Disclosure iniziale sostanzialmente obbligatoria: l’autore di questo pezzo (io) è tifoso degli Oklahoma City Thunder. Adesso possiamo cominciare.
Russell Westbrook non sarebbe stato ancora un giocatore dei Thunder a inizio stagione. Lo sapeva lui, nel momento in cui Paul George ha chiesto di essere scambiato poco più di una settimana fa, come lo sapeva Sam Presti, lo stato dell’Oklahoma e tutto l’universo NBA.
Di fronte alla richiesta del partner principale di lasciare la squadra, Westbrook ha capito che le cartucce di questo ciclo dei Thunder si erano esaurite, e che per provare a mettersi un anello al dito avrebbe dovuto fare una scelta a cui probabilmente non era mai stato neanche vicino per tutta la carriera.
La ricostruzione dei fatti, possibile grazie ai report di Adrian Wojnarowski e Royce Young di ESPN, dice che Westbrook abbia contatto Presti pochissime ore dopo la trade che ha portato Paul George ai Clippers (e il più grande pacchetto di prime scelte mai scambiato a OKC), che per la prima volta da quando l’ex UCLA è in squadra ha cominciato a discutere con il suo agente degli eventuali ‘next steps’.
Le squadre a cui Westbrook è stato accostato nell’immediato sono state sostanzialmente tre: Minnesota Timberwolves, Miami Heat e Houston Rockets.
Per quanto riguarda i primi, visto l’accumulo di talento giovane (anche se grezzo) e possibili scelte in lottery in arrivo, si sarebbe trattato più di un approccio da parte di OKC che di un tentativo dei Wolves, che già lo scorso anno si sono accorti di quanto la presenza di una star ball dominant e dal carattere difficile possa avere effetti catastrofici su Karl-Anthony Towns – la sostanzialmente unica speranza di Minnie di tornare ‘di moda’ più velocemente possibile.
I Miami Heat avrebbero avuto un interessante pacchetto di giovani da offrire (Tyler Herro, Bam Adebayo, Justise Winslow), ma i problemi finanziari per equilibrare i salari e la riluttanza di OKC a migliorare una squadra di cui possiede una prima scelta di grande valore non hanno mai fatto decollare la trattativa, per la quale sempre secondo Young ci sarebbe stato molto, molto da lavorare.
Gli Houston Rockets erano la destinazione con più senso per due motivi: primo, la filosofia del loro General Manager, Daryl Morey, è sempre stata quella di accumulare il più alto numero di stelle possibile, pensando in seguito alla possibile chimica in campo o al riempimento del poster con role players di valore (e in un NBA in cui lo star power sembra contare davvero più di ogni altra cosa, dargli torto è difficile); secondo, nelle ultime ore è stato riportato di come Houston fosse effettivamente la destinazione più gradita a Westbrook, che oltre a riunirsi con un ex compagno e amico fuori dal campo come James Harden avrebbe avuto la possibilità di finire in una squadra pronta per lottare subito per il titolo.
Da qui, l’accordo andato in porto nella notte italiana:
La prima reazione deve per forza di cose essere una e una sola: HOLY MOTHER OF GOD.
Come ne escono i Thunder
In meno di due settimane OKC è passata da essere uno dei roster più costosi dello sport mondiale, con due stelle nel prime ma anche incapace di arrivare davvero fino in fondo e quindi ostaggio di se stessa, ad arrivare a una piccola mossa di distanza dal poter evitare la tassa di lusso e avere un pacchetto di asset da poter far mettere al tavolino ad ascoltare sostanzialmente chiunque, e per qualsiasi giocatore.
Il piano di Presti a questo punto è più chiaro che mai.
Dopo aver accontentato Paul George e averlo spedito a Los Angeles in quella che da alcuni GM è stata definita da Wojnarowski come “una delle 2-3 migliori trade della storia della lega”, e aver spedito Jerami Grant e il suo contratto da rinnovare nel 2020 ai Nuggets (aggiunta di valore passata troppo sotto traccia) per un’ulteriore prima scelta, il GM scuola Spurs ha implementato l’opera di Tabula Rasa facendo partire anche Westbrook e il suo mastodontico contratto, il più economicamente importante di tutta la NBA in questo momento.
Le intenzioni sono chiare, come detto, meno chiare sono le modalità con le quali OKC arriverà al proprio obiettivo di totale rebuilding.
Chris Paul con ogni probabilità non comincerà la stagione con i Thunder, con totale certezza non sarà nel loro libro paga tra 12 mesi, visto che né OKC ha interesse a pagare gli oltre 100 milioni dovuti a CP3 nelle prossime 3 stagioni, né la point guard stessa avrà voglia di passare gli ultimi anni della carriera in una situazione di rebuilding e votata ad accumulo di asset e sviluppo dei giovani.
Mettendo anche da parte Chris Paul e i creativi modi in cui lui e i Thunder cercheranno di salutarsi, i piani di Presti restano comunque soggetti a più di una teoria, perché se è vero che OKC possiede 8 prime scelte da qui al 2026 (O T T O), varie possibilità di swaps e ulteriori prime scelte (in lottery) che arriveranno per forza di cose dai record delle prossime stagioni, è anche vero che una collezione di asset del genere darà la possibilità a Presti, se vorrà, di provare a portare star già conclamate in squadra – il primo nome disponibile è ovviamente quello di Bradley Beal – convincendole del prossimo arrivo di ulteriori tra le free agency 2020 (meh) e 2021 (meglio).
Con discorsi del genere, comunque, si rischia di sconfinare nell’universo del fantabasket, anche e sopratutto considerando che Oklahoma City, asset o non asset, futuro roseo o nero, non sarà mai una destinazione gradita per i free agent, specie nell’NBA moderna (le due più grandi vincitrici della free agency 2019 giocano a New York e Los Angeles, e l’unica volta in cui un free agent di valore ha deciso di rifiramare a OKC, il sogno è durato appena 12 mesi).
Le mosse a disposizione dei Thunder adesso sono tante, dall’investire solo ed esclusivamente sui giovani e le scelte a disposizione, a, come detto, andare alla ricerca di nuove stelle da collezionare grazie all’incera di asset fatta negli ultimi giorni (senza scordarsi di Danilo Gallinari, in arrivo dalla miglior stagione della carriera e che potrebbe fare al caso di molte contender in rampa di lancio).
Come ne escono i Rockets
Come detto, il piano di Daryl Morey è sempre stato quello di accumulare più star power possibile, mettendo in secondo piano quantomeno in ordine temporale il completamento del resto del roster.
In una free agency che passerà alla storia come forse la più ‘sconvolgente’ della storia recente della lega, in cui un numero mai visto prima di all star ha cambiato maglia spostando in maniera macroscopica gli equilibri della lega, avere a disposizione il maggior numero di super star è verosimilmente la miglior ricetta per rientrare di diritto nel novero delle squadre in grado di puntare al titolo NBA.
Detto questo, come potrà inserirsi Russell Westbrook all’interno dell’ecosistema Houston Rockets?
Cercando di andare oltre al più classico dei commenti “la palla è solo una”, si possono trovare dei punti nel gioco dell’MVP 2017 che potrebbero realisticamente combaciare con le caratteristiche di James Harden e il roster dei Texani.
Un’obiezione ragionevole è che Chris Paul fosse un giocatore sia più efficiente di Westbrook al tiro, sia più funzionale per giocare con Harden vista la possibilità di colpire con pericolosità dal perimetro, settore in cui RW0 non ha raccolto esattamente buoni risultati nel 2018-19.
Non serve però navigare troppo su NBAstats.com o BasketballReference per capire che gli Houston Rockets siano una squadra che punti tutto sull’efficienza nella metà campo offensiva, prediligendo il tiro da 3 e le conclusioni al ferro secondo i dettami della Moreyball.
Altra cosa che salta facilmente all’occhio è che, sopratutto con l’avanzare dell’età, Chris Paul sia diventato un giocatore sempre meno incline a entrare in area, complice la potenza muscolare mai decisiva e la rapidità di primo passo calante col passare delle stagioni. In una squadra con tanta capacità di allargare il campo sia grazie agli isolamenti di James Harden che a 2-3 tiratori sempre presenti in campo, l’unico giocatore sempre pronto ad approfittare dello spazio creato in area è stato Clint Capela, che ha sofferto però grandi problemi in entrambe le metà campo ai playoff, sopratutto nella serie di questa stagione contro Golden State.
Russell Westbrook, allo stesso tempo, è un tipo di guardia alla quale basta pochissimo spazio per bruciare l’avversario diretto col primo passo e arrivare con potenza e velocità al ferro, e anche scollinati i 30 anni resterà ancora per qualche stagione in grado di concludere con altissime percentuali nella restricted area (nel 2016-17, l’anno da MVP, ha fatto registrare il miglior dato della carriera con il 63%).
Mike D’Antoni e il suo staff dovranno fare un grande lavoro fra training camp e primi mesi di regular season per equilibrare i momenti vicino e lontano dalla palla di Westbrook e Harden, e l’ex OKC (ah già, lo sono entrambi. Vabè, Westbrook) dovrà per la prima volta in carriera abituarsi a risultare utile anche off the ball, se non da tiratore quantomeno da tagliante verso il ferro, arma mai utilizzata molto ma potenzialmente pericolosissima e che varrà la pena di esplorare, ora che accanto Westbrook avrà un passatore del livello di James Harden.
TheBrodie non è con ogni probabilità il fit ideale per una squadra come i Rockets, dei problemi verranno fuori per forza di cose e i tempi di adattamento per due guardie così tanto ball dominant potrebbero non essere brevi; quel che è certo, però, è che Houston si è data una nuova possibilità, e sopratutto una novità, in un momento in cui le possibilità del roster sembravano davvero arrivate all’esaurimento, e il ceiling incontrato nelle ultime due stagioni sembrava diventato insuperabile.
Come detto, la free agency 2019 è stata letteralmente sconvolgente, e mai come nella prossima stagione la caccia al titolo sarà apertissima, con tante squadre pronte ad arrivare fino in fondo dopo i rinforzi estivi e la dinastìa degli Hampton’s Five di Golden State giunta definitivamente al termine.
I Rockets rischiavano di restare l’unica senza sedia fra le contender rinforzatesi in estate. Con Russell Westbrook, un posto a tavola se lo sono guadagnato di diritto.
Come ne esce Chris Paul
CP3 è inevitabilmente la principale vittima della trade.
Arrivato a Houston poco meno di due anni fa in uno scambio che aveva visto i Rockets spostare quasi metà del proprio roster per averlo, Paul si trovava con Harden nella miglior situazione della carriera (fino a questo momento) per consacrare con un titolo NBA una carriera che lo vedrà comunque nella Hall of Fame nel giro di qualche anno.
Se nel 2017-18 tra i Rockets e il titolo (o quantomeno le Finals) si sono messi un infortunio proprio di CP3 e una striscia di 27 triple sbagliate consecutive all’interno di gara 6, in questa stagione l’ostacolo principale – seppur non il solo – che ha impedito a Houston di superare gli Warriors è stato il primo grande calo fisico incontrato da Paul in carriera, in evidente difficoltà quando il livello si è alzato in postseason e incapace di avere lo stesso impatto che lo scorso anno lo aveva reso forse il miglior giocatore dei suoi nella serie contro Golden State.
Il giorno dopo l’uscita dei Rockets contro Golden State al secondo turno degli ultimi playoff avevo scritto di come sia Morey che lo stesso Paul si trovassero di fronte a interrogativi importanti, dovendo capire quale fosse per entrambi la strada migliore da prendere nella rispettiva ricerca di un anello.
Capire quale sarà il prossimo passo nella carriera di The PointGod non è facile, e anche se il suo futuro sarà più che presumibilmente lontano da OKC, i Thunder dovranno essere creativi nel disfarsi del suo contratto senza attraversare un bagno di sangue finanziario, proprio nel momento in cui per la prima volta da anni stanno riuscendo a evitare la tassa di lusso.
Quel che è certo, è che Chris Paul è stato messo da parte dalla miglior situazione che la carriera gli aveva presentato per provare a vincere un titolo, e sebbene siano già cominciate le speculazioni sulla possibilità di una sua unione a LeBron James e i Los Angeles Lakers, non è scontato che l’ex NOLA e Clippers potrà avere un tentativo migliore per non passare alla storia come uno dei più grandi giocatori di sempre a non esser mai stato campione NBA.