è ripartito dalla Summer League con la maglia di Atlanta. Consapevole di non essersi giocato al meglio le proprie carte e vedendo sfumare la possibilità di un two way contract, Landale ha scelto in estate di accasarsi in Europa, al Partizan Belgrado.
A oggi non rimpiange la rinuncia a tre offerte di contratto non guaranteed arrivate dalla NBA:
“Il sogno è ancora vivo. Ho pensato che un cambio di scenario che mi aiutasse a trovare fiducia nei miei mezzi non fosse una cattiva idea. Un contesto simile ha molto più senso per me come giocatore rispetto alla possibilità di starmene seduto in fondo a una panchina NBA per chissà quanto tempo.”
L’obiettivo personale resta a ogni modo quello di arrivare in NBA entro due anni
Più lineare, almeno apparentemente, il percorso che porterà ad Arizona il futuro freshman Wildcats Josh Green. Trasferitosi qui con la famiglia a 14 anni, Green ha frequentato i primi due anni all’high school prima di passare sotto l’egida della rinomata IMG Academy fondata da Nick Bolettieri. Nei mesi scorsi ha preso parte a tutti i principali appuntamenti per giovani promesse — da BWB NBA in quel di Los Angeles al Nike Hoop Summit, passando per il Global Camp di Treviso — destando ottime impressioni. Sean Miller, responsabile tecnico di Arizona, può guardare con fiducia alla prossima annata dopo aver mancato il pass per l’incipiente torneo NCAA per la prima volta negli ultimi 35 anni. Gli Wildcats potranno contare infatti anche su Nico Mannion.
Il pensiero del coah raccolto da 247Sports:
“Josh può giocare in entrambi gli spot di ala, il suo tiro si sta davvero sviluppando e, nonostante sia reduce da un intervento alla spalla, è sulla strada giusta. Lo dico perchè tutti gli altri elementi sono al posto giusto. Ha un’apertura alare di 186 cm e può diventare un eccellente difensore.”
Green non ha punti di riferimento, solo un chiaro traguardo in mente. Da ESPN:
“Non modello il mio gioco su qualcuno. Punto a essere me stesso. Adoro andare in transizione e segnare o fare giocate. È un gioco di squadra, mi piace coivolgere i miei compagni. Il mio obiettivo è rappresentare l’Australia e mostrare ai ragazzi che stanno crescendo che tutto è possibile.”