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Esclusiva NBA Religion: la nostra intervista a Riccardo Fois

Sardo di nascita, americano di adozione. Questa potrebbe essere la descrizione giusta per introdurre Riccardo Fois, 32 anni da Olbia ma che da 14 vive e lavora negli Stati Uniti.  Dopo la laurea (e la prima esperienza lavorativa) alla Pepperdine University, da 5 stagioni è nello staff di coach Mark Few a Gonzaga. A poco meno di due settimane dal Draft, lo abbiamo contattato per scoprire i prossimi talenti NBA ma anche per parlare di basket a 360º con un occhio di riguardo per quello NCAA.

 

La prima domanda è d’obbligo: come sei arrivato a fare l’assistente allenatore a Gonzaga?

Partiamo col dire che quando ero giovane ho giocato a basket (è stato compagno di squadra di Gigi Datome nel Santa Croce Olbia, ndr) ma quando ho capito che non ero bravo abbastanza per giocare al livello che desideravo, ho iniziato ad allenare. Ho avuto la fortuna di iniziare, come Graduate Assistant, a Pepperdine University che era l’università dove studiavo. Finiti i due anni da Graduate Assistant, ho ricevuto la chiamata di Gonzaga, più precisamente di Tommy Lloyd (assistente allenatore di coach Few), il quale mi disse che erano interessati a me. Doveva essere un’esperienza di un anno ma sono diventati cinque e spero ce ne saranno ancora.

 

Come assistente anche un’esperienza con coach Ettore Messina, in Nazionale, durante EuroBasket 2017: alla luce del suo mancato approdo ai Cleveland Cavaliers, pensi che ci sia ancora un po’ di diffidenza verso gli allenatori europei?

Negli ultimi anni, l’esperienza di Kokoskov a Phoenix ne è la prova, sia nel college che in NBA si sta iniziando a guardare ai coach stranieri con rispetto e grande curiosità. Gli americani stanno iniziando a capire che anche fuori dai loro confini c’è un grande mondo di pallacanestro che abbraccia, oltre all’Europa, anche Asia e Australia. D’altro canto è chiaro che, non in tutte le realtà, gli allenatori stranieri vengono presi in considerazione allo stesso modo. Un p0′ quello che succede da noi in Italia, nel calcio, con gli allenatori stranieri. Ci sono posti come San Antonio, Toronto e Utah (e Gonzaga in NCAA) dove gli allenatori europei vengono monitorati e dove si segue attentamente sia l’Eurolega che l’EuroCup e più in generale il basket internazionale. In definitiva, io non percepisco diffidenza verso l’allenatore europeo, percepisco un’incapacità e anche un po’ di paura nel mettere allenatori, ma anche giocatori, in un contesto a loro conosciuti. Ma ci arriveranno: il basket è da sempre un modo molto aperto e come sono arrivati giocatori e dirigenti stranieri, arriveranno anche gli allenatori.

 

Parlando sempre di allenatori, vorrei un tuo giudizio su John Beilein, che ha battuto appunto Messina nella corsa alla panchina dei Cavs.

Parto col dire che, in ottica panchina Cavs, facevo il tifo per Ettore ma nutro un profondo rispetto per coach Beilein. Un coach che ha fatto la gavetta “vera” prima di arrivare ai grandi palcoscenici. Ha infatti allenato tutti i livelli del basket americano: high-school, junior college, Division II, Division I e adesso NBA. È una grande mente cestistica e in questi anni ha ottenuto un successo straordinario. Sono curioso di vedere come si rapporterà al mondo NBA in una situazione come quella di Cleveland che non è facile da interpretare per un allenatore che ha sempre puntato a vincere. Dal di fuori, mi sembra che l’obiettivo di Cleveland sia quello di crescere e sviluppare i giocatori giovani per tornare a competere tra qualche anno. Ed è vero che è sempre stato bravo nel crescere i giocatori, ma lo ha fatto vincendo che è un po’ diverso dal farlo in un’annata dove le vittorie non saranno troppe.

 

Tornando agli Zags: qual è il vostro segreto per competere con i grandi atenei della nazione? Mi viene in mente l’attenzione verso gli internationals….

Un segreto, non tanto segreto, è coach Few. Quando il leader, la guida tecnica della squadra, è un Hall of Famer, parti già col piede giusto. È riuscito a creare una cultura vincente, ricca di valori e lo ha fatto in un ambiente familiare. Questo, soprattutto al college, fa tutta la differenza del mondo. L’altro segreto sta nella qualità dello staff. Uno staff di primissimo livello, a partire da Tommy Lloyd, fatto da grandi menti di basket, per niente gelosi delle proprie idee, e grandi recruiter. E poi come giustamente dicevi l’attenzione verso il basket internazionale. A Gonzaga abbiamo costruito una sorta di mercato di nicchia rivolto agli internationals: li seguiamo nei loro paesi e una volta che arrivano da noi sappiamo come farli sentire a casa.

 

Possiamo dire che siete un po’ la San Antonio del College Basket….

Direi proprio di si! Come gli Spurs anche noi non siamo un Big Market e come loro, conosciamo perfettamente le situazioni e i contesti in cui giocano i giocatori non americani che seguiamo. Prendiamo il caso dei giocatori europei che sono passati da Spokane: per noi è fondamentale che abbiano successo perché, non avendo le stesse risorse di Duke o Kentucky, ci aiuteranno a convincere quelli dopo di loro.

 

Tra meno di due settimane andrà di scena il Draft e gli Zags saranno rappresentati da Rui Hachimura e Brandon Clarke: quali sono le loro caratteristiche principali e dove li vedresti bene tra le squadre NBA?

Non ti dico i nomi delle squadre perché forse ne so un po’ troppo (ride…) spero, e sono abbastanza sicuro, però che finiscano in due squadre con un piano, con una cultura riguardante la crescita dei giocatori di un certo livello. Spesso molte squadre NBA si fanno attrarre da certi giocatori che poi si rivelano bust pazzeschi non solo per colpa loro ma perché vengono abbandonati al loro destino. Riguardo le caratteristiche…di Hachimura online c’è tantissimo e non c’è bisogno che stia qui ad elencare i suoi pregi. Mi limito a parlare della sua storia che è proprio una bella storia di basket. È arrivato da noi con l’etichetta di LeBron del Giappone e al termine del primo anno era il decimo/undicesimo miglior giocatore del nostro roster. Ha combattuto per scalare le gerarchie e ha finito questa stagione da quinto/sesto miglior giocatore della Divison I. La stessa voglia di emergere che ha avuto Clarke, sebbene le due storie siano diverse. Brandon infatti è il classico late bloomer ai tempi del liceo. Ha iniziato il college a San Josè State (non proprio un ateneo con tradizione) e dopo un anno da red shirt qui da noi, si è ritrovato a dover gestire un successo e un’attenzione mediatica improvvisa. Diversamente da Rui, nel suo caso stiamo proprio parlando di un giocatore ancora da sgrezzare e quindi è ancora più importante che finisca in un contesto che sappia capirlo e che lo aiuti a crescere. Non ho dubbi però che ovunque vadano si faranno apprezzare perché sono bravi ragazzi, con voglia di migliorarsi e con una mentalità vincente e positiva.

 

Rimanendo in argomento: che Draft ci aspetta il prossimo 20 giugno e, tolte le prime tre scelte che sembrano sicure, quali sono i giocatori a tuo giudizio più interessanti? 

Parto dicendo che secondo me sarà un Draft molto più equilibrato rispetto alla percezione che ha la gente. Concordo che le prime tre scelte sono già scritte ma non è detto che la carriera NBA di Zion Williamson sarà migliore di quella di Jarrett Culver o Coby White per fare due nomi. Io vedo molti giocatori sullo stesso piano e secondo me è uno dei Draft più profondi, nelle prime 20 posizioni, tra quelli che abbiamo visto negli ultimi anni. Tra i giocatori poco reclamizzati ma che a me hanno fatto una grande impressione cito Cameron Johnson di North Carolina e Darius Garland di Vanderbilt.

 

Davide Moretti e Nico Mannion, due alfieri del nostro basket che si stanno imponendo negli Stati Uniti: un tuo commento su entrambi?

Conosco Davide da molti anni e ci ho parlato molto nel periodo che ha preceduto il suo arrivo negli Stati Uniti. È un bravissimo ragazzo (anche se alle Elite Eight dell’ultimo Torneo ci ha ammazzato) che ha fatto una scelta difficile e molto coraggiosa perché lasciare una piazza come Treviso per ripartire da zero, in un contesto sconosciuto, è da apprezzare. Ha avuto delle difficoltà iniziali perché il primo anno non giocava molto ma ha combattuto, è diventato un pezzo importante in questa stagione e il prossimo anno tornerà al college per affermarsi come stella. Mannion lo conosco meno dal punto di vista personale ma in campo è un giocatore super. È un po’ presto, vista la giovanissima età, riuscire a dire che tipo di giocatore NBA sarà ma il solo fatto che tutti diano per scontato che lo diventerà è già significativo. È chiaro che ci sono mille fattori che possono determinare il suo futuro ma quando vedi quello che fa in campo, è veramente difficile non immaginarsi orizzonti più che rosei. Auguro ad entrambi di diventare, per molti anni, due dei leader della prossima Nazionale.

A nome di tutta la redazione di NbaReligion.com, un caloroso ringraziamento a Riccardo per la gentilezza e per la grande disponibilità concessaci

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Pubblicato da
Gherardo Dardanelli

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