Avversari in campo con le maglie di Heat e Lakers, contendenti individuali al prestigioso premio di MVP nel corso del primo decennio del nuovo millennio, grandi professionisti capaci di rispettarsi e motivarsi a vicenda, nonché compagni di nazionale durante le Olimpiadi di Pechino 2008, con l’obbligo tecnico e morale di riportare la medaglia d’oro a Washington dopo 8 anni di assenza dal gradino più alto del podio. Dwyane Wade e Kobe Bryant hanno lasciato tracce indelebili nel panorama cestistico mondiale, riscrivendo la definizione del ruolo di “guardia”.
Recentemente D-Wade ha parlato della realizzazione di un possibile documentario che rinnovi la memoria della nazionale americana di pallacanestro più celebre dai tempi del Dream Team di Barcellona 1992, cogliendo l’occasione per parlare dei momenti passati in ritiro con i compagni. Cita l’esplosività dei giovani LeBron James e Dwight Howard, la visione di gioco di Chris Paul e Jason Kidd, la professionalità di Carlos Boozer e Tayshaun Prince, per poi concludere con l’ossessione, il perfezionismo e la mentalità del Mamba, al quale riconosce una sorta di ruolo di maestro, tecnico e motivazionale.
Il particolare che lo colpì maggiormente di Kobe Bryant, fresco MVP di quella stagione nemmeno così irripetibile, a detta dello stesso 24, fu la capacità di relazionarsi con tutti gli esterni alla nazionale (avversari, tifosi, giornalisti) durante le tappe della preparazione e poi anche in Cina. Wade, sorpreso non dalla fama del giocatore, ma desideroso di imparare dalla caratura dell’uomo, si è espresso così:
“Ovunque fossimo, c’era sempre grande folla intorno a lui… Era letteralmente in grado di comunicare con tutti nella loro lingua di origine. Per me la scelta migliore consisteva nel sedersi da parte, ammirare ed imparare.”
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