Non posso dimenticare la notte del 25 marzo 2011. Una data banale, un giorno come tanti altri giorni. Un giorno che per me, però, ha segnato il confine tra un “prima” e un “dopo” nella mia vita di tifoso e appassionato di basket.
È una notte tranquilla. Sono seduto sul divano con un pacchetto di Oreo poggiato accanto e i piedi sul tavolo quando:
“Ehi, ti va di vedere la partita di Miami?”
Il mio coinquilino, sprofondato sulla poltrona vicina col laptop poggiato sulle gambe, mi guarda speranzoso. Annuisco con fare distratto, e lui collega il computer alla tv. Le immagini sono un po’ sgranate, come sapevano essere prima del Full HD e del 4K. La partita è iniziata forse da un paio di minuti. In campo i Miami Heat, in divisa bianca, affrontano i Philadelphia 76ers.
“Il 6 è LeBron” dice il mio amico, indicando una montagna di muscoli sullo schermo. Nel momento in cui lo dice però, il centro dei 76ers – capello biondo platino e doppio zero sulla schiena – riceve un passaggio nel pitturato e tenta un gancio con la mano destra, ma una figura in maglia bianca si alza impietosa e lo stoppa. La giocata di per sé non è importantissima, ma vederla mi fa passare un brivido sulla pelle. Tiro giù i piedi dal tavolo e poggio le braccia sulle ginocchia mentre le telecamere vanno sul viso di Dwyane Wade. È lì che succede. L’anno 0.
Più di 8 anni dopo quel 25 marzo 2011 sono qui seduto di fronte al mio laptop, e le mie dita tamburellano sulla tastiera in modo quasi febbrile. Stanotte giocano i Miami Heat. In casa, proprio come quella volta. Contro i Phialdelphia 76ers, proprio come quella volta. Con Dwyane Wade… come quella volta. Ma quella volta era una delle tante. Una volta come un’altra. Stanotte è l’ultima volta.
#OneLastDance. Un ultimo ballo.
Non c’è una notte migliore di questa per raccontare la storia di Dwyane Wade, per riavvolgere il nastro e rivivere il suo viaggio. Non c’è una notte migliore di questa per ricordare, proprio mentre Dwyane danza sul parquet dell’American Airlines Arena per un’ultima volta.
Quando JoLinda diede alla luce Dwyane Tyrone Wade jr nessuno poteva immaginare dove l’avrebbe portato la vita. In quel periodo JoLinda sapeva solo che era dura: il South Side di Chicago non è esattamente il giardino dell’Eden, e quando Dwyane sr. ottenne il divorzio la situazione non fece che peggiorare. L’alcool e la droga divennero i compagni inseparabili di JoLinda, e i suoi figli dovettero affrontarne le conseguenze. Il giorno dell’ottavo compleanno di Dwyane sua sorella Tragil gli disse di preparare il suo zainetto. Il suo regalo sarebbe stato una giornata al cinema. E invece Tragil lo portò a casa di suo padre. Lo fece per dargli una possibilità, per portarlo via da quel mondo, per non lasciare che ne venisse risucchiato.
Dwyane sr. fu, a modo suo, la salvezza di suo figlio. Lo educò con disciplina, come solo un ex militare avrebbe potuto fare. Ma l’amore per la madre, anche se non era perfetta, non poteva certo essere cancellato. Dwyane andava a trovare JoLinda ogni volta che poteva, cercando di ignorare le condizioni pietose in cui si trovava. Poi però la famiglia si trasferì a Robbins, un piccolo villaggio tradizionalmente abitato da afroamericani 22 miglia a sud di Chicago. Dwyane si dedicò quasi completamente al basket, giocando ogni volta che poteva, ispirato dal fenomeno Jordan, che in quel periodo infiammava Chicago. Quando entrò alla Harold L. Richards High School di Oak Lawn Dwyane Wade aveva grandi piani per il suo futuro. Voleva diventare la star della squadra di basket, guidare la sua scuola alla vittora. Voleva essere come Mike. Ma non aveva fatto i conti con Demetrius McDaniel, il suo fratellastro. Era lui infatti la stella indiscussa della squadra di basket. Era già tutto quello che Dwyane voleva diventare. Così decise di allontanarsi dal basket, di praticare un’altro sport. La scelta cadde, ovviamente, sul football. Il coach intravide del potenziale in lui, e lo rese un ottimo wide reciever, ma c’era un pensiero continuo nella testa di Dwyane Wade, come un tarlo. C’era sempre quel parquet lucido, e l’idea meravigliosa di voler essere come Mike.
Nel suo anno da junior Dwyane Wade entrò finalmente nel varsity team. Il coach, Jake Fitgerald, capì immediatamente di aver tra le mani qualcosa di raro: Wade segnò 20.7 punti a partita quell’anno, catturando anche 7.6 rimbalzi, e l’anno successivo ne mise 27 con 11 rimbalzi, trascinando la squadra alla finale di stato. Assolutamente impressionante. Ma Dwyane aveva un punto debole: non gli piaceva la scuola. Il suo scarsissimo rendimento accademico gli costò caro quando le università cominciarono ad interessarsi a lui. Dwyane ricevette tre offerte di borsa di studio, da Marquette, Illinois State e DePaul, oltre a una borsa parziale, e finì per scegliere l’avventura: andò a Marquette, lasciandosi alle spalle Chicago per giocare alla corte di Tom Crean. Ma di nuovo il suo rendimento scolastico scadente lo influenzò. Al suo primo anno a Marquette infatti Dwyane venne sottoposto alla Proposition 48, la regola NCAA che impedisce ai giocatori con scarsi risultati accademici di partecipare alla competizione. Ma Crean trovò il modo di farlo crescere anche se non scendeva in campo. In ogni partita di Marquette il giovane Dwyane sedeva accanto al coach, che lo ammaestrava e gli spiegava come avrebbe potuto incastrarsi alla perfezione nei meccanismi della squadra. Giunto al suo anno da sophomore, Dwyane Wade dimostrò di aver assorbito tutti quegli insegnamenti.
Iniziò la stagione 2001-02, e con essa arrivò anche la chiamata di JoLinda. Lei gli disse che voleva cambiare, che aveva cominciato un programma di recupero. Gli chiese di andare da lei a Natale. E Dwyane accettò. Ma JoLinda non era ancora davvero pulita. L’approccio con la realtà colpì Dwyane come un pugno alla bocca dello stomaco. Decise di scaricare la sua frustrazione sul campo da basket, mettendo a referto 17.8 punti, 6.6 rimbalzi, 3.4 assist e 2.4 palle recuperate a partita nella sua prima stagione di collega basketball giocato. E l’anno successivo andò anche meglio, con Wade a trascinare Marquette al torneo NCAA con 21.5 punti di media. Al primo turno c’erano gli strafavoriti Kentucky Wildcats. I pronostrici davano gli uomini di Tom Crean già per spacciati. Dwyane Wade non condivideva. A fine partita il tabellino recitava 83-69 per Marquette. Wade aveva segnato 29 punti, servito 11 assist e catturato 11 rimbalzi. Era la quarta tripla doppia della storia del torneo NCAA. Il mondo del basket assistette attonito a un evento rarissimo: la nascita di una nuova stella nel firmamento. Quell’estate Dwyane Wade scelse di dichiararsi eleggibile per il Draft NBA del 2003. Wade aveva grandi speranze. Certo, sapeva che non sarebbe stato la prima scelta – c’era pur sempre LeBron James – e magari nemmeno la seconda vista la presenza di Carmelo Anthony. Non si aspettava sicuramente di vedersi davanti Darko Milicic, forse nemmeno Chris Bosh. Ma poi, con la quinta scelta di quel Draft 2003, arrivarono i Miami Heat:
Iniziò una storia d’amore più grande del basket, più grande di Wade, forse più grande persino di Miami stessa. Già alla prima stagione quel ragazzino del South Side di Chicago prese in mano la squadra, dimostrando di essere il leader che gli Heat cercavano. Gli Heat chiusero la regular season col record di 42-40 e riuscirono a eliminare i New Orleans Hornets in 7 gare al primo turno. Poi sul loro cammino trovarono gli Indiana Pacers di Reggie Miller. Wade guidò la squadra contro ogni pronostico, riuscendo persino a strappare due partite, ma in gara-6 fu costretto a capitolare. Ma la strada era appena cominciata. Nel 2004 Pat Riley consegnò a Dwyane Wade il perfetto scudiero di cui aveva bisogno: servì un pacchetto composto da Lamar Odom, Brian Grant, Caron Butler e una scelta al draft per convincere i Los Angeles Lakers a spedire a South Beach Shaquille O’Neal. La prima stagione fu la prova generale: Miami chiuse la regular season con un record di 59-23 e volò fino alle Conference Finals contro i campioni uscenti dei Detroit Pistons. Dwyane non stava affatto bene. Aveva la sinusite e un mal di testa terribile, ma sapeva di essere a quel punto della stagione in cui non poteva tirarsi indietro. In gara-2 segnò 40 punti, pareggiando la serie, e in gara-3 ne mise 36 per portare Miami in vantaggio. Detroit riuscì però a trascinare la contesa a gara-7, vincendola e andando a sfidare i San Antonio Spurs nelle Finals. A Miami serviva solo un ultimo passo. E nella stagione 2005-06 lo fecero. In estate arrivarono Gary Payton, Jason Williams, Antoine Walker e James Posey, e dopo 21 partite di regular season Pat Riley tornò in panchina allontanando Stan Van Gundy. La squadra cambiò marcia e raggiunse le 52 vittorie, guadagnandosi il primo turno dei playoff contro i Chicago Bulls. Wade ci arrivò acciaccato, e le cose peggiorarono quando, nel primo tempo di gara-5, cadde pesantemente sull’anca. Un suo rientro sembrava improbabile, ma Miami era sotto, e la serie in bilico sul 2-2. Nel secondo tempo rientrò, giocando sul dolore, segnando 15 punti e trascinando la squadra alla vittoria. Sull’onda dell’entusiasmo gli Heat spazzarono via i New Jersey Nets al secondo turno, e si presentarono di nuovo in Finale di Conference contro i Detroit Pistons. Wade dominò quella serie, trascinando Miami sul 3-2, ma arrivando a gara-6 con dei sintomi di influenza. Fu una partita difficile per lui. Segnò poco fino al quarto quarto, quando con una striscia di 8 punti consecutivi sigillò la vittoria degli Heat.
Le NBA Finals 2006 contro i Dallas Mavericks sono da tutti riconosciute come il momento più alto, a livello individuale, della carriera di Dwyane Wade. Ma non iniziarono bene. Miami perse gara-1 di 10 punti e gara-2 di 14, senza mai dare l’impressione di essere in partita. Dallas cominciò a pensare che il titolo era vicino. Cominciò a pianificare la parata per festeggiare. Dwyane Wade decise di fargli cambiare idea. In gara-3 Miami andò di nuovo sotto, e a metà dell’ultimo quarto erano a -13. In sei minuti il mondo cambiò. Wade segnò 15 punti in quella frazione, Miami infilò un parziale di 22-7 e vinse clamorosamente la partita. Flash chiuse a 42 punti e 13 rimbalzi. Ma soprattutto l’inerzia della serie cambiò bruscamente. In gara-4 servirono 36 punti per pareggiare la serie, poi il capolavoro, in gara-5: 43 punti, 4 rimbalzi e 4 assist, nella vittoria di misura per 101-100 all’overtime che portò Miami in vantaggio 3-2. Gara-6 fu la consacrazione. Wade mise 36 punti, 10 rimbalzi e 5 assist, e vinse praticamente da solo il suo primo titolo NBA.
Col trionfo però venne anche l’oscurità. Miami partì male nella stagione successiva, e proprio quando sembrava che stesse tornando a pieno regime, arrivò la mannaia. Il 1 febbraio 2007 Wade si lussò la spalla in uno scontro di gioco contro Shane Battier. Davanti a lui c’erano solo due strade: l’operazione, che lo avrebbe costretto a saltare la stagione, o la riabilitazione, che sarebbe servita a tornare in tempo per i playoff. L’amore vinse sulla testa e Dwyane Wade era già in campo 23 partite dopo l’infortunio più grave della sua carriera. Era una resurrezione. Ma nemmeno quello bastò a evitare che gli Heat fossero spazzati via dai Chicago Bulls al primo turno della postaseason. E l’oscurità aveva appena cominciato a calare. Wade andò sotto i ferri in quell’estate 2007, e per tutta la stagione successiva non fu al meglio, mentre Pat Riley epurò gli Heat da tutti i reduci del titolo 2006, persino da Shaq. A 21 partite dal termine della stagione Wade decise di comune accordo con la squadra – che aveva il peggior record della lega – di sottoporsi a un trattamento innovativo, l’OssaTron, per provare a risolvere i problemi del suo ginocchio sinistro. Fu la scelta giusta.
Nell’estate del 2008 infatti Wade riuscì a rimettersi in forma per le Olimpiadi, andando a prendersi l’oro con la nazionale USA, e iniziò la stagione in forma eccezionale. Nel 2008-09 Dwyane Wade fu, innegabilmente, una forza della natura. Le sue medie realizzative schizzarono alle stelle, fino alla straordinaria notte del 12 aprile 2009. Gli Heat ospitavano i New York Knicks, e in una partita eclatante Dwyane Wade mise a segno 55 punti:
Alla fine della stagione Wade fu il miglior marcatore della NBA con 30.2 punti di media. Numeri assurdi, che non bastarono però agli Heat per andare avanti nei playoff. E così Wade dovette tornare a lavoro per un nuovo anno. Per una nuova stagione. Per un nuovo sogno. Iniziò di nuovo alla grande, e il 10 novembre 2009 superò quota 10.000 punti in carriera. Bisognava festeggiare quel traguardo, e Dwyane scelse di farlo nella partita successiva, in questo modo:
Indescrivibile a parole, in qualsiasi lingua. Vinse anche il titolo di MVP dell’All-Star Game, e trascinò la squadra al primo turno dei playoff. Contro i Boston Celtics Miami ebbe poche speranze, ma Wade riuscì a brillare lo stesso: in gara-4 infatti mise a referto 46 punti, ossia il record di franchigia per punti segnati in una gara di playoff. Giunse l’estate 2010, e con essa il momento di rinnovare il contratto di Dwyane Wade. La città di Miami cercò il modo di dimostrare al giocatore quanto fosse fondamentale, quanto fosse importante per la comunità. Cercò un modo per dimostrare un’amore incondizionato e totale. E lo trovò: in giugno venne votato un provvedimento per ribattezzare per una intera settimana la Miami-Dade County come Miami-Wade County. Ci fu l’unanimità.
Ma la storia stava per cambiare di nuovo. Bastarono 8 secondi. 14 parole.
“I’ll take my talents to South Beach and I’ll join the Miami Heat“
Iniziava l’era dei Big Three. Dwyane Wade, LeBron James, Chris Bosh. Tutti uniti con la stessa maglia con l’obiettivo di fondare una dinastia.
Non tutto andò secondo i piani. Miami chiuse la prima stagione della nuova era con 58 vittorie, e arrivò alle Finals, di nuovo contro i Dallas Mavericks, in un rematch del 2006 che però ebbe un esito opposto. Dallas ne uscì vincitrice, Miami tra le polemiche dovette rimandare i piani trionfali all’anno successivo. La partenza degli Heat in regular season fu bruciante. La squadra ammassò vittorie, mentre Wade giocava ai suoi soliti livelli, incantando tutti. Poi arrivò l’All Star Game. Wade segnò 24 punti nella partita delle superstar, catturando anche 10 rimbalzi e servendo 10 assist. Era la terza tripla doppia della storia della manifestazione. Le altre due appartengono a Michael Jordan e a LeBron James. Wade continuò a salire di colpi nel corso della stagione, fino a gara-6 delle semifinali di Conference contro gli Indiana Pacers, quando segnò 41 punti e 10 rimbalzi. Miami dovette combattere contro i mai domi Boston Celtics di Paul Pierce in Finale di Conference, ma infine riuscì ad arrivare alle Finals contro gli Oklahoma City Thunder di Kevin Durant e Russell Westbrook. E finalmente i Big Three fecero ciò che erano arrivati per fare. Vinsero il titolo.
La missione diventava quella di ripetersi, ma Dwyane Wade non riuscì ad essere presente come sempre. Le ginocchia lo tormentavano, e dovette gestirsi durante la regular season per arrivare ai playoff in forma. La squadra però non si poggiava più solo sulle sue spalle, e Dwyane potè salire di colpi col tempo, per arrivare al massimo proprio nelle Finals contro i San Antonio Spurs, in gara-4, quando i suoi 32 punti e 6 palle recuperate garantirono la vittoria e il pareggio nella serie. E poi arrivò gara-6, lo spartiacque, il win-or-go-home per eccellenza. Una partita durissima, dalla quale Miami rischiò più volte di uscire. Ma quando il pallone venne consegnato a Mario Chalmers per quell’ultima azione dei tempi regolamentari successe qualcosa che non può essere spiegato, che deve essere affidato alle immagini, perché le parole, no, non bastano:
Miami vinse quel titolo in gara-7, ma qualcosa di quel ciclo sembrò finire. La missione three-peat si infranse sullo scoglio dei San Antonio Spurs in cerca di vendetta mentre Dwyane Wade viveva una stagione complicata dagli infortuni. I Big Three si sciolsero, LeBron James tornò a casa, e il suo addio devastò gli Heat, che persero anche Chris Bosh per via dei coaguli di sangue e mancarono la postseason per la seconda volta nella carriera di Wade. Nonostante le illazioni a fine stagione che lo volevano ai Lakers, o a Cleveland, Dwyane Wade rinnovò con Miami anche quella volta. Another year together. Fu una rinascita per gli Heat, che nonostante l’infortunio definitivo che fermò Chris Bosh riuscirono a tornare ai playoff, sconfiggendo gli Charlotte Hornets al primo turno proprio grazie a un Dwyane Wade monumentale, in grado di tacitare da solo un’intera arena. Miami venne fermata dai Toronto Raptors alle semifinali di Conference e si trovò nella condizione di dover decidere cosa fare del proprio futuro.
È qui che si pone il dramma. Dwyane Wade si sentì tradito per la prima volta dall’offerta che Pat Riley gli presentò. E per la prima volta pensò che Miami non fosse più casa sua. In quell’estate 2016 Dwyane Wade firmò un biennale da 25 milioni di dollari con i Chicago Bulls. Tornò a casa Dwyane Wade, ma come ogni Profeta, non fu del tutto ben accetto in patria. Dopo una sola stagione nella quale, comunque, assommò 18.3 punti e 4.5 rimbalzi, Wade venne tagliato dai Bulls e andò ad accasarsi ai Cleveland Cavaliers di LeBron James. Quel Dwyane Wade è stato forse la peggior versione di sé stesso da inizio carriera. Svagato e tossico nel sistema dei Cavs, incapace di replicare i fasti dell’epoca dei Big Three nonostante la presenza di LeBron, la leggenda vuole che andasse a controllare, anche durante le partite, i risultati degli Heat. Perché il cuore, alla fine, è più forte di tutto, e lo capirono anche i Cavs. E finalmente alla trade deadline del 2018 rimandarono Wade a casa sua, nella Wade County, a South Beach.
Nemmeno il ritorno del Messia riuscì a salvare l’ultima stagione degli Heat, e l’estate arrivò a instillare un nuovo dubbio. Continuare oppure no? Ritirarsi o regalarsi un’ultimo ballo? La risposta Dwyane Wade la diede a settembre:
Poteva essere un farewell tour insignificante, nel quale Dwyane Wade sarebbe sceso in campo solo a prendersi qualche applauso e a scambiare qualche maglia. Invece è diventata una cavalcata entusiasmante durante la quale il più grande giocatore della storia degli Heat ha dimostrato di saper ancora fare la differenza. Durante la quale la lega ha voluto omaggiarlo, convocando “d’ufficio” lui e Dirk Nowitzki all’All Star Game per un’ultimo grande scontro. Soprattutto è stata la stagione durante la quale Dwyane Wade ha regalato emozioni come questa:
Stanotte contro i Philadelphia 76ers, nella sua ultima partita all’American Airlines Arena, ha voluto salutare tutti i suoi fans, tutti noi, con la prestazione migliore che ci si potesse aspettare da lui. 30 punti, 3 rimbalzi, 3 assist che trascinano i Miami Heat alla vittoria, anche se non bastano per garantirsi l’ultima cavalcata playoff di una carriera irripetibile. E quel 3 che ricorre, come sulla sua canotta, ritornello di una carriera intera, di una leggenda, di un Hall of Famer.
E ringrazio ancora per quella notte di marzo di 8 anni fa, per aver visto quella stoppata su Spencer Hawes, una giocata come un’altra in una serata come un’altra. La giocata che mi ha portato nel magico mondo di Dwyane Wade.
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10 minuti di applausi!
Per me Wade, insieme a Paul Pierce, Scottie Pippen e Allen Iverson, è il più forte di sempre a non aver mai vinto un titolo MVP.