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Phil Jackson e i Lakers, sinonimo di leggenda

Se apriamo il dizionario e cerchiamo la voce ‘leggenda’ troveremo diversi sinonimi: ‘epopea‘, ‘mito‘ e ‘storia‘. Ma se dovessimo spiegare, in termini sportivi, cos’è una leggenda, dovremmo usarne (almeno) altri tre: Chicago Bulls, Los Angeles Lakers e Phil Jackson, comune denominatore delle due franchigie.

Non bastano le dita delle mani per indossare tutti gli anelli che ha vinto (ben 13, 11 da allenatore e 2 da giocatore), come non basterebbe un solo articolo per raccontarvi del talento, dell’intelligenza e della saggezza di uno dei più grandi allenatori nella storia NBA: un coach capace di trasformare i suoi giocatori in campioni, insegnando loro una filosofia di vita.

Tra il Montana e la ‘Grande Mela’: i primi passi di Phil Jackson

Phil nasce a Deer Lodge, una piccola cittadina del Montana, il 17 settembre del 1945 da Charles ed Elisabeth Funk Jackson, ministri pentecostali che cresceranno i loro figli con un’educazione ferrea. Il piccolo non può giocare con i suoi coetanei, motivo per il quale viene spesso deriso: ‘strano’, ‘strambo‘ e ‘diverso‘ sono solo alcuni dei nomignoli che gli affibbiano. In chiesa tutti i giorni e doppia razione la domenica, quando la mattina c’è l’omelia di papà Charles, mentre la sera quella di mamma Elisabeth.

Non si può ascoltare musica, ballare né tantomeno guardare la TV: gli unici momenti di pace li trova giocando con i bambini di una riserva indiana vicino alla sua città. Phil rimane affascinato da questa cultura, così diversa esteriormente ma, in fondo, tanto simile: nasce così la sua passione per la loro storia e simbologia, tutti elementi che utilizzerà nel corso della sua carriera.

All’High School Phil si dedica a vari sport: basket, football, atletica ma è particolarmente bravo nel baseball, tanto che diversi osservatori mettono gli occhi addosso. Il destino ha altri piani, non ha alcuna intenzione di farlo diventare un buon giocatore di baseball: dopo una chiacchierata con Bill Fitch, coach della squadra di pallacanestro dell’università del North Dakota, Jackson decide di sposare la causa dei Fighting Sioux. Phil è un buon difensore con un ottimo IQ cestistico, buone capacità al rimbalzo ma con qualche pecca in fase realizzativa. Sotto la guida di Fitch vince due titoli NCAA Division II (’65 e ’66): il prossimo passo è la NBA.

 

 

Phil Jackson con coach Fitch (a sinistra)e Jimmy Rodgers (a destra).
Credits to: Mark Graupe via Twitter

 

Draft 1967. I New York Knicks lo scelgono alla chiamata numero 17: il suo allenatore all’epoca, Red Holzman, di li a poco, diventerà la sua fonte di ispirazione. Nella ‘Grande Mela’ Phil Jackson entra in contatto con diverse culture e riprende a studiare le religioni orientali: apre la mente, vuole imparare da tutto ciò che lo circonda.

In maglia Knicks ha un buon rendimento, ma nel 1970 resta fuori tutta la stagione a causa di un infortunio alla schiena. Non tutti i mali, però, vengono per nuocere: segue i compagni nella cavalcata al titolo NBA stando seduto vicino a Holzman nel ruolo di assistant-coach. Phil impara tantissimo: come gestire lo spogliatoio —Holzman concedeva qualche momento di svago quando non si doveva lavorare —, come preparare una partita e come motivare i giocatori. La tattica di Holzman è semplice: difendere con grande intensità, senza mai distogliere lo sguardo dalla palla, e passare il pallone sempre al compagno smarcato perché in attacco non c’è posto per gli individualismi.

Nel 1973 guida i Knicks, insieme a Walt Frazier, Earl Monroe e Dave DeBusschere, alla conquista del loro secondo titolo. Nel 1978 passa ai New Jersey Nets nel doppio ruolo di giocatore-assistente allenatore fino al suo ritiro due anni più tardi. I tempi sono maturi per una nuova avventura nel mondo della palla a spicchi: quella da allenatore.

Gli esordi in panchina e l’avventura ai Chicago Bulls

Incoraggiato da Holzman, Phil Jackson svolge la gavetta prima nella Continental Basketball Association (CBA), dove vince il titolo nell’ 84 con gli Albany Patroons, poi a Puerto Rico, terra caliente dove tutti amano il basket e ogni partita è una battaglia. Qui Phil mette in atto tutto ciò che aveva imparato negli anni ma, soprattutto, sviluppa la sua leadership e ne esce più forte e temprato nel carattere.

Nel 1985 Jerry Krause, il GM dei Bulls, gli offre il ruolo di assistente allenatore di Stan Albeck ma, viste le differenti visioni politiche — Albeck era un convinto conservatore — non se ne fa nulla. Come descrivere Phil Jackson? Anti-conformista, libertino, amante della filosia zen e dei nativi americani, vicino al movimento hippy: tutti elementi che facevano storcere il naso ai proprietari delle squadre NBA, restii a offrirgli un ruolo di rilievo.

Due anni dopo Phil Jackson approda ai Bulls come assistente di coach Doug Collins. Qui trova la sintesi perfetta della sua idea di basket: il ‘Triple Post Offense’, o più semplicemente, ‘Attacco a Triangolo’. Scopre questa filosofia di gioco lavorando a stretto contatto con Tex Winter, suo massimo esperto e rappresentante: il ‘Triangolo’ è un mix di movimenti, improvvisazione e un forte spirito di squadra.

Collins non ama il ‘Triangolo’, preferisce che la palla sia tra le mani del giocatore più devastante che i Bulls — e  la NBA — avessero mai visto prima: Michael Jordan. Tutti amano Collins, da MJ ai tifosi, ma i risultati non arrivano. Così, nel 1989, Krause nomina Jackson head coach: il suo lavoro non si limiterà solo a schemi e tattiche, ma toccherà vari aspetti, più umani.

Per vincere i giocatori devono muoversi e giocare come una sola entità pensante, come una tribù che va in guerra: con la meditazione e tecniche spirituali degli indiani Lakota, Jackson inizia a lavorare affinché i suoi uomini mettano da parte l’ego e pensino al bene comune. Per motivarli dà loro un obiettivo: l’anello, l’oggetto che rappresenta lo status dei campioni e che tutti i giocatori vorrebbero avere. Nella cultura indiana il cerchio, la forma dell’anello, rappresenta l’armonia, la purezza e la connessione che c’è tra ogni membro della tribù: il fuoco sacro, l’accampamento e le tende hanno tutte una sagoma circolare. Quando deve rivolgersi ai suoi giocatori in modo sincero e diretto o meditare con loro, Jackson li dispone dunque in cerchio.

Per creare e mantenere il gruppo coeso, Phil rende leader tutti i giocatori: starà poi a loro trovare il giusto equilibrio, anche a costo di scontrarsi (come succederà anni dopo tra MJ e Steve Kerr). Jordan e Pippen sono i leader nominati dai giocatori: su di loro costruirà la squadra. His Airness è un guerriero solitario ma, con un profondo lavoro, riesce a farlo giocare con e per i compagni: nella stagione 1990-91 arriva il primo titolo, battendo in finale i Lakers.

Jordan ormai è sempre più uomo squadra, Pippen è il leader ‘umano’ della squadra: la stagione successiva porta alla seconda affermazione consecutiva alle Finals, stavolta contro i Portland Trail Blazers. Un’ impresa non da poco perché come disse John Wooden:

“Vincere richiede talento, ripetersi richiede carattere” 

L’obiettivo di Phil Jackson e dei suoi Bulls è solo uno: il ‘Three-Peat’. Nonostante vari infortuni, nella stagione ’92-’93, i Bulls sconfiggono in finale i Phoenix Suns di Charles Barkley, scrivendo il loro nome nell’Olimpo del basket vicino a Celtics e  Lakers.

Nessuno poteva fermare quella squadra se non il fato. Ottobre del ’93, Michael Jordan si ritira dal basket per passare al baseball, sport preferito di suo padre, assassinato qualche mese prima. Senza Michael i Bulls non sono più gli stessi, ma ancora una volta ci pensa il destino a riallineare i pianeti. Nel marzo del 1995 Jordan torna e guida la squadra alle semifinali di Conference, ma perdono contro i Magic sotto i colpi dell’ex Horance Grant e del giovane Shaquille O’Neal.

Per tornare grandi serve un giocatore che si sposi alla perfezione con Pippen e Jordan e quel giocatore risponde al nome di Dennis Rodman, personaggio eccentrico ma grandissimo difensore. La gestione della multiforme personalità del #91 è un altro miracolo di Jackson.

Con il nuovo trio delle meraviglie, la squadra conquista altri due titoli. All’inizio della stagione 1997-98, Jerry Krause annuncia per tempo lo smantellamento della squadra al termine dell’annata. A prescindere dai risultati sul parquet, quella conclusa a Salt Lake City con il trionfo in Gara 6 sui Jazz è e resta ‘The Last Dance’.

Dopo il sesto titolo, Jackson decide di prendersi un anno sabbatico, ma sta per essere travolto da un vento caldo proveniente dalla California.

Amore, fatica e vittorie: Phil Jackson e i Lakers

Estate 1999. Phil Jackson è in vacanza in Alaska. Dopo una giornata di pesca con i suoi figli, sulla strada di casa viene fermato da un bambino:

“Tu sei Phil Jackson, vero? Sei il nuovo allenatore dei Lakers: l’ho sentito in TV”

Dopo un anno di pausa, in un momento particolare della sua vita — si stava separando dalla moglie June —, Jackson ha bisogno di una scossa, scossa che trova tornando ad allenare in una città come LA.

La copertina di Sports Illustraded sull’arrivo di Jackson ai Lakers.
Credits to: Sports Illustrated

I Lakers hanno talento, ma i giocatori sono sempre sotto osservazione e circondati da molte distrazioni. Le punte di diamante Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, molto simile a Jordan, sono giocatori devastanti ma tra i due non scorre buon sangue. Sono in continua competizione per essere il ‘leader’ della squadra: con queste premesse il ‘Triangolo’ non può funzionare. Come a Chicago, Jackson inizia a plasmare il gruppo tramite la meditazione, lo yoga e il thai chi.

Non ci sono solo Shaq e Kobe, ma anche giocatori come Glen Rice, Robert Horry, AC Green e Derek Fisher, tassello importantissimo nello scacchiere di Phil. Complice l’infortunio di Bryant, è O’Neal che tiene il timone della squadra. I gialloviola chiudono la regular season con 67-15, accedono ai Playoff dove rischiano di uscire contro i Sacramento Kings: la squadra non è unita, dettaglio non secondario che fa infuriare Jackson. I suoi uomini, Kobe e Shaq su tutti, non hanno capito che da soli non vinceranno mai: dalla filosofia buddista, Jackson conia il concetto di “Ottuplice Attacco” dove, ancora una volta, l’elemento fondamentale è il gioco di squadra.

Scampato il pericolo  Kings, in semifinale ci sono i Suns, liquidati con un secco 4-1: in finale di Conference li attendono i Trail Blazers di Scottie Pippen. La serie arriva fino a gara 7, i Lakers vincono e volano in finale: tra loro e l’anello ci sono gli Indiana Pacers di Reggie Miller. I Lakers chiudono le Finals sul 4-2, laureandosi campioni: settimo anello per Jackson.

La squadra vuole riconfermarsi, ma c’è sempre lo scontro tra i due maschi alfa: O’Neal è talmente esasperato che a dicembre chiede di essere scambiato; dal canto suo Bryant non fa un passo indietro: vuole essere lui il leader della squadra. Né Jackson né il gruppo intervengono, devono essere loro a trovare una soluzione. Complici vari infortuni, Kobe non gioca molto, rendendosi conto che deve far più affidamento sui compagni tra cui Shaq che, dal canto suo, capisce che l’anello arriverà solo con l’aiuto di Bryant.

Dopo la pausa dell’All-Star Game Jackson & Co. volano: fanno fuori rispettivamente Portland, Sacramento e in finale di Conference liquidano gli Spurs con un secco 4-0. Vedono il secondo anello, riescono quasi a toccarlo, ma tra loro e il titolo ci sono i Philadelphia 76ers di Allen Iverson. Iverson gioca una gran partita e fa sua gara 1 ma, come da copione, nelle gare successive i Lakers dominano, portandosi  a casa il secondo titolo consecutivo.

Non si possono più nascondere: vogliono il ‘Three-Peat’. É il sogno di tutti, soprattutto di Kobe, desideroso da troppo tempo di entrare nella leggenda. É un percorso duro da affrontare, fatto di infortuni, vecchie ruggini e stanchezza, ma Kobe e Shaq volano ancora una volta alle finali NBA: il ‘Three-Peat’ è loro, con buona pace dei New Jersey Nets di Jason Kidd. Terzo ‘Three-Peat’ in carriera per Jackson che eguaglia Red Auerbach e dedica la vittoria a Holzman, suo mentore.

Dopo la quiete una tempesta travolge i Lakers. Nel 2002-03 escono alle semifinali contro gli Spurs, mentre ci sono ottime sensazioni per la stagione 2003-04: i nuovi innesti Karl Malone e Gary ‘The Glove’ Payton hanno alzato il livello del gruppo. Un evento sconvolge tutti i piani: una ragazza accusa Kobe di violenza sessuale, un processo che va avanti per mesi, fino a quando i legali della giovane ritirano le accuse. I rapporti tra Jackson e Kobe si incrinano ulteriormente: in un colloquio con il Dr.Buss, il proprietario dei Lakers, Jackson dice chiaramente di voler affidare in futuro la squadra a Shaq. Kobe non ci sta e minaccia di andarsene: a fine anno sarà free-agent, un lusso che la dirigenza non può permettersi. Per rimanere, Bryant detta le sue condizioni: o lui o Shaq e Phil. La scelta è ovvia.

Buss annuncia a Jackson di aver sospeso le trattative per il suo rinnovo. Anche in questa occasione si vede la saggezza di quest’uomo, capace di canalizzare tutta la rabbia della vicenda e la trasforma in energia positiva. Nonostante tutto i Lakers arrivano in finale ma questa volta non c’è il lieto fine: Wallace e Chauncey Billups regalano l’anello ai Pistons versione ‘Bad Boys 2.0’. Non c’è finale più amaro: Shaq vola a Miami, Jackson si ferma per un po’ e sarà solo Bryant a guidare i Lakers.

Dall’addio di Phil, la squadra entra in una spirale negativa di risultati, non arrivando ai Playoffs nel 2004-05. Kobe è sotto pressione: per i media è lui il responsabile della crisi dei gialloviola, lo paragonano sempre a Jordan e vogliono vedere se è capace di vincere senza Shaq. Serve una soluzione, bisogna correre ai ripari.

Dopo vari tentativi Jeanie Buss, presidente delle operazioni commerciali dei Lakers ed ex fiamma di Jackson, convince Phil a tornare: Kobe sotterra l’ascia di guerra, pronto a ripartire. Nel biennio tra il 2005 e il 2007 i Lakers tornano ai Playoff, venendo eliminati in entrambe le occasioni dai Suns di Mike D’Antoni, altro luminare della pallacanestro.

I Lakers stanno per tornare grandi. Nella stagione 2007-08 c’è il ritorno Fisher e ci sono le giovani promesse Vujacic, Radmanovic, Bynum e Luke Walton su cui puntare, ma la ciliegina sulla torta è Paul Gasol, ex Barcellona e Memphis, perfetto per il gioco di Jackson. Ovviamente c’è Kobe, giocatore completamente diverso, più in sintonia con i suoi compagni e più altruista. Conquistano la finale dove trovano i loro eterni rivali, i Boston Celtics dei ‘Fab 3’ Kevin Garnett-Paul Pierce-Ray Allen: gli uomini di Jackson ne escono con le ossa rotte (4-2) ma sanno di essere sulla buona strada.

Il titolo è dietro l’angolo. L’anno successivo, con 65 vittorie e 17 sconfitte, demoliscono i Magic grazie a  Gasol, Odom, Fisher e Bryant che ormai ha messo da parte gli abiti del guerriero solitario per far posto a quelli di leader avvolgente. Non gli basta un titolo, ne vogliono un altro. Stagione 2009-10, in estate arriva Ron Artest (si quello che poi cambierà nome svariate volte, ma questa è un’altra storia), superano in ordine Oklahoma, Utah e Phoenix. In finali ci sono i Boston Celtics, l’occasione giusta per vendicarsi. Phil Jackson avrà pensato che sarà stata opera del karma, senza ombra di dubbio.

La serie è una battaglia, uno scontro tra titani: nessuna delle due compagini si tira indietro. Come nella più classica battaglia epica si deciderà tutto alla fine, a gara 7: il colpo di grazia non lo darà Bryant, né Odom e tantomeno Gasol ma Artest che metterà la tripla a un minuto dalla fine della partita. Undici anelli per Phil Jackson, nessuno come lui: si realizza il suo sogno più grande e quello di tutta Los Angeles, città che ha amato, scrive sul suo libro ‘Eleven Kings’, come una giovane bellissima donna.

Resta sulla panchina gialloviola fino al 2014 quando, complice anche un cancro alla prostata, decide di ritirarsi. Il suo ultimo valzer, la sua ‘The Last Dance’, è la semifinale di Conference persa contro i futuri campioni NBA, i Dallas Mavericks di Nowitzki. Un epilogo non tanto giusto, ma in pieno stile Jackson:

Forse avrei dovuto chiuderla lì (riferendosi al titolo), ma la vita non segue mai un copione così ben scritto.

Il ritorno alle origini con la parentesi da Presidente operativo ai Knicks vuole essere l’ideale chiusura del cerchio, ma stavolta  non va tutto per il verso giusto: nessuna gioia e tanta delusione. Nel corso della sua carriera è entrato a far parte della Hall of fame, è tra i migliori dieci allenatori della storia e chissà quante altre onorificenze.

Ringraziamolo per averci regalato emozioni bellissime, perché ci ha fatto ammirare due delle squadre più forti di sempre, guidate da giocatori straordinari; ringraziamolo perché ci ha fatto capire che si vince restando uniti, sia nello sport che nella vita.

 

 

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Pubblicato da
Emanuele Carlo Bozzo

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