Davide Barco, padovano classe 1986, milanese d’adozione, è uno degli illustratori più conosciuti in Italia, nel panorama sportivo e non solo. Vanta collaborazioni di rilievo a livello nazionale e internazionale che coniugano assieme comunicazione e sport business, avendo lavorato negli anni, tra gli altri, per FIP, New York Times ed NBA. Un lavoro che è e resta anzitutto una passione e qui comincia la nostra chiacchierata.
Mi chiedi se la vivo come un lavoro o una passione? Rispondo la seconda e aggiungo: purtroppo. Dico purtroppo per il semplice fatto che è bellissimo ma allo stesso tempo fai fatica a staccare. Io proprio mi diverto, mi piace.
Qual è stato il tuo esordio “ufficiale” da illustratore?
Ho fatto l’Art Director in pubblicità per sei anni non pensando di poter fare l’illustratore. In quel ruolo stai dietro le quinte della pubblicità, sei a tuo modo il direttore della parte visiva e sta a te a gestire fotografi, registi e quant’altro. Sono venuto così a conoscenza degli illustratori, ma sulle prime non avevo preso minimamente in considerazione l’ipotesi di farne un lavoro. In più di un’occasione, però, mi sono trovato a farne le veci all’interno dell’agenzia. Uno dei primi disegni che ho fatto l’ho realizzato per lo shop Nostalgica, a Milano: avevano le maglie da calcio, quelle storiche, senza sponsor, però fatte in una certa maniera. Con l’agenzia avevamo deciso di costruire una campagna, finita anche in un annual italiano, e mi ero proposto come illustratore. Facevo tardi la sera perché ovviamente andava compensata all’interno delle dinamiche lavorative. Chiusa quella parentesi ero davvero gasato, e intanto continuavo la mia vita da Art Director.
Poi è arrivata l’America…
Cercare nuove sfide è nella mia natura, voglio sempre arrivare in alto, non m’accontento mai. Sul braccio ho anche un tatuaggio con scritto ‘Mai contento’ – che poi va spiegato alla gente che chiede – significa mai soddisfatto. Ho deciso quindi di lasciare il mio lavoro e di andare a cercare di fare l’Art Director a New York. Vado, mi va male tutto. Mi era andata male lì e a Londra. Tornato in Italia, mi sono messo in testa di lanciarmi in una nuova professione. A un certo punto mi son detto: ‘Ok, torniamo a NY’, stavolta per fare l’illustratore. Mentre ero lì, parliamo del 2015, ricordo che mi contattò il Washington Post. Proposero di fare la cover se la loro squadra [i Capitals, NHL ndr.] avesse battuto New York nella notte in gara 7 Playoff. Washington stra-favorita, stavo già preparando la cover tutto gasato e invece i Capitals persero all’overtime. Delusissimo, volevo tornarmene a casa. Un’amica che mi stava ospitando a NY mi consigliò di inoltrare l’illustrazione già pronta agli altri, al New York Times. Erano ovviamente già coperti ma dissero: ‘Stile interessante, ci piacciono le cose che fai, cosa ne dici se ci vediamo per fare due chiacchiere?’ Ero convinto che non mi avrebbero più chiamato, due giorni dopo sono arrivati con un lavoro. È stato figo. Quando lo racconto parlo sempre di elogio alla (s)fortuna.
Com’è nata invece la collaborazione con la NBA?
Fondamentalmente io non li ho cercati, sono loro che sono arrivati da me con una mail molto serenamente chiedendomi se fossi disponibile a collaborare. Per conto di Rivista Ufficiale NBA avevo fatto delle illustrazioni e questo ha certo aiutato a costruire un portfolio di illustrazioni orientate al basket. Chi gestiva la parte social per conto di NBA non ha fatto fatica a immaginare il mio ruolo. La parte emozionante, se vogliamo, è il fatto che il primo contatto da parte loro arrivò con una mail ufficiale, sì, ma senza i disclaimer che si trovano di solito in fondo. Mi contattarono dicendo di aver visto i miei lavori e di apprezzarli e proponendomi una collaborazione, come detto, per seguire i Playoff del 2016. Sul momento fu difficile crederci, feci un paio di ricerche, incrociai la mail online ed ebbi la conferma che si trattasse di NBA, parte social. Diciamo che da lì è nato il gasamento.
Passiamo a una delle tue ultime fatiche, MVP Cards. Ci puoi raccontare come e quando è maturata l’idea del mazzo di carte a tema NBA?
L’idea viene da una cosa che feci per IL, il magazine allegato del Sole 24Ore, mi pare 2016-2017. Nell’articolo si parlava di Lob City, Los Angeles Clippers e nel pezzo si diceva: ‘[Doc Rivers] ha in mano un quintetto molto forte’, ‘la mano vincente’. Siccome da illustratore devi sempre trovare delle soluzioni visive interessanti, ricordo che disegnai il quintetto dei Clippers come se fosse una scala reale, inserendo JJ Redick come 10, che in realtà sarebbe una carta numerata. L’illustrazione si chiuse lì, ma intanto l’idea di un mazzo dedicato ai giocatori NBA aveva guadagnato un posto nella mia to-do list personale. Mi è tornata in mente la scorsa estate quando, in un periodo particolarmente intenso e stressante sul piano professionale e personale, stavo cercando un progetto per tenermi ‘in movimento’. Aggiungiamoci che con i coetanei della mia squadra di basket, ogni anno, andiamo a farci un week end lungo da qualche parte e, ovviamente, per farcela passare giochiamo a carte. Il primo pensiero è stato: ‘Faccio un regalo ai miei amici, le cerco online e le compro, così abbiamo il mazzo dedicato’. Online non esiste nulla di simile, o meglio, ce ne sono magari con le foto, preconfezionate. Acquisto solo cose che hanno un valore estetico, mi ci confronto per lavoro, non potrebbe essere altrimenti. Così l’ho disegnato io e l’ho chiuso.
Hai usato un criterio molto democratico per selezionare i giocatori, il che motiva anche il nome dato al progetto
Sì, per me era fondamentale dargli una logica. Non cerco di far contenti tutti, ma sapevo di aver bisogno di un criterio oggettivo. Ho optato per ‘Chi ha vinto l’MVP?’ Il mazzo è diviso per decadi dal 1980 al 2019. Così facendo, con ogni seme si riesce a definire quelli che sono gli MVP. Da li poi è nata l’esigenza di fare il mazzo panchina ‘Bench Deck’ dove ci sono i giocatori che per forza di cose non hanno trovato posto nel mazzo principale perché ne hanno vinti meno individualmente. È stato interessante.
Quali giocatori inserisci nel tuo personale poker d’assi?
Nel mazzo starters abbiamo Magic, Jordan, Kobe. Nel caso dei Fiori, avrei inserito volentieri LeBron, ma non l’ho fatto solo per un discorso di ‘naming’, diciamo, e ho messo Durant. Mi è dispiaciuto non mettere LeBron come asso, l’avrei fatto volentieri, però essendo ‘il Re’ mi sembrava fastidioso non piazzarlo lì. La scelta è stata dettata da ciò che penso del dato giocatore, qual è secondo me, di quella precisa decade, il giocatore più interessante.
Quale criterio hai impiegato per le matte e le regine, invece?
Fai un mazzo a tema NBA e non metti Jordan come asso? Allo stesso modo, come fai a non mettere Rodman come matta? È proprio un domino, talvolta. Da un lato mi dispiaceva perché andava a sporcare la selezione, ma nelle matte ho messo i giocatori più pazzi. Nel mazzo principale ci sono Rodman e Rasheed Wallace; Jason Williams e Ron Artest nel mazzo panchina. Tutti giocatori che comunque si sono portati a casa un anello. Nel mazzo panchina ho aggiunto due matte generiche con la stilizzazione del trofeo MVP, per i puristi. Per un mazzo pulito, senza matte, di soli MVP.
Per quanto riguarda le regine, c’era ovviamente meno range temporale a disposizione. Mi sono dato un ordine: dal 1997, anno di fondazione della WNBA, sono andato avanti di cinque anni in cinque anni. Ci sono giocoforza degli sbalzi temporali, delle donne più forti sono abbinate ai giocatori anni ’80. Ce ne sono che sono saltate all’occhio o che, nonostante abbiano vinto poche volte il premio, non potevo non inserire. A ogni modo, ho sempre mantenuto valido il discorso ‘più MVP hai, più puoi stare nel mazzo’, con eccezioni. Sono andato a percepito, a sensazione personale: Maya Moore, Candace Parker. Magari ho lasciato fuori alcune giocatrici parimenti importanti, sicuramente sì, ma a una certa ho dovuto applicare una scelta.
Se dovessi scegliere un giocatore pokerface nella NBA, chi citeresti?
Sapendo della competitività di Jordan, per il quale ho un’affezione particolare, è ovvio che il sogno sarebbe vedere lui che si gioca dei soldoni con le mie carte. Ci vedrei bene Rodman a giocarsi una partita con queste, però del mazzo non saprei davvero chi indicare. Gli altri, gli MVP nel complesso, sono personalità talmente ‘grandi’ che quasi stonano.
Come hai vissuto la quarantena sul piano professionale? Da artista, la pausa ha aiutato a raccogliere idee e a trovare ispirazione o è successo l’opposto?
Non è stato facile e a oggi è ancora tutto abbastanza fermo. In ogni caso, ne ho approfittato per sviluppare dei progetti personali: la serie LegeHands, che può sembrare un giochino, è nata come una serie di stickers, poi è diventata una collaborazione con un brand per fare delle maglie. In genere lascio che parli il mio lavoro per me, ma di questo lavoro confesso che concettualmente vado super fiero. Senza farti vedere la faccia di un giocatore, senza farti vedere la maglia, l’azione di quel determinato giocatore, se ti faccio vedere solo le mani, addirittura in alcuni casi una mano sola, tu mi dici: ‘Questo è il tiro di Jordan’ e così via. Se io ti faccio vedere un tiro spezzato, con dietro un tabellone che segna 6.6 secondi alla fine, capisci qual è il momento. Visivamente in realtà gli ho dato una lettura molto leggera, direi quasi pop/splatter, con queste braccia un po’ tagliate. Bastano due braccia, una posa e due tatuaggi che magari hai visto da qualche altra parte e sai già di chi si tratta. Se fosse un quadro avrei detto che ‘dipingo i momenti.’
Un indizio sul tuo asso nella manica, progetto futuro o in itinere?
A tema basket non ho niente di caldo veramente pronto ma diciamo che un pochino alla volta, tra una cosa e l’altra, sto pensando di fare una serie dedicata al mondo del playground. Amo l’NBA ma preferisco il playground. È bellissimo e puoi incontrare delle storie incredibili: il ragazzino prospetto che viene a farsi le ossa, l’impronosticabile soggetto che dà la paga a tutti. Qui s’incontrano chi dice che ‘Larry Bird è il più forte’ e chi dice che ‘È più forte LeBron James’; magari finisce che il primo vince e non è detto che, per questo, abbia ragione. Ma in quel momento lì, al campetto, avrà ragione lui.
La stagione NBA che sta per ripartire, tra mille incognite, è un all-in per svariati motivi. Per chiudere, ti chiedo un giudizio da appassionato sulle prospettive future della lega
Come tanti avrei voluto fare il giocatore NBA professionista e sono anche un amante di party e divertimento quindi, se prima rosicavo, diciamo che ora rosico doppio. Se mi dicessero: ‘Guarda mi dispiace devi giocare’ – che già mi piace un sacco –‘e devi stare chiuso a DisneyWorld’, per me sarebbe la manna. Detto questo, la vedo un’ottima soluzione perché comunque sia ce n’è bisogno, però sono anche attento a quello che succede attorno agli Stati Uniti e sono comunque combattuto. Sicuramente un sit-out darebbe un messaggio fortissimo alla situazione e va considerato il contraccolpo dal punto di vista del ritorno economico. Molti fanno tanto per le loro comunità, per le loro città, il loro Stato. È un compromesso, ma sono molto fiducioso, l’’NBA è molto progressista da questo punto di vista. Se dovessero giocare, secondo me, avrebbero un palcoscenico e un’attenzione tali che se tu giocatore, prima di una partita, cominci a fare qualche statement è quasi un bene. Può essere usata come risorsa, ma si pone pur sempre un dibattito: basta una piccola distrazione e alcuni spettatori scelgono altro.