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Il lungo viaggio di NBA TV

Anno domini 2020. Lo spettacolo offerto dall’NBA è ormai un qualcosa del quale, bene o male, tutti gli appassionati riescono a godere, grazie all’enorme varietà di scelta garantita dal digitale e alla conseguente democratizzazione dell’offerta mediatica. Ma non è sempre stato così facile. Il percorso che ha condotto l’NBA a essere quella perfetta macchina di marketing e comunicazione che conosciamo oggi è stato lungo e tortuoso, segnato da complesse dispute diplomatiche e finanziarie.
Per nostra fortuna, è sempre esistita una linea sottile capace di mantenere l’equilibrio tra le diverse parti in causa: la lungimiranza di coloro che, anche in contesti storici in cui sembrava impensabile, immaginavano un futuro radioso per la pallacanestro a stelle e strisce, un futuro globalizzato.

La prima, obbligatoria, tappa di questo viaggio dev’essere considerata l’emanazione dello Sports Broadcasting Act del 1961, pensato con l’obiettivo di difendere e far rispettare le cosiddette “leggi antitrust” in ambito sportivo. La NFL, rea di aver violato quelle norme durante le proprie negoziazioni dei contratti televisivi, fu individuata come primo bersaglio su cui fare leva; l’altra parte in causa, finita sotto la lente d’ingrandimento del tribunale, era la CBS, cofirmataria di un contratto ritenuto al di fuori dei paletti finanziari consoni all’area sportiva. Nella mente dei promotori dello Sports Broadcasting Act, era ben presente la volontà di permettere la cessione di pacchetti televisivi a emittenti che accordassero pari opportunità di spesa e programmazione a tutte le franchigie, a prescindere dal blasone del roster e dalle ambizioni stagionali. In quest’ottica, ogni franchigia NFL avrebbe avuto diritto a un numero proporzionalmente equo di proventi ed entrate, e il valore dei diversi contratti televisivi sarebbe stato pressoché uniformato per ciascuna parte interessata. Tali direttive finanziarie, com’era prevedibile, avrebbero esteso in breve tempo il loro raggio d’azione, investendo anche le altre grandi leghe sportive americane, NBA compresa.
Quest’ultima, sino ad allora, aveva avuto un rapporto alquanto travagliato con le televisioni americane. Qualche anno addietro, nella stagione 1953-1954, la NBA aveva siglato un contratto di 39.000 dollari, dalla durata annuale, con la DuMont Television Network, in grado di garantire la copertura televisiva di sole 20 partite stagionali. In linea generale, ciò che più di ogni altra cosa impediva al rapporto tra NBA ed emittenti nazionali di sbocciare era la riluttanza delle televisioni locali a cedere i propri diritti sulle partite casalinghe. Per la stagione 1954-1955, la NBA decise di affidarsi alla NBC, forte di una maggior copertura, su scala nazionale, rispetto ai predecessori della DuMont. I rapporti con le società via cavo delle grandi metropoli, tuttavia, non accennavano a migliorare; in città come New York e Boston, la NBA avrebbe continuato a essere una faccenda a gestione locale ancora per parecchio tempo, impedendo una totale copertura delle spese.
Tale problematica irrisolta portò anche la NBC a rivedere i propri accordi con la NBA, al punto da cedere la proprietà dei diritti per la Regular Season successiva, senza remore. Si susseguirono, dunque, la Sports Network Incorporated per le stagioni 1962-1963 e 1964-1965 e, finalmente con un minimo di continuità, la ABC dal 1964 al 1973. Per la successiva stagione 1973-1974, la NBA riuscì a prendere accordi con la CBS, quale nuovo canale nazionale di riferimento. Accordi, questa volta, destinati a protrarsi per lungo tempo: dalla Regular Season 1973-1974 a quella del 1989-1990, per la precisione.

Nel biennio 1982-1984, inoltre, venne siglato un accordo anche con ESPN, canale televisivo in fortissima ascesa e destinato a fare le fortune della lega che, in un clima di grande fermento, gettò i semi del futuro trionfo commerciale.

David Stern, non ancora in carica nel 1983, con l’allora commissioner Larry O’Brien. Credits to www.foxsports.com, via Google.

La National Basketball Association era reduce da un periodo oscuro dal punto di vista mediatico e finanziario, causato dal successo degli ex-rivali della ABA –finalmente accorpata nel 1976 – e, allo stesso modo, dai numerosi scandali legati all’abuso di sostanze stupefacenti da parte dei propri atleti. Tra le righe di questa narrativa da Araba Fenice, prosperava la figura di un uomo dalle doti profetiche e dal carattere deciso, un visionario capace di guidare la lega per un intero trentennio, dal 1984 al 2014: David Stern. A partire dalla prima stagione nelle vesti di commissioner, furono introdotti, su sua specifica richiesta, dei test antidroga dai risultati immediati: in breve tempo, le feroci critiche dei media furono allontanate, assieme allo spaccio e al consumo di droga negli spogliatoi NBA.
Risolta questa annosa questione interna, il nativo di New York aveva già pianificato di volgere il proprio sguardo verso l’esterno e verso scenari sino ad allora inesplorati. La sua ambizione era quella di trasformare una situazione di svantaggio, disperata a livello finanziario, in una situazione di vero e proprio vantaggio, favorita dalla ricerca di nuove collaborazioni capaci di risanare l’immagine dei quella che sentiva ormai la sua lega. Dopo aver introdotto il salary cap nel regolamento NBA (placando così le lotte fratricide tra le franchigie) decise – oculatamente – di andare a trattare in prima persona con Boris Stankovic, l’allora presidente della FIBA, allo scopo di di porre le radici del proprio business anche oltreoceano. Di conseguenza, in quello stesso anno (1987), si inaugurò un torneo chiamato “McDonald’s Open” e si diede ufficialmente il via all’organizzazione di amichevoli, in fase di pre-stagione, sui campi europei. Era ufficialmente cominciata l’opera di conquista del Vecchio Continente.

Da sinistra: il commissioner Stern, il coach dei Denver Nuggets Moe, il dirigente della FIBA Boris Stanković e l’ala dei Nuggets Alex English, posano con il trofeo dei McDonald’s Open 1989 a Roma. Credits to Wikipedia, via Google.

Parallelamente, la Turner Broadcaster System (conglomerato societario comprendente anche la Time Warner), spalleggiata dalla NBA, concesse i diritti per la trasmissione radiotelevisiva del palinsesto stagionale alla TBS e alla TNT. A partire dalla stagione 1988/1989, dunque, la Regular Season NBA – con annessi eventi speciali come l’All-Star Game – sarebbe stata trasmessa su due diversi canali di livello nazionale.
La ciliegina sulla torta di questo lavoro di promozione e rilancio della propria immagine, arriverà, però, nell’estate del 1992, con la partecipazione del leggendario Dream Team alle Olimpiadi di Barcellona. Per la prima volta nella loro storia, i giocatori di punta della NBA avrebbero partecipato a una competizione FIBA, mostrando il proprio talento davanti agli occhi del mondo intero. L’impatto mediatico, favorito dai risultati e dallo spettacolo offerto dai giocatori, fu a dir poco devastante. Le superstar NBA diventarono delle vere e proprie icone a livello globale, spinte anche dal successo di campagne commerciali di multinazionali come la Nike.
In soli otto anni, David Stern era riuscito a trasformare quella che era una realtà proficua esclusivamente a livello nazionale, o poco più,  in un colosso sportivo ed economico di dimensioni planetarie.

Raggiungere degli accordi altrettanto proficui con le maggiori emittenti via cavo su scala nazionale e internazionale e appianare i contrasti irrisolti con le emittenti regionali sarebbero stati i passi successivi. Sulla base di queste premesse, nel 1999, fu inaugurato il canale NBA.com TV, con sede negli studios NBA Entertainment di Secaucus (New Jersey). Si trattava del primo canale televisivo dedicato interamente a news e highlights NBA, affiancato dal cosiddetto League Pass per le partite al di fuori del palinsesto. La formula definita con i primi contratti prevedeva che NBA.com TV fosse disponibile, previo abbonamento, esclusivamente sulle reti di proprietà della DirecTV e della Dish Network. Nonostante ciò, in pochi anni, il numero di abbonati raggiunse i 20 milioni, spingendo le parti in causa a ragionare su eventuali modifiche nella propria programmazione. Nel 2002, con il supporto della Time Warner, la NBA propose alle maggiori società via cavo della nazione di inaugurare un programma sportivo che avesse i match della lega come fulcro della propria offerta. Questo nuovo prodotto sarebbe stato reso disponibile, su abbonamento mensile, al costo iniziale di mezzo dollaro, nella speranza che l’esiguità del costo avvicinasse il maggior numero possibile di appassionati. Richiesta prontamente respinta dalle emittenti interessate, che speravano di ottenere un accordo economicamente più proficuo. Come ebbe modo di dichiarare lo stesso Stern qualche anno dopo, la sua, in realtà, fu solo una provocazione, una mossa di marketing utile a valutare, con maggior chiarezza, il valore della sua lega sul mercato televisivo.

Nel contempo, si iniziava a pensare a un nuovo canale dal nome NBA TV, comprensivo di tre, interessanti, novità: la trasmissione di ulteriori partite nel mese di gennaio, il miglioramento della qualità grafica nel formato ad alta definizione e la promozione della digitalizzazione del prodotto.
Fred Dressler, vice presidente esecutivo della Time Warner Cable, parlava di un progetto che comprendesse la trasmissione via cavo di 96 partite annuali riproducibili in formato digitale. Quest’ultimo, in breve tempo, avrebbe consentito di ampliare l’offerta mediatica tramite aggiunta di ulteriori canali e pacchetti dedicati, tra i quali un documentario di approfondimento sul training camp dei Denver Nuggets e una serie di nuovi contenuti extra-campo. L’obiettivo era quello di avvicinare gli spettatori, quanto più possibile, ai giocatori, mostrandone gli aspetti più umani e ordinari, al di fuori delle prodezze “superomistiche” nelle gare ufficiali.

Inoltre, per la prima volta nella loro storia, avrebbero fatto la propria comparsa su un canale a diffusione nazionale, il campionato WNBA e D-League.
Come da programma, le partite NBA da trasmettere sul nuovo canale sarebbero state per l’85% in qualità HD (50 partite su 96 totali): un’enormità, se si considerano quelle che erano le conoscenze digitali dell’epoca.
Lo stesso Stern ebbe modo di dichiarare che sarebbe rimasto stupito se, entro la stagione 2004-2005, dunque nell’arco di due anni, non si fosse raggiunto il 100% di partite in HD su NBA TV. La strada era ormai stata tracciata.

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Il 28 giugno 2003 gli uffici finanziari della NBA siglarono un fruttuoso accordo, dalla durata pluriennale, con le compagnie televisive Time Warner – che era rimasta a sostegno dei progetti di Stern sin dall’inizio delle contrattazioni–, Cablevision e Cox Communications. I risultati furono immediati. Il canale TNT, dotato di risorse tecniche ed economiche di un certo rilievo, avrebbe proseguito il suo rapporto di collaborazione con la lega; a far le spese di questa tempesta d’innovazioni, di contro, sarebbe stata quella TBS che per diversi anni aveva detenuto l’esatta metà dei diritti radiotelevisivi NBA. La fetta lasciata libera sarebbe passata nelle sapienti mani della ESPN, forte del supporto del conglomerato Turner Sports.

Il nuovo contratto televisivo avrebbe avuto una validità di 6 anni, per un valore di 4.6 miliardi di dollari. Si trattava del primo canale digitale e televisivo di proprietà di una lega professionistica americana. Una vera e propria rivoluzione mediatica destinata a sconvolgere il mondo intero.
In un battito di ciglia, NBA TV riuscì a entrare in 45 milioni di abitazioni e 30 Stati differenti. I nuovi palinsesti avrebbero compreso anche la trasmissione di partite FIBA, rimaste sino ad allora per lo più sconosciute al pubblico americano e di partite di finale della Chinese Basketball Association. Un risultato, quest’ultimo, frutto ancora una volta di un lungo, faticoso e straordinario lavoro diplomatico del commissioner. Giunto per la prima volta presso gli studi della China Central Television con l’intenzione di offrire loro programmazione gratuita per il monopolio televisivo statale, non trovò alcun amministratore pronto a dargli udienza. L’uomo più importante dell’intero sistema sportivo americano fu lasciato per ore in sala d’attesa, senza che nessuno lo riconoscesse o si prendesse la briga di ascoltarlo. Qualche ora dopo, esercitando tutta la propria pazienza, riuscì a incontrare un politico e burocrate cinese (non di grandissimo rilievo, per la verità), nella speranza che potesse fungere da mediatore con la China Central Television. La sua risposta, tuttavia, non fu grande consolazione, e suonò più come una sorta di avvertimento per quel forestiero occidentale: l’obiettivo delle televisioni cinesi era – ed è in parte rimasto – quello di nobilitare le masse, piuttosto che divertirle con sciocchezze come gli eventi sportivi.
La dimostrazione di quella che era la fame del popolo cinese per la pallacanestro NBA arrivò in maniera casuale e del tutto inaspettata. Durante una visita presso il cimitero imperiale di Xi’an, David Stern accennò alla guida turistica della propria provenienza dagli USA: la donna ribattè asserendo di essere una grande fan dei “Red Oxen” (nickname cinese dei Chicago Bulls) e, chiaramente, del loro leader maximo Michael Jordan. “Eureka!”, diceva il filosofo e matematico Pitagora quando gli balenava alla mente un’idea brillante. Parafrasando con le dovute proporzioni, quello fu il “momento Eureka” del nativo di New York. La Cina aveva una voglia di intrattenimento e di sport fuori dal comune, alla luce proprio del rigido controllo mediatico da parte del governo e della naturale necessità di trasgredire quelle imposizioni. A un anno esatto di distanza dalla sua prima infruttuosa visita, in concomitanza con il primo anello vinto dai Chicago Bulls di coach Jackson (nel 1991), per la prima volta furono trasmesse delle partite NBA sul territorio cinese, in differita, per volontà della stessa China Central Television.

Durante un sondaggio effettuato nel 1992, un gruppo di studenti cinesi pose la figura di Michael Jordan al di sopra di quella di Mao Tse-tung, in una classifica stilata secondo il criterio dell’importanza storica.
La definitiva conquista del mercato televisivo cinese avvenne, con esattezza, dieci anni dopo. Nel Draft NBA del 2002, infatti, gli Houston Rockets selezionarono con la prima scelta assoluta un tale Yao Ming, centro di 22 anni proveniente dagli “Shangai Skarks” e fattosi notare per delle notevoli qualità tecniche, abbinate a 229 centimetri di altezza. Ora, anche la Cina poteva vantare il suo personalissimo Michael Jordan.
La breccia aperta pochi anni prima, nel muro mediatico internazionale era diventata ormai una vera e propria voragine.

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L’ accordo con le emittenti Turner Sports, ESPN ed ABC da 7.4 miliardi di dollari per 8 anni, è stato l’ultimo, grande, regalo di David Stern alla lega e agli appassionati della palla a spicchi. Era il giugno del 2007. Mese e anno coincidevano, guarda caso, con l’ascesa di LeBron James verso le sue prime Finals.

Nell’ottobre del 2014, il nuovo commissioner Adam Silver, subentrato a Stern nel febbraio di quell’anno, annunciò di aver rinnovato il precedente accordo con un’estensione contrattuale valida per nove stagioni, dal valore di 24 miliardi di dollari.
Secondo delle stime effettuate nel gennaio del 2016, tredici anni dopo la sua inaugurazione, NBA TV era stata resa disponibile per circa 54 milioni di famiglie USA ed era riuscita ad ottenere copertura televisiva in 215 nazioni e 43 lingue differenti, and counting

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Pubblicato da
Cataldo Martinelli

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