Primo Piano

Kyle Korver, l’arte di vivere dall’arco

La missione di Kyle Korver è ben delineata: vincere un titolo NBA prima di ritirarsi, mettendo a disposizione della squadra le proprie qualità di specialista al tiro da tre punti.

Dopo il tentativo andato a vuoto con i Cleveland Cavaliers, cercherà di farlo con i Milwaukee Bucks, in quello che potrebbe essere l’ultimo anno di una carriera che dura da sedici stagioni. E Korver, il 7 marzo 2020, di anni ne compirà trentanove. Mike Budenholzer lo ha già allenato ad Atlanta, facendone uno dei cardini del suo sistema di gioco, fortemente improntato su spirito collaborativo e circolazione di palla. Ora, la versione che coach Bud ha installato a Milwaukee si presenta ideale per allargare il campo e creare, con le penetrazioni di Giannis Antetokounmpo e l’area lasciata libera, continue opportunità di colpire dall’arco, in una squadra che tira tantissimo da tre ma che ha concluso la stagione 2018-19 al quindicesimo posto in NBA per percentuale.

Giannis to Kyle: 3 punti.

Kyle Korver non è uno specialista qualsiasi: stando ai dati aggiornati al 2019, è il quarto di sempre in NBA per numero di triple realizzate (2351) dietro a Ray Allen, Reggie Miller e Stephen Curry; ha una media carriera del 42,9% (nona all time) e del 39,1% nei playoff; detiene la miglior percentuale mai registrata in una singola regular season (53,6% nel 2006-07 con gli Utah Jazz) e per quattro volte la sua è stata la più alta dell’intera lega; ha una career true shooting percentage del 60,1%.

Tuttavia è riduttivo e limitante ridurre alle sole statistiche, tradizionali o avanzate che siano, il percorso sportivo e umano di un giocatore che ha fatto del tiro da tre uno stile di vita, una vera e propria arte degna di essere tutelata e tramandata, in un basket che cambia alla velocità della luce. Forse nessuno come Kyle Korver ha reso la zona immediatamente al di là della linea dei 7,25 il proprio ufficio personale. Forse nessuno meglio di lui, a parte alcune superstar come Steph Curry o Klay Thompson, conosce i segreti di quella danza contemporanea fatta di movimenti rapidi in spazi stretti, uscite a ricciolo sui blocchi, brevi e repentini scatti off the ball, passi avanti, indietro e laterali, riposizionamenti a orologio, letture del gioco, hand off. Tutti gesti la cui perfetta esecuzione è finalizzata a creare quel minimo di distanza dal difensore e di spazio necessari a rilasciare il rapidissimo tiro da fuori, sia in catch-and-shoot sia in pull-up.

Il tiro da tre, la rivoluzione

Niente come il tiro da tre punti ha rivoluzionato il gioco del basket. La tripla, la bomba, from downtown: in qualsiasi modo lo si chiami, ha cambiato tutto. Dopo qualche sperimentazione a livello universitario e in ABA, è stato introdotto nel 1979 in NBA e cinque anni più tardi in ambito FIBA. Sui campi da basket di tutto il mondo sono comparsi i due archi magici: il tiro da tre non solo ha avuto un’enorme influenza sul modo di giocare, ma è stato capace di cambiare radicalmente la percezione stessa del basket. Tanto che rivedere oggi una partita d’epoca, con il campo privo della linea dei 7,25 (o dei 6,75), genera un certo disagio, una sensazione di incompletezza. Un canestro dalla lunga distanza sa infiammare il pubblico in misura di gran lunga maggiore di ogni altro tipo di realizzazione. Probabilmente soltanto le più spettacolari schiacciate fanno elevare il livello dei decibel alla stessa maniera. Segnare canestri da tre punti, inoltre, “uccide” psicologicamente l’avversario, lo demoralizza, lo ricaccia indietro quando sta tentando una rimonta oppure lo affossa definitivamente durante una partita incerta.

Nella NBA di oggi, almeno fino a quando non si verificherà la prossima evoluzione, il tiro da tre è una soluzione centrale e fondamentale nel gioco, anche per e centri. Nel periodo che va dalla sua introduzione fino al definitivo avvento della concezione odierna di basket, tirare da tre era considerato invece una soluzione secondaria, spesso affidata a specialisti che entravano per brevi frangenti, tiratori di striscia in grado di dare una sterzata alla partita. Saper tirare da tre, oggi, è richiesto praticamente a tutti, dalle point guard fino ai centri, o almeno a certi tipi di centro.

 

In tutto questo, il bello di Kyle Korver è che sta inseguendo il suo primo anello rimanendo sempre se stesso: un tiratore puro, ormai non più titolare ma in uscita dalla panchina. E dai blocchi. Uno degli ultimi veri rappresentanti di una specie ormai mimetizzata in una popolazione in gran parte dedita al tiro da tre. In ogni caso, quella che adesso è la prevalente tendenza di gioco può favorire e aprire nuovi e ulteriori spazi e possibilità anche a chi è eminentemente un tiratore da tre e che già lo era prima, quando non tutti potevano definirsi tali. Soprattutto in un sistema come quello di coach Budenholzer ai Bucks, con l’area vuota e il perimetro disseminato di cecchini.

Kyle Korver è stato capace di mantenere la propria efficienza attraverso tutta la carriera. Ha iniziato al fianco di Allen Iverson a Philadelphia ed è presumibile che finirà da compagno dell’unicorno Giannis e di un lungo come Brook Lopez che da pivot classico si è trasformato in tiratore esterno. Korver ha saputo mantenersi sempre funzionale, ma lui per primo è pienamente consapevole che, avanzando l’età, minutaggio e cifre statistiche si sono fisiologicamente abbassate e che la carriera è agli sgoccioli. Quindi è ora di cogliere l’attimo.

“Tira per fare canestro”

Don’t just shoot it to shoot it. Shoot it to make it”, non tirare tanto per tirare, tira per fare canestro. È la frase motivazionale che Kyle Korver, invitato dalla sua alma mater Creighton University, in Nebraska, in occasione della cerimonia delle lauree 2019 (lui stesso ne ha ricevuta una honoris causa in lettere umane, da aggiungere a quella in visual communications conseguita sedici anni prima), ha rivolto agli studenti in apertura e chiusura del suo discorso.

Un intervento emozionante e sincero, che partendo dal gesto più basilare e genuino del basket, il tiro e la sua meccanica dei cui segreti Korver può dirsi pieno depositario, si è esteso ad alcuni dei più importanti aspetti della società di oggi, della vita reale, quella che scorre incessante al di fuori del rettangolo di parquet. Un mondo che cambia come il paesaggio dai finestrini di un treno in corsa, e sta a noi salire su quel treno, arrivando magari a guidarlo, o limitarsi a guardarlo passare. Una società che, in America come altrove, deve tuttora fare i conti con disuguaglianze, diritti negati, razzismo.

 

Ecco, sulla questione razziale Kyle Korver, in un pezzo pubblicato su The Players’ Tribune, ha detto una delle cose più umili e intelligenti mai pronunciate in materia: che i privilegi chiamano alla responsabilità. Non i privilegi che una persona si è guadagnata lavorando duro, ma quelli sistemici di cui una minoranza del mondo, come lo stesso Kyle, cresciuto sereno in un ambiente “bianco” e benestante, ha sempre goduto a spese di altri. Privilegi dati da sempre per scontati da chi li ha vissuti, così da rendere a loro del tutto invisibile la marginalizzazione che altri esseri umani stavano vivendo. A smuovere in lui queste riflessioni, è stata soprattutto la brutta esperienza vissuta dall’allora compagno di squadra Thabo Sefolosha con la polizia nel 2015.

Riflessioni che esigono risposte più profonde di tante altre ormai stantìe, quasi mal sopportate dall’opinione comune. Non basta più dire “siamo tutti uguali”, “il colore non conta”, senza curarsi di approfondire ciò che effettivamente prova sulla propria pelle chi ha dovuto subire ingiustizie fin dalla nascita. Sostenere dal proprio giardino fiorito che il razzismo non esiste, o che i razzisti sono una trascurabile minoranza, senza prima immedesimarsi in quelle ingiustizie che certe persone sono state costrette ad affrontare per tutta la loro vita, non serve a niente. Kyle Korver, figlio di un pastore della Terza Chiesa Riformata, nato in California e trasferitosi da bambino in Iowa con la famiglia, famiglia stabile e serena, progressivamente si è reso conto di tutto questo. E il suo intervento ha ricevuto il plauso pressoché di tutte le star afroamericane della NBA.

Kyle Korver e Thabo Sefolosha / Credits to: PeachTreeHoops.com

Una vita oltre il basket

Che non dovesse essere soltanto il basket a definire la sua vita, Kyle lo aveva maturato molto tempo prima, durante l’anno da rookie ai Philadelphia Sixers. Un giorno di marzo del 2004, quasi al termine di una stagione non facile sia per gli infortuni sia per l’adattamento alla NBA, si ritrova da solo in casa, sotto la doccia, il silenzio rotto unicamente dall’acqua che scorre. È in preda a un attacco di ansia. Un enorme senso di vuoto interiore, non ha neppure il coraggio di guardarsi allo specchio. Si chiede allora: per inseguire un sogno vale la pena ignorare tutto il resto? La risposta è no. Da allora Kyle ha cercato di avere un impatto sulle persone al di fuori del campo. Si è impegnato in una serie di progetti di beneficenza e ha partecipato attivamente al programma Basketball Without Borders della NBA, in tutto il mondo.

Il senso del dovere e l’etica del lavoro non sono mai mancati a Kyle. Fin dai tempi in cui, da ragazzino, giocava a basket con i fratelli nel classico canestro nel cortile di casa e con la squadra della Pella High School, in Iowa. Sognando la NBA, non tanto per il fatto di giocare in NBA ma semplicemente per la voglia di riuscire bene in qualcosa, di fare uno sport che lo rendeva felice. Quattro fratelli: Kyle è il maggiore, quindi Klayton, Kaleb e Kirk. Tutti con la stessa iniziale, come papà Kevin, lo zio Kris e la cugina Kari, tanto per non dimenticarsi che qualche piccola stravaganza è concessa anche alla più religiosa e morigerata delle famiglie. E tutti giocatori o allenatori di basket, anche mamma Laine, una che da ragazza alla high school segnò 74 punti in una partita e ha trasmesso a Kyle un importante insegnamento: “Non sei bravo finché non sei costante”. E che bisogna fare sempre tutto il possibile per diventare un giocatore e una persona migliore. Il dolore, infatti, può arrivare in qualsiasi momento e ha bussato alla porta di casa Korver il 20 marzo 2018: Kirk, il più piccolo dei quattro, ha lasciato questo mondo a soli ventisette anni, in seguito a una breve ma letale malattia.

La fede e la testa sulle spalle sono sempre stati i punti di forza di Kyle, così come la cura del proprio fisico. Non traggano in inganno l’aspetto da aitante surfista né i suoi lineamenti perfetti da attore, che presumibilmente non gli hanno mai creato problemi con le ragazze (a proposito, è sposato dal 2011 con la cantante Juliet Richardson e ha tre figli, Kyra Elise, Knox e Koen, tanto per cambiare…). Korver è un duro. Uno che d’estate, senza che nessuno gli abbia mai chiesto nulla, è capace di sottoporsi alle torture del misogi, uno sfiancante training giapponese, che prevede prove da survivor come correre sott’acqua trasportando pesanti pietre o pagaiare in canoa per decine di chilometri. Una pratica catartica, un’uscita dalla comfort zone per fare qualcosa almeno una volta senza essere mossi dalla sicurezza di riuscire a farla.

Il lavoro e la fatica lo fanno stare con la coscienza a posto, come una forma di legittimazione per la vita fortunata che ha avuto. E se a trentasette anni, durante i playoff 2018 con i Cavs, è stato capace di inseguire per tutto il campo il ben più giovane Terry Rozier dei Celtics a caccia di un pallone vagante e poi di tuffarsi sul parquet senza aver paura di nulla, è la prova che negli anni ha sempre lavorato come si deve. Per questo ai Bucks di oggi Kyle Korver sarà molto ascoltato, soprattutto da un leader umile come Antetokounmpo.

Kyle Korver e la fotocopiatrice

E pensare che all’inizio Kyle Korver aveva la considerazione di una… fotocopiatrice. È stato scelto nei bassifondi del Draft 2003. Quello di LeBron James prima chiamata assoluta e poi Darko Milicic prima di Carmelo Anthony, Chris Bosh e Dwyane Wade. Per trovare Kyle, c’è da scendere fino alla 51 dei New Jersey Nets. Lui al Madison Square Garden non c’è neppure: sta seguendo il Draft in tv nel dormitorio di Creighton con gli amici. Si accorge a malapena del suo nome che scorre in basso sullo schermo. A Creighton ha trascorso anni fantastici, entrando nella storia dell’ateneo: quattro tornei NCAA disputati, quarto realizzatore di sempre dei Bluejays con 1801 punti, ovviamente primo per triple realizzate (371, sesto nella storia NCAA), tentate (819) e in percentuale (45,3%).

Non solo tiro: è un giocatore completo, in grado di difendere, stoppare (è alto 2,01), fornire assist, rubare palloni, è molto affidabile ai tiri liberi (87,8% in carriera), un bagaglio notevole. Creighton ritira la sua maglia numero 25. Eppure non è detto che la NBA sia il suo posto, perché non è raro che giocatori dominanti al college si rivelino inadeguati tra i professionisti: i Nets lo scambiano subito con i Sixers in cambio di cash considerations. Ci si pagano la Summer League e con gli spiccioli rimasti acquistano una fotocopiatrice. Che si rompe poco tempo dopo. Mentre Kyle Korver è ancora ben funzionante e non ha mai avuto gravi infortuni in carriera.

Con Iguodala e Iverson ai tempi dei Sixers / Credits to: LibertyBallers.com

A Philadelphia, Kyle diventa presto uno dei giocatori più amati dai tifosi (e dalle tifose). Dopo le difficoltà nella stagione da matricola, in cui coach Randy Ayers lo vede addirittura più adatto a concludere dal midrange, al secondo anno il nuovo allenatore Jim O’Brien lo lascia libero di prendersi tutti i tiri da tre che vuole. Ne esce fuori una sinfonia di conclusioni dall’arco da ogni posizione, in particolare dagli angoli, le sue “mattonelle” preferite. Catch-and-shoot da distanze siderali, tiri da tre in transizione preludio di quello che sarebbe diventato il basket di lì a pochi anni, un movimento continuo sempre alla ricerca dell’attimo in cui trovarsi libero per concludere, con Allen Iverson che lo pungola in continuazione: “Shoot the ball! Shooters shoot the ball!”, i tiratori tirano.

Nei primi anni di carriera, lui è sostanzialmente questo: un cecchino appostato per sparare. Nella stagione 2004-05 Korver è primo nella NBA per numero totale di triple realizzate. Nel 2007 passa agli Utah Jazz, dove rimane per tre stagioni, nell’ultima delle quali siglando la più alta percentuale da tre di sempre nella storia della lega (53,6%). Quindi a Chicago fa parte dei migliori Bulls degli ultimi vent’anni, quelli che laureano Derrick Rose come il più giovane MVP di sempre e raggiungono la finale di Conference. E poi il quinquennio ad Atlanta con coach Budenholzer, gli Spurs East: è lì che Korver, seppur già sopra i trent’anni, diventa qualcosa di più di un semplice tiratore.

Ai tempi dei Chicago Bulls.

Quel sistema di gioco si basa sulla perfetta esecuzione dei movimenti offensivi per creare i giusti spacing e timing. Gli extrapass diventano la norma, il bloccante tira, il tiratore blocca. Se prima si piazzava in angolo ad aspettare la palla, ora Korver diventa un cardine del gioco: difensore lontano dalla palla, passatore, bloccante. Sviluppa pienamente la capacità di muoversi insieme alla squadra, aiutare dal lato debole, occupare bene gli spazi, crearsi un tiro dal palleggio, leggere i tagli, evitare di nascondersi durante il gioco. Nel 2017 si unisce a Cleveland per dar man forte a LeBron James per vincere il titolo: il Re lo accoglie con tutti gli onori, mettendosi a studiare video su video per capire il modo in cui Kyle vuole ricevere la palla. L’esperienza culmina con le Finals 2018, perse con gli inarrivabili Warriors. Poi, l’addio di LeBron e lo sfaldamento di quei Cavs: nel corso della stagione 2018-19 Korver è scambiato agli Utah Jazz, con cui riesce a partecipare, seppur con qualche problema fisico, ai playoff 2019.

Kyle Korver con LeBron James.

A Milwaukee per vincere il titolo

I Milwaukee Bucks sono la sesta squadra NBA di cui Kyle Korver ha vestito la maglia in carriera. Per riunirsi con Mike Budenholzer ha rinunciato a tornare ai Sixers, una piazza che pur lo amava, dopo essere stato pedina di scambio, durante il mercato estivo, per Memphis e Phoenix.

Da quando ha lasciato gli Atlanta Hawks, con cui era riuscito persino a partecipare all’All-Star Game 2015, il suo obiettivo è ora quello di aiutare squadre da titolo, mettendo a disposizione le proprie abilità di specialista al tiro da tre. Negli ultimi anni, i minuti in campo e le percentuali si sono assottigliate: l’unica strada è allora ritagliarsi uno spazio in contesti di squadra ben funzionanti. E per lui l’altruismo, il mettersi al servizio degli altri, non è mai stato un problema. Ne ha fatto uno stile di vita, così come con il tiro da tre.

Specialità della casa: il tiro da tre dall’angolo.

Laddove il suo fisico non gli consente più di arrivare, Korver ci perviene con l’elevato quoziente intellettivo cestistico, con la capacità di leggere il gioco e di anticipare le mosse di compagni e avversari. I Bucks sono in grado di mascherare i suoi eventuali limiti grazie al sistema collettivo di coach Bud. La presenza in campo di Kyle attirerà la difesa sul perimetro con notevole forza gravitazionale, aprendo spazi alle penetrazioni di Antetokounmpo e di Bledsoe: conclusioni al ferro e conclusioni dall’arco, ecco qua il basket NBA di oggi, il pace-and-space, Moreyball, o come lo si voglia chiamare.

Se sarà anello oppure no, ha un’importanza relativa. Questa stagione 2019-20 è un’importante occasione, forse l’ultima, per ammirare ancora una volta il gioco distintivo di Kyle Korver, il suo tiro da tre in uscita dai blocchi con meccanica perfetta, quell’abilità di rivolgere piedi e spalle verso il canestro in una frazione di secondo, oppure il tiro che riesce a crearsi dal palleggio. Pochi giocatori sono come lui nel gioco sul perimetro, con il suo incessante movimento, il senso della posizione e la velocità di rilascio della palla. Perché Korver ha fatto del tiro dall’arco un’arte e uno stile di vita ed è ancora lì, alla soglia dei quarant’anni, a essere un esempio per tutti.

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Pubblicato da
Francesco Mecucci

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