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L’uomo del 2019: intervista a Sergio Scariolo

Il 2019 è stato un anno particolarmente sorprendente per la pallacanestro. Tante nuove storie capaci di capitalizzare l’attenzione sono emerse, tanti nuovi talenti sono riusciti a imporsi e alcuni importantissimi cicli hanno trovato la propria conclusione. In un’annata così ribollente di eventi e intrecci, i successi dei Toronto Raptors in NBA e della Spagna in occasione del mondiale cinese sono i due main event, le due fotografie più importanti da incollare sulla copertina dell’album dei ricordi dell’anno che si appresta alla conclusione.

In entrambe le esperienze, protagonista indiscusso è stato coach Sergio Scariolo, CT delle Furie Rosse campioni del mondo e vice allenatore dei Toronto Raptors campioni NBA. Un’annata da incorniciare per uno dei volti più belli e vincenti del basket nostrano all’estero. Un’annata che noi abbiamo voluto ripercorrere insieme a coach Scariolo, cercando di scoprire direttamente dalle sue parole quali siano stati gli aspetti più nascosti e i dettagli più rilevanti di 365 giorni che ricorderà per sempre.

Quest’intervista è disponibile anche in formato audio (a questo link) nel Capitolo 61 di The Next Chapter, podcast a tema pallacanestro NBA del quale l’autore di questo articolo fa parte sin dal Capitolo 1.

Jacopo Gramegna: Nel corso del 2019 lei ha dovuto affrontare non una ma ben due finali dal peso specifico unico, le NBA Finals con i Toronto Raptors e la finale mondiale con la Spagna. Entrambe le vittorie ottenute dalle sue squadre sono state considerate come due sorprese, anche se caratterizzate da notevolissime differenze. Da attore protagonista delle due cavalcate: quale dei due percorsi ha richiesto le maggiori difficoltà e quale, invece, l’ha sorpresa meno?

Sergio Scariolo: Sono state due vittorie realmente inaspettate. Nei pronostici non eravamo dati tra le prime quattro favorite in entrambe le competizioni. Direi che le crescite nei percorsi di entrambe le squadre, sia per i Raptors che per la Spagna, hanno dato la sensazione di gruppi che giocavano bene ed erano in grado di competere ma onestamente le difficoltà son state grandi in entrambi i casi. Il livello delle avversarie, i diversi cambi fatti in corso d’opera con i Toronto Raptors e le rinunce importantissime della Spagna sono stati fattori assolutamente rilevanti: in entrambi i casi non si è trattato di un percorso lineare ma di una maratona a ostacoli.

Però quando fai parte di una struttura che cresce e lavora bene, in cui i giocatori stanno bene insieme, difendono e si passano la palla, forse non puoi neanche parlare tanto di sorpresa, quanto di una piacevole sensazione di aver superato le aspettative.

 

JG: Prima del suo ultimo trionfo mondiale alla guida della Spagna spesso ci si riferiva alla sua guida tecnica come quella di un “gestore” capace di bilanciare tutte le esigenze di una generazione di fenomeni come quella spagnola. Nell’ultima rassegna iridata, come già avvenuto agli europei del 2015, ha dovuto fronteggiare numerose assenze illustri, trovando protagonisti “insperati” – come ad esempio Ribas e Oriola- e lasciando indelebilmente il proprio segno tattico in entrambe le metà campo: come si fa a coniugare questa doppia anima del proprio lavoro?

SS: Io non sono abituato a commentare i commenti. Io, i miei giocatori e i miei collaboratori siamo nella fase operativa: noi dobbiamo fare più che parlare. Da sempre chi fa questo mestiere sa che la gestione e la qualità tecnico-tattica vanno unite e sono interdipendenti.

La credibilità che puoi avere nei confronti della tua squadra dipende dalla qualità del lavoro tecnico-tattico e viceversa. Alla fine se hai credibilità presso i tuoi giocatori, se li porti a credere in ciò che si fa giorno dopo giorno, puoi permetterti anche di sperimentare, di fare qualcosa di un po’ più difficile, di essere più esigente rispetto al  lavoro sul campo.

Coach Scariolo sa costruire rapporti meravigliosi con i propri giocatori: sul suo rapporto con Marc Gasol, ad esempio, non potevamo che soffermarci.

JG: Sia nella cavalcata con la Spagna che nelle Finali NBA sono state decisive scelte difensive apparentemente “semplici” come dei possessi di zona chirurgicamente scelti in momenti nevralgici delle gare decisive. Perché, secondo lei, in NBA l’impatto di soluzioni di questo genere è così dirompente? I sistemi e i tempi difensivi sono così lontani da quelli europei?

SS: Beh, bisogna ammetterlo, in NBA c’è ancora il cartello “lavori in corso” per quanto riguarda la crescita collettiva nel saper attaccare una difesa a zona. Di certo è cresciuto l’uso delle difese a zona perché c’è la percezione, soprattutto per quanto riguarda la 2-3, di poter raggiungere con efficacia gli obiettivi principali di ogni difesa: difendere forte sulla linea da tre punti e avere comunque un rim protector a centro area.

Chiaramente, poi, tra questo e il raggiungimento della consapevolezza necessaria a saper adeguare la propria difesa rispetto agli attacchi che si fronteggiano c’è uno step molto grande da dover affrontare.

JG: L’anello di congiunzione tra le sue due, indimenticabili, esperienze di questo 2019 è senza dubbio Marc Gasol, capace di essere al contempo sia il pezzo decisivo aggiunto in corsa per Toronto sia il leader tecnico ed emotivo di un gruppo coeso come la Spagna. Quali sono, secondo lei, le caratteristiche tecniche ed umane che lo portano a essere così impattante a prescindere dal contesto e dal suo ruolo?

SS: Che dire, Marc è stato importantissimo in entrambe le situazioni. Lui è capace di unire tutti i pezzi in entrambe le metà campo, soprattutto grazie alle sue abilità di playmaking dal post alto, alla sua spiccatissima bravura nel comunicare con i compagni e a quell’enorme concentrazione che gli permette di assorbire tutti gli aggiustamenti tecnico-tattici nel corso della partita.

Tutti lo rispettano per il suo altissimo livello di conoscenza del gioco e per il suo assoluto altruismo. Quest’ultima dote, nello specifico, lo porta a essere non solo rispettato ma anche amato dai suoi compagni.

Il meglio del Mondiale di Marc Gasol: una competizione nella quale ha dimostrato di saper scegliere quando e come incidere sulla gara grazie a una conoscenza del gioco d’assoluta elite.

JG: Dopo i festeggiamenti per il titolo NBA, a Toronto è già tornato per voi il momento di costruire il contesto-squadra. Con gli addii di Leonard e Green e i tanti contratti in scadenza, la possibilità che il roster cambi la propria conformazione in un futuro anche abbastanza prossimo resta comunque viva.
Com’è, per lo staff tecnico, convivere con l’idea di dover tracciare una continuità con il passato pur dovendo lavorare per il futuro di una franchigia che presenta comunque tanti giocatori giovani e in rampa di lancio?

SS: Effettivamente questa è la nostra sfida principale per quest’anno. Abbiamo conservato una linea di gioco che si mantiene inalterata. Anzi, credo di aver visto in questa stagione momenti in cui abbiamo giocato anche meglio della scorsa. Poi, chiaramente, lo scorso anno avevamo un paio di giocatori più decisivi ed esperti, che anche in situazioni di gioco rotto e ingolfamento offensivo, dati magari anche dalla bravura difensiva degli avversari, sapevano risolvere le situazioni complicate con una capacità di improvvisare che ora è un po’ venuta meno.

Dal punto di vista difensivo abbiamo un po’ meno forza individuale ma stiamo riuscendo a compensare con esperimenti e idee. Abbiamo già giocato tante difese diverse nel corso di questo avvio di stagione. Bisogna trovare il modo di competere: siamo un laboratorio in piena attività.

JG: Ciò che si percepisce chiaramente dall’esterno della franchigia è una forte cultura di respiro “International”. La dirigenza guidata da Masai Ujiri è riuscita a costruire una struttura che al contempo riesce a rappresentare l’enorme crescita dello sport canadese e a puntare sulle tante sfaccettature dei propri volti di formazione internazionale. Oltre a lei, anche coach Nurse ha fatto tanta gavetta in Europa e in G League, e nel coaching staff ritroviamo figure internazionali come Alex McKechnie e Patrick Mutombo. Tra i giocatori, invece, oltre a Gasol e Siakam ci sono anche Ibaka e Anunoby che arrivano da percorsi formativi “insoliti” per la NBA. Cosa può raccontarci di questo genere di cultura sportiva della sua franchigia vissuta dall’interno?

SS: Questa è una franchigia in cui l’anima internazionale è fondamentale. Innanzitutto essere in Canada e non negli Stati Uniti fa già una discreta differenza.

Ma poi Masai, il grande leader di tutto, è una persona che si è formata fuori dagli USA e che poi ha perfezionato lì il suo percorso di formazione culturale, professionale e personale. In questo caso sto sottolineando il concetto di “persona” e non solo di “dirigente” per un motivo.

Questo ha permesso al nostro animo International di farsi tangibile, è qualcosa che si respira. Ci sono tante professionalità straniere e tante iniziative con le quali, giorno dopo giorno, in cui l’unione di mondi diversi è promossa ed enfatizzata. Il bello, però, è quando nel corso della stagione queste identità diverse si fondono in una sola. Anche in questo la leadership di Masai è molto forte: anche grazie a lui siamo riusciti ad essere sempre capaci di remare in un’unica direzione. Lui marca il nostro cammino.

La grande mente dietro ai Toronto Raptors campioni NBA, Masai Ujiri.

JG: Lei è un affermatissimo allenatore di Area FIBA che è stato accolto in una franchigia NBA all’avanguardia da ogni punto di vista. Come ci si sente a proporre idee e a mettere la propria competenza a disposizione di una pallacanestro così diversa da quella in cui si è imposto?

SS: È interessante. La prima fase del mio percorso qui è stata scandita dalla necessità di conoscere e capire l’universo NBA. I suoi giocatori, i suoi sistemi, le sue norme offensive e difensive e tutti quei dettagli che magari gli appassionati o i giornalisti non sono obbligati a conoscere ma che gli allenatori devono conoscere in profondità.

La seconda fase è stata quella di capire quanto del mio bagaglio personale e della mia esperienza europea fosse compatibile con questo mondo e in quale modo il mio apporto potesse essere trasportato nella pallacanestro NBA. Non tutto è traslabile e ho dovuto anche capire con quali tempistiche provare a farlo. I modi e i tempi sono fondamentali.

La terza fase è quella dell’automatismo: io adesso ho molto chiaro quello che vale la pena di proporre, ciò su cui è necessario insistere anche se non dà riscontri immediati, in relazione non solo al contesto NBA ma anche alla metodologia di lavoro di coach Nick Nurse. Allo stesso modo ho altrettanto chiare le cose che non verranno mai digerite, ciò su cui non vale la pena ostinarsi.

JG: Ci piacerebbe concludere la nostra chiacchierata proprio con una curiosità sul suo lavoro. Entrando a contatto con la pallacanestro NBA sicuramente avrà potuto riscontrare notevoli differenze nelle metodologie di allenamento rispetto a quelle praticate qui in Europa. In relazione alle nuove ed estreme esigenze di spacing del basket moderno, ad esempio, sono sempre più numerose le franchigie NBA che portano i propri giocatori ad allenarsi su campi che dispongono di una “linea di tiro da 4 punti” che li aiuta a spaziarsi diversamente anche in situazioni di partita. Utilizzate soluzioni di questo genere anche a Toronto?

SS: Più che una linea aggiuntiva noi abbiamo degli spot marcati con del nastro adesivo con i quali facciamo esercitare i nostri migliori tiratori. Questo allenamento ci è molto utile per esempio in situazioni di 2-for-1, quando vogliamo giocare prima un possesso rapido per poi ottenere la possibilità di giocare l’ultimo pallone del quarto. In questi casi ci rendiamo conto che, grazie a dei giocatori in grado di farlo, anche un tiro da distanze ragguardevoli può essere un tiro a discreta percentuale che ci concede anche di conservare l’ultimo possesso dopo aver difeso. Ovviamente negli angoli non possiamo metterne perchè sennò usciremmo dal campo: questo, per me, è il vero grande problema: non tanto la lunghezza del campo quanto l’ampiezza.

Ciò di cui realmente ci rendiamo conto giorno per giorno è, però, che la qualità del nostro tiro da tre punti dipende dalla qualità dei nostri paint-touches: ogni volta che riusciamo a ricevere profondi, a creare congestione nell’area avversaria e a sfruttare al meglio questo genere di situazioni il nostro tiro da fuori ne trae giovamento. Tutto ciò dipinge al meglio come la continua capacità di trovare nuovi equilibri sia la vera essenza della pallacanestro.

 

Prima di salutarvi, vorremmo porgere un caloroso ringraziamento a coach Sergio Scariolo per la disponibilità mostrataci e a coach Marco Di Stefano, amico comune di coach Scariolo e di NBAReligion.com e The Next Chapter. Senza la sua preziosa e costante supervisione e attenzione ai particolari non sarebbe stato possibile realizzare quest’intervista.

 

Coach Marco Di Stefano e coach Sergio Scariolo.

Poter parlare di pallacanestro con professionalità di questo tipo è una delle più belle soddisfazioni che il 2019 ci abbia riservato. Il 2020 alle porte, di certo, non sarà da meno: tanti nuovi stravolgimenti sono dietro l’angolo e tanti nuovi protagonisti sono pronti a emergere. Raccontarli sarà, come al solito, un enorme piacere per noi.

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Jacopo Gramegna

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