Quindici anni fa, in occasione di un’apparentemente anonima partita domenicale tra Los Angeles Lakers e Toronto Raptors, Kobe Bryant mise a referto 81 punti, di cui 55 nel solo secondo tempo. Una prestazione per certi versi irripetibile, la seconda ogni epoca (dopo i 100 di Wilt Chamberlain) per massimo di punti realizzati in una partita da un singolo giocatore, che valse anche la vittoria ai padroni di casa, sotto di 14 punti all’intervallo.
Se le statistiche di quella partita appaiono straordinarie, l’intero mese di gennaio non ha proprio nulla a che fare con il resto della pallacanestro professionistica: 43,3 punti di media e record, tutt’ora vigente, dai tempi del solito Wilt Chamberlain e primo giocatore dal 1964 a segnare 45 o più punti in quattro partite consecutive.
Come sempre nella carriera di Bryant, la mentalità, la dedizione e l’ossessione hanno fatto sì che si potesse costruire il presupposto di quella prestazione ben prima di realizzarla concretamente. Queste le parole pronunciate dal Black Mamba ai microfoni di ESPN negli istanti successivi la partita:
“Molti giocatori si impongono dei limiti. Pensano di realizzare un sogno, segnando 50 o 60 punti. Io non ho mai riflettuto in questo senso. Ho sempre sviluppato il mio gioco per essere il miglior giocatore possibile, senza pensare ad un numero di punti da raggiungere, perché è sempre un limite. Segnare 81 punti significa non aver mai pensato ad un ipotetico limite. Significa allenarsi per amore verso il gioco ed esser premiato dalla pallacanestro.”
Le due sconfitte contro Kings e Suns nei giorni precedenti, l’iniziale dominio dei Raptors allo Staples Center ed i fischi dei tifosi angeleni sono stati il preludio di un qualcosa di epocale, quasi artistico nella sua capacità di catturare l’attenzione. Dopo aver rivisto la sua partita a distanza di sette anni, Kobe commentò su Twitter:
“Ho avuto l’impressione di guardare un dipinto di Salvador Dalì #capolavoro”
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