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The Brawl. La Rissa che cambiò la storia

La NBA è da sempre una Lega in cui il testosterone scorre a fiumi. Uomini grandi e grossi, generalmente con un ego smisurato, che praticano uno sport che, benché un famoso e radicato luogo comune dica il contrario, è pieno zeppo di contatti fisici anche duri: basta pochissimo, un pizzico di agonismo in più, una parola di troppo detta a mezza bocca, la tensione che sale di un grado, perché dal semplice gioco duro si passi a vere e proprie risse. La storia della Lega ne è piena zeppa fin dagli albori, specie negli anni ruggenti in cui giravano vere e proprie “bodyguard” e protezione delle star (come Kermit Washington, che in una rissa passata alla storia per poco non uccise il povero Rudy Tomjanovic, colpendolo con un pugno ben assestato), fino ai tempi più recenti in cui la Lega ha cercato di arginare il fenomeno, che comunque non è mai del tutto scomparso (esemplari le scazzottate tra Laimbeer e Barkley nel 1990 e tra lo stesso Sir Charles e Shaq qualche anno dopo, fino alla famosa aggressione di Sprewell al suo stesso coach, P.J. Carlesimo).

Episodi non certo edificanti, eppure di enorme impatto e richiamo mediatico. Pubblicità che il l’ex commissioner David Stern non ha mai voluto, inasprendo dunque le punizioni nel corso del suo regno, al fine di dare un’immagine migliore alla Lega. E invece, ironia della sorte, sarà proprio durante il suo lungo mandato che si verificò quella che ad oggi è The Brawl, La Rissa per eccellenza. Che batté ogni record di squalifica inflitta e che rispetto alla quale i precedenti episodi, non solo nell’NBA, apparvero come ben poca cosa. Ma soprattutto che cambiò inesorabilmente i destini della Lega.

Il 19 novembre 2004 andava in scena al Palace of Auburn Hills di Detroit la partita di cartello della notte, e una delle più interessanti di quel primissimo scorcio di stagione. I Pistons, tornati campioni in carica dopo 14 anni, ospitavano l’altra superpotenza della Eastern, gli Indiana Pacers. Il match, interessante di per sé, era reso ancor più avvincente dalla profonda rivalità che intercorreva tra le due franchigie in quegli anni, che travalicava il semplice predominio della Conference: nell’estate 2003 Detroit aveva licenziato Rick Carlisle, nonostante fosse reduce da due ottime stagioni. Il malcelato interesse dell’allenatore per la panchina dei Pacers, maturato peraltro proprio durante i precedenti playoff, difficilmente era estraneo a questa decisione, e infatti il Coach of the Year del 2002 si era prontamente accasato a Indianapolis, sostituito nella Motown da Larry Brown. Nei playoff 2004 i Pistons in finale di Conference incontrarono proprio i Pacers dell’ex allenatore, numeri 1 a Est e squadra tosta e fisica almeno quanto loro: ne nacque una serie combattutissima, dominata dalle difese ruvide e dai colpi proibiti, che vide Detroit prevalere e andare a prendersi il titolo. Quella sera di novembre si svolgeva quindi la rivincita di quella serie, coi Pacers ancora scottati dall’eliminazione.

E la squadra dell’Indiana dimostrò subito quanto sentisse la partita, partendo determinata e prendendo subito il largo. I campioni uscenti, che venivano da un avvio di stagione non felicissimo, non riuscirono sostanzialmente mai a stare nella scia di una squadra che sembrava poter essere addirittura la favorita numero uno all’anello. Guidati da un Jermaine O’Neal in doppia doppia (20+13), dal career high nei recuperi di Jamal Tinsley (8) e dall’ottima prova sui due lati del campo di Ron Artest (24), i Pacers dominarono i rivali, mettendo a tacere l’intero Palace. Ma sarà proprio Artest, con un contatto al limite, a riaccenderlo prepotentemente.

A 46 secondi e con la partita chiusa (97-82 Pacers), Ben Wallace viene fermato duramente da Ron Artest mentre va a canestro. E’ un fallo duro ma pulito, addirittura leggibile come segnale di mentalità vincente, di chi anche quando ha vinto la partita non regala comunque punti facili. Se non fosse stata una partita così tesa, probabilmente Big Ben se ne sarebbe andato per la sua strada, a tirare i due liberi sul ferro; ma è la scintilla che fa esplodere la frustrazione dei campioni feriti dalla lezione subita. Wallace si rialza e tira uno spintone ad Artest; accorrono immediatamente giocatori di entrambe le squadre e arbitri che cercano di dividerli. Non contento, lancia anche un asciugamano verso l’avversario, il quale intanto, non nuovo a scatti d’ira e seguito da uno psicologo, si è allontanato, distendendosi sul tavolo degli assistenti di gara per cercare di calmarsi. La situazione sembra rientrare nei ranghi, quando dagli spalti vola un bicchiere di birra che colpisce in pieno il giocatore dei Pacers. Scatta qualcosa nel cervello di Ron Artest, quello strano processo che nel corso della sua intera carriera l’ha spesso trasformato in Mr. Hyde: parte come una furia verso gli spalti, colpendo il presunto colpevole (sbagliando peraltro persona). Stephen Jackson, altro personaggio disciplinarmente non certo illibato, non esita a dargli manforte, e in poco tempo l’intero Palace of Auburn Hills diventa una bolgia.

Da Pistons vs Pacers la contesa diventa Palace vs Pacers, e non certo a pallacanestro. I giocatori sugli spalti vengono accerchiati dai tifosi, spesso ubriachi, che colpiscono gli avversari. Artest, ormai fuori da ogni controllo, torna in campo e colpisce senza motivo un tifoso con la maglia dei Pistons; stavolta è O’Neal ad aiutare il compagno, arrivando di corsa per colpire un altro tifoso, e se non fosse scivolato sul campo ormai bagnato di ogni cosa piovuta dagli spalti non si sa con quale forza avrebbe colpito il malcapitato. La sicurezza, non riuscendo più a tenere l’ordine e in totale confusione, per poco non usa anche lo spray al peperoncino sullo stesso Ron Ron. Alcuni tifosi cercano riparo, altri invadono il campo nel caos generale. I Pacers non si sa come si ricompattano e riescono a prendere la via degli spogliatoi, mentre dalle tribune vola di tutto, dalla birra alle felpe, dal cibo alle sedie d’acciaio ad altezza testa. Molti spettatori vengono travolti nella confusione generale e riportano numerose contusioni. Scott Pollard ed alcuni assistenti immobilizzano e trascinano fuori uno stralunato Ron Artest.

A fatica usciranno dal palazzo, a notte fonda. Rivedendo il video, Jermaine O’Neal dirà che per quanto sia sconvolgente, dal vivo era stato almeno 20 volte peggio. Lo stesso Rick Carlisle, che solo due anni prima sedeva abitualmente sulla panchina di quel palazzetto, dichiarerà che in quei lunghi minuti si sentiva “come se stessi lottando per la mia stessa vita”, così come il suo assistente Chuck Person (“era come se noi fossimo i gladiatori e i tifosi i leoni: dovevamo solo provare a uscirne vivi, dovevamo lottare per una via d’uscita”). Jackson riferirà invece di alcune frasi sconnesse di Artest e dell’impressione che non fosse in lui; ciò nonostante, l’intera squadra si rifiuterà di consegnarlo alla polizia, arrivata addirittura per arrestarlo.

Il giorno dopo Stern è ovviamente furente: quanto è successo è un duro colpo per la buona reputazione della Lega che tanto ha faticato a costruire. Come per Sprewell pochi anni prima, la punizione dev’essere esemplare, un monito per tutti. Arrivano squalifiche per tutti i protagonisti della notte di follia, le quali però colpiscono molto più duramente i giocatori di Indiana, rei di aver colpito anche i tifosi: Ben Wallace, la cui reazione eccessiva è stata determinante, prende 6 partite di squalifica senza stipendio. Jermaine O’Neal e Stephen Jackson ne prendono rispettivamente 25 (poi ridotte a 15) e 30. Ron Artest, individuato come principale responsabile per il fallo e la reazione al bicchiere in testa, viene squalificato per l’intera stagione rimanente, e le sue 73 partite totali (più 13 di playoff) segneranno il nuovo record NBA (polverizzate le 68 del già citato Sprewell). Tutti i Pacers coinvolti vengono inoltre condannati a svariate ore di lavori socialmente utili.

Uno dei risvolti più popolari della teoria del caos è l’ormai celeberrimo effetto farfalla, ripreso anche da un fortunato film omonimo, secondo cui minuscole variazioni delle condizioni iniziali possono sconvolgere totalmente il sistema: con una metafora paradossale, il battito d’ali di una farfalla, con le giuste coincidenze, sarebbe in grado di generare un uragano dall’altra parte del mondo. Al di la delle discussioni anche filosofiche su questo paradosso, è chiaro come una serie di situazioni e reazioni concomitanti (il fallo evitabile di Artest, la spropositata reazione di Wallace, Artest disteso proprio sul tavolo e centrato in pieno dal bicchiere) abbiano generato quella che è senza dubbio la più grande rissa che l’NBA ricordi. Un uragano appunto, il quale però mostrò le sue conseguenze più evidenti sul lungo periodo: i Pacers in particolare infatti uscirono distrutti da quella sera. Col roster decimato dalle squalifiche, Reggie Miller conobbe una seconda giovinezza, ma non bastò certo a portare Indiana ai livelli ai quali, a ranghi completi, avrebbe potuto aspirare: Indy venne eliminata in sei gare in semifinale di Conference proprio dai Pistons, i quali invece andarono di nuovo a un passo dal titolo. Miller si ritirò, Artest fu ceduto, O’Neal, anche per problemi fisici, non fu più neanche lontanamente il lungo dominante di quel periodo; con quella rissa la corazzata Pacers si sciolse come neve al sole, e solo di recente è tornata ai vertici della Lega, a quasi un decennio di distanza. Al di la delle evidenti colpe (in primis di colui che oggi, paradossalmente, si chiama Metta World Peace), la franchigia pagò carissimo comportamenti non certo giustificabili, ma spesso generati e amplificati dalla paura di un intero palazzetto che ti assale. I Pistons invece, ovviamente non coinvolti nello scontro con i tifosi, continuarono la loro stagione trionfale quasi senza riportare conseguenze da quella notte.

Se è dunque impossibile dare un giudizio a episodi tanto controversi senza generare polemiche dall’una o dall’altra parte, è anche giusto rendersi conto di quanto quella notte di follia di metà novembre abbia cambiato inesorabilmente i destini dell’intera NBA, cancellando dai radar una delle franchigie più forti in circolazione, che magari avrebbe anche potuto arrivare fino in fondo. Con il tipico stile ironico ma tremendamente rivelatore, ci pensò come sempre Federico Buffa, addirittura in una telecronaca del 2008, a darci un’efficace chiave di lettura riguardo la reazione di condanna, certamente giustificata e condivisibile ma forse, a posteriori, eccessiva, che colpì l’intera franchigia dell’Indiana:

La franchigia è maledetta da quella notte del novembre 2004, da quando Ron Artest, che stava facendo la Maya Desnuda a bordo campo, è stato coperto da una birra di uno spettatore. E ormai è la solita dicotomia tra good guys e bad guys… Ecco, questo peraltro del bene e del male, è la dicotomia che accompagna gli Stati Uniti da quando era una comunità silvopastorale e come forse avete intuito dalla storia del paese, tendono ad automettersi dalla parte del bene… Hollywood c’azzuppa da 80 anni…

Chapeau, Avvocato.

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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