Dopo un’estate vissuta sulle montagne russe, la Pacific Division è, senza alcun dubbio, emersa nel panorma NBA come la Division da tenere d’occhio con maggiore attenzione nella regular season 2019-20.
Quale altro raggruppamento può dire di aver al contempo guadagnato così tanto star power e così tanto hype? Nessuna ovviamente. Nella Pacific Division sono approdati tre dei migliori giocatori del mondo e il secondo classificato nella corsa al titolo di MIP dello scorso anno, Kevin Durant ha lasciato la Baia, le due metà di Los Angeles hanno messo in piedi mercati faraonici e fatto versare fiumi di inchiostro mentre i due “fanalini di coda” Sacramento Kings e Phoenix Suns hanno mostrato di voler sgomitare per migliorare la loro posizione all’interno della lega. Insomma, la Division ci appare, già dopo uno sguardo superficiale, come un enorme pentolone ribollente di temi.
Tutto ciò senza considerare che i Golden State Warriors restano comunque una squadra capace di centrare ben cinque finali NBA consecutive e che i Lakers sono, da sempre, la squadra più glamour e chiacchierata della lega.
Proprio per questo è necessario approfondire la situazione di ciascuna franchigia impegnata nella Division, a partire dallo status dei tre volte campioni negli ultimi cinque anni.
Golden State Warriors
La stagione 2019-20 segnerà, per i Golden State Warriors, l’inizio della terza fase della loro evoluzione sotto la guida di Steve Kerr: dopo aver vissuto l’esplosione degli Splash Brothers e l’arrivo di Kevin Durant, la squadra della baia è pronta a evolvere nuovamente, mostrandoci nuove sfumature del talento di interpreti che, fino a questo momento, ci è sempre sembrato di conoscere alla perfezione.
A segnare pesantemente il nuovo corso dei californiani ci saranno fattori determinanti come l’addio di autentiche colonne portanti del loro recente passato come Durant, Andre Iguodala e Shaun Livingston; come l’infortunio di Klay Thompson e come l’arrivo di un giocatore che sembra diametralmente opposto all’idea di pallacanestro proposta da Steve Kerr negli ultimi anni: D’Angelo Russell. A tutto ciò, inoltre, si somma l’addio a Oakland e alla Oracle Arena e l’inizio della nuova era Dub nel Chase Center, la nuovissima e futuristica arena degli Warriors, costruita a San Francisco.
Insomma, tutto sembra poter cambiare per Golden State. Eppure, quanto realmente può essere incerto il futuro di una squadra che vanta tra le proprie fila un due volte MVP come Steph Curry, un ex All-NBA ed ex difensore dell’anno come Draymond Green e una delle giovani stelle emergenti di questa lega, D’Angelo Russell?
La dirigenza guidata da Bob Myers ha provato a diradare tutti i dubbi sulla reale competitività di questa squadra riuscendo a ottenere l’ex guardia dei Nets nella sign-and-trade che ha visto Durant firmare con i Nets, pescando un jolly a costo-zero come Willie Cauley-Stein, riuscendo a confermare a cifre abbordabili Kevon Looney e, soprattutto, rinnovando Draymond Green alla prima occasione buona . Insomma, non solo novità ma anche tanta continuità in questi Warriors che, comunque, gioco-forza, dovranno modificare il loro assetto tattico per massimizzare l’arrivo di Russell.
L’impressione è che, da un lato, l’ex Nets e Lakers dovrà abituarsi a giocare molto più spesso off-the-ball ma che, dall’altro, Golden State vedrà l’incidenza del pick-and-roll aumentare sensibilmente nell’economia del proprio attacco. Da questo punto di vista, comunque, la coppia di centri composta da Looney e Cauley-Stein fornisce sensibili garanzie rispetto allo sfortunatissimo Cousins visto nell’ultima stagione, ad Andrew Bogut o a Damian Jones.
Dalla capacità di Russell di funzionare in coppia con Curry -un fit tutt’altro che scontato, soprattutto difensivamente- dipenderà grossa parte della stagione di Golden State che potrebbe anche decidere di scambiare nuovamente il proprio numero 0, che resta un asset appetibilissimo, qualora l’esperimento dovesse non funzionare.
Un’aggiunta intrigante e complessa da inserire nel sistema di Golden State: ci sarà tantissimo da lavorare per coach Steve Kerr.
A prescindere dall’equilibrio del back-court, il roster a disposizione di coach Kerr dispone di poca qualità marginale, visto che spesso vedremo partire in quintetto Alfonzo McKinnie o Glenn Robinson III nello spot di small forward e che per allungare un po’ la rotazione potrebbe esserci bisogno di testare Jacob Evans, Eric Paschall, Jordan Poole o Omari Spellman, scommesse che gli Warriors hanno effettuato negli ultimi draft o raccattato in free-agency.
Fino al ritorno di Klay Thompson, previsto per l’inizio della prossima primavera, Golden State dovrà mostrarci tutta la propria flessibilità tecnico tattica: a Draymond Green sarà richiesto tutto il suo talento di glue-guy e, perchè no, Steph Curry potrebbe tornare in versione MVP per larghi tratti della stagione.
Il primo posto nella Division non è più cosa scontata, anzi, con la crescita esponenziale delle due metà di Los Angeles potrebbe essere anche piuttosto lontano. I dubbi sul futuro sono tanti, ma non manca una certezza: anche all’inizio della terza fase della loro esperienza sotto la guida di Steve Kerr, i Golden State Warriors restano una squadra temibilissima e non smetteranno di farci divertire.