Derek Fisher e Billy Hunter erano seduti allo stesso tavolo. Davanti a loro, decine di giornalisti, pronti ad assistere al capitolo conclusivo di una vicenda durata più di cinque mesi. Se per il primo questa aveva rappresentato una prova inconsueta, per Hunter si era trattato dell’ennesima avventura in un’esistenza avvezza a situazioni del genere. Quando tredici anni prima era stato sancito il terzo lockout della storia NBA, nonché il primo a far sì che la regular season venisse posticipata, lui si trovava nello stesso posto e nella stessa posizione: perché mai un ex giocatore di football aveva un ruolo decisionale così di rilievo nel mondo della pallacanestro?
George William Hunter era molto più di un semplice atleta: guardando alla sua carriera sportiva è importante sapere della partecipazione alla Little League nel 1955, all’interno di una delle prime squadre della storia della competizione ad avere tra le sue fila dei giocatori neri. Pochi anni dopo, durante la sua esperienza da running back per l’università di Syracuse, si sarebbe fatto promotore di una petizione che chiedeva il boicottaggio degli impianti sportivi i cui posti a sedere erano divisi in base al colore della pelle degli spettatori.
Laureatosi in legge, era diventato uno stimato procuratore federale. La sua fama arrivò alle orecchie giuste nel 1996, quando venne contattato per ricoprire la carica di direttore esecutivo della National Basketball Players Association – NBPA, il sindacato che tutela i diritti dei giocatori della lega e li rappresenta durante le contrattazioni. Il suo predecessore, Simon Gourdine, stava per essere sostituito dopo meno di un anno dall’inizio del mandato e l’insediamento del nostro protagonista avrebbe presto dato il via a numerosi avvenimenti di decisivi: uno dei primi fu il della stagione 1998-99.
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Occorrono alcune puntualizzazioni. Nella pallacanestro americana, un lockout prevede un’interruzione dei rapporti lavorativi fra squadre e cestisti. Alle franchigie non è consentito operare sul mercato, mentre gli atleti vedono loro negati gli stipendi oltre alla possibilità di allenarsi presso le strutture societarie. Di conseguenza, si impone uno stop al campionato. Devono presentarsi alcune circostanze perché una situazione talmente proibitiva e dannosa si verifichi. A determinare il punto di equilibrio – o come in questo caso di rottura – tra le parti è il Collective Bargaining Agreement (o CBA). Il contratto stipulato periodicamente da proprietari e giocatori regola tutte le variabili nel rapporto di lavoro tra i contraenti: materie come la composizione del salary cap o l’età minima per dichiararsi eleggibili al Draft NBA. Termini e condizioni che vengono messi per iscritto e da questi dipendono principalmente le modalità di divisione degli introiti – decise durante le contrattazioni dello stesso CBA. I proventi generati, che vanno sotto il nome di Basketball Related Income (o BRI), sono composti dalla stragrande maggioranza dei ricavi generati dalla NBA e dalle franchigie, stagione per stagione. Le fonti di guadagno sono molteplici: diritti televisivi, sponsorizzazioni, vendita biglietti di ingresso alle partite o merchandising.
Una volta stimato l’ammontare del BRI di un determinato anno, in base alle percentuali di divisione prestabilite, le parti sapranno più o meno quanto potrà davvero entrare nelle loro tasche. Si può ben immaginare l’importanza di un tale documento. Per riassumere, la sua funzione principale è stabilire come i profitti vanno divisi fra giocatori e proprietari. Nel caso in cui il CBA arrivi a scadenza senza intesa sul rinnovo, lo scenario è appunto quello di uno sciopero generalizzato.
Nel giugno ’98, pochi giorni dopo la fine dei Playoff, venne annunciato un lockout le cui motivazioni erano chiare fin da subito: quell’anno ai giocatori spettava il 57% del BRI, una cifra troppo alta secondo la NBA che parlava di ben 15 squadre con in conti in rosso. Le pressioni di quasi tutti i proprietari, che già a marzo avevano chiesto di rinegoziare il CBA, venivano giustificate anche dalla preoccupazione di perdere molto più denaro in seguito all’imminente ritiro di alcune delle maggiori stelle della lega – qualcuno, sicuramente, preoccupava più degli altri.
Un punto d’incontro non venne trovato per via delle posizioni troppo lontane e più passava il tempo meno erano le possibilità concrete per le squadre di tornare in campo. L’ultima proposta fatta al sindacato dei giocatori venne respinta sul finire di dicembre e l’allora commissioner David Stern pose il 7 gennaio come ultima data utile per trovare una soluzione: in pochi giorni sarebbe cambiato tutto. A fare un passo indietro furono proprio i giocatori, il cui comitato incaricato di negoziare con la NBA era rimasto l’unico frangente disposto a continuare nella “serrata”. Il giorno dell’epifania Stern e Hunter siglarono un aggiustamento del CBA che permise l’inizio della stagione regolare, con un calendario ridotto di 50 partite per squadra al posto delle usuali 82.
Per quanto alcune delle proposte del sindacato (come l’aumento del minimo salariale) fossero state accettate, i proprietari avevano ottenuto quello che volevano dal nuovo agreement. La loro percentuale sul BRI era salita fino al 45% ed era stata decisa l’introduzione di numerose regole che per la prima volta limitavano gli stipendi dei giocatori – si pensi alla luxury tax, implementata nella stagione 2002-03.
A ridosso della scadenza (prevista per il 1 luglio 2005) del nuovo contratto collettivo, proprietari e giocatori giunsero senza troppi problemi a un accordo e il CBA venne così rinnovato per altri sei anni.
Pochi mesi dopo, mentre una lettera arrivava a David Stern, Derek Fisher stava per essere eletto nuovo presidente della NBPA.
La stagione 2010-2011 aveva fatto registrare un sensazionale aumento degli spettatori televisivi: i tifosi erano ritornati in massa a seguire la partite e in questo gli avvenimenti dell’estate precedente avevano giocato un ruolo chiave. Il talento presente in quel momento all’interno di entrambe le Conference andava oltre le aspettative di ogni appassionato e ci si preparava, dunque, a un futuro che poche volte era apparso così prospero.
Bisognava però considerare anche la faccia meno allettante della medaglia. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa durante il weekend dedicato all’All-Star Game, David Stern aveva evidenziato una situazione economica insostenibile per la lega, tale da far riportare un disavanzo annuale pari a oltre 300 milioni di dollari. C’era bisogno di una revisione degli accordi presi nel 2005 e, sempre a detta del numero uno della NBA, il sindacato dei giocatori sembrava averlo capito. Meno di due ore dopo, nel suo turno davanti ai giornalisti, Billy Hunter aveva chiarito che né lui né il sindacato erano convinti della fondatezza delle cifre di cui Stern parlava; da mesi inoltre il direttore esecutivo suggeriva apertamente di prepararsi per un nuovo lockout. Le differenze di vedute apparivano ancora più ampie di quelle che avevano portato all’interruzione tredici anni prima.
Tra le proposte del commissioner per ridurre il deficit c’era quella di diminuire del 40% i salari dei giocatori (per un ammontare di circa 800 milioni di dollari) e istituire nuove regole che favorissero la competitività negli anni a seguire. A scrivere a Stern nel 2006 erano stati i proprietari di alcune delle franchigie dal cosiddetto small market, lamentandosi delle costanti perdite a cui un sistema come quello della lega americana li condannava. Se da un lato la volontà della NBA di riformare appariva inflessibile, la NBPA non era pronta a fare delle concessioni del genere, appellandosi più volte all’incompletezza dei dati che venivano diffusi.
Per smuovere ulteriormente le acque, nel mese di maggio l’associazione giocatori presentò una denuncia contro la NBA, rea di aver minacciato ripetutamente la controparte facendo pressione per convincerla ad accettare le sue richieste. Ci volle ben poco per arrivare al 30 giugno (data di scadenza del CBA) con un nulla di fatto: le negoziazioni delle settimane precedenti erano servite più ai due schieramenti per ribadire le proprie posizioni che a trovare un accordo soddisfacente.
Il primo di luglio ebbe ufficialmente inizio il lockout e l’incertezza dei giorni successivi non corrispose a un’accelerazione delle trattative. Proprietari e giocatori – ai quali, secondo il contratto appena scaduto, spettava il 57% del BRI – si incontrarono nuovamente solo un mese dopo a New York, sede degli uffici NBA, con un risultato non diverso da quello delle sedute precedenti.
Fu la NBA a questo punto ad adottare una tattica offensiva: il 2 agosto il sindacato dei giocatori venne citato in giudizio per ‘comportamenti scorretti nel corso delle negoziazioni’. Si faceva riferimento alle reiterate minacce di dissolvere la NBPA, gesto che avrebbe permesso ai singoli cestisti di intentare delle cause antitrust (azione non consentita a un sindacato) nei confronti dei proprietari. Così facendo le questioni che avevano portato al lockout sarebbero state risolte per mezzo di un giudice federale. Una situazione del genere, tanto inedita quanto rischiosa, era da tempo nelle suggestioni di parecchi membri del sindacato e non solo. La risolutezza di Hunter e Fisher, il quale rispose all’insistenza delle voci su uno scioglimento con una lettera indirizzata ai suoi colleghi, allontanò questa ipotesi almeno temporaneamente.
Il momento però non era buono neanche per la controparte: la NBPA nel corso delle settimane aveva aperto a una riduzione della propria quota sul BRI, a patto che la struttura del salary cap non venisse intaccata. Se a quel punto alcuni dei proprietari (tra cui quelli di Knicks e Lakers, le due franchigie con i mercati più grandi in NBA) credevano di essere vicini a una svolta, gli altri non avevano nessuna intenzione di fare delle concessioni ai giocatori. Per quanto Stern provasse a tamponare la situazione, il disaccordo fra i padroni delle squadre era evidente e ciò per un breve periodo contribuì a rafforzare la posizione del sindacato.
Sul finire di settembre, con le parti ancora ben distanti, vennero annullati i training camp e le amichevoli precampionato: per la seconda volta nella storia della NBA si era arrivati a un punto di non ritorno. La tensione che caratterizzò le discussioni successive aumentò probabilmente anche per questo. Cancellare o anche solo posticipare la regular season rappresentava uno svantaggio enorme per tutti, eppure di lì a poco sarebbe diventata una scelta inevitabile.
Secondo un’analisi di ESPN la portata di una franchigia NBA non andava ricercata nel suo monte ingaggi ma nelle scelte al Draft, determinante principale dei successi di squadra: a sostegno della tesi poteva essere preso l’esempio dei San Antonio Spurs, che nonostante una realtà con meno appeal rispetto a tante altre nella lega avevano saputo costruire una lunga dinastia di vittorie. La questione salariale rimaneva comunque l’ostacolo principale per arrivare a una accordo. Mentre i giocatori cercavano di limitare le perdite in merito alla loro quota sul BRI, asserendo di non voler scendere sotto la soglia del 51%, i proprietari chiedevano un modello simile a quello della NFL, con degli stipendi che fossero maggiormente vincolati ai profitti ottenuti di anno in anno.
La stessa lega di football fino a pochi mesi prima aveva sperimentato una situazione identica: a marzo era stato indetto un lockout e le motivazioni erano molto simili a quelle che tenevano ferma la NBA. Benché in NFL nessuno stesse perdendo denaro (gli introiti aggregati corrispondevano a circa 9 miliardi l’anno, contro i 4 della pallacanestro) mancava il consenso sul nuovo CBA, in quel caso, per la gioia di tutti si arrivò però a un’intesa appena in tempo perché la durata della stagione non venisse modificata.
Nei loro incontri di metà ottobre, con l’inizio della stagione che era già stato cancellato, proprietari e giocatori della NBA avevano deciso di coinvolgere anche George Cohen, un mediatore con un lungo passato da consulente per i sindacati sportivi. Dopo trenta ore di negoziazioni in tre giorni non si era ancora arrivati a una soluzione. Come nel ’98, l’ostinazione di ambedue le parti difficilmente avrebbe portato a qualcosa senza la presenza di un termine ultimo per una riconciliazione.
Gli ultimatum della NBA arrivarono circa un mese dopo e nel frattempo Derek Fisher era stato accusato di condurre delle trattative segrete con Stern. Si vociferava di una differenza fra gli intenti del presidente della NBPA e quelli del direttore esecutivo Hunter, con il primo che si era mostrato accondiscendente verso una divisione 50-50 del BRI. Dopo una tempestiva smentita gli animi parevano essersi calmati, ma le divergenze tra i membri del sindacato non erano ancora terminate: aveva preso nuovamente piede l’idea di uno scioglimento.
Perché la dissoluzione fosse effettiva era necessario che almeno il 30% dei giocatori firmasse una petizione per porre così la questione ai voti, dove sarebbe infine servita una maggioranza semplice. Quando l’unione rifiutò quella che i proprietari avevano definito la loro proposta finale, si optò di comune accordo per una trasformazione del sindacato in trade association. L’entità del NBPA diventava così quella di consulente per i giocatori, non più rappresentabili in eventuali negoziazioni del CBA. Sebbene non ci fosse stato uno scioglimento, le differenze sostanziali con la natura precedente di labor union permettevano lo stesso ai cestisti di intraprendere delle class action nei confronti di lega e proprietari, cosa che successe esattamente il giorno dopo.
Oltre a Billy Hunter, a difendere i giocatori in tribunale ci sarebbe stato Jeffrey Kessler, avvocato che non molti giorni prima aveva rilasciato delle dichiarazioni al vetriolo sul mondo della NBA, salvo poi tornare sui propri passi e chiedere scusa. Le sue parole facevano però seguito a quelle di coloro che imputavano a Stern e ai proprietari (per la stragrande maggioranza bianchi) una mancanza di rispetto verso i giocatori dovuta al razzismo nei loro confronti. La vicenda che stava per passare dalle corti federali diventava ogni giorno più seria di quanto già non fosse.
Prima di arrivare alla fine della storia, vale la pena considerare come il lockout aveva – e avrebbe in futuro –influito col mondo esterno. Al mancato inizio della regular season erano seguite numerose proteste da parte delle istituzioni, con i sindaci di alcune delle città ospitanti una squadra NBA che erano arrivati a scrivere una lettera aperta per sollecitare il raggiungimento di un accordo. Le economie locali sembravano poter subire ancor più danni dei proprietari: si stimava che, per esempio, ogni partita casalinga dei Thunder valesse per la città di Oklahoma City oltre 1.3 milioni di dollari. D’altro canto in passato, durante i lockout delle più grandi leghe americane, non erano quasi mai state fatte registrare perdite significative: lo stop di una competizione sportiva non portava infatti a un annullamento della spesa dei singoli cittadini, ma con più probabilità a una sostituzione della stessa, dirottata verso altre attività o servizi.
Proprio di sostituzioni avrebbero potuto preoccuparsi invece i vertici della NBA. Con la stagione che a metà novembre sembrava un miraggio e quella che veniva definita una battaglia tra milionari e miliardari in corso, l’opinione pubblica era un altro elemento di cui tenere conto. Sarebbero i fan di tutto il mondo rimasti fedeli alla pallacanestro statunitense o avrebbero iniziato a preferirgli qualcos’altro, vista anche la comprensibile antipatia che si poteva provare per una situazione del genere? E inoltre: quanto le componenti della NBA avevano preso in considerazione le centinaia di impiegati che, lavorando nei pressi degli impianti sportivi, ogni giorno di più rischiavano di perdere il lavoro? Se la risposta a questa domanda fu ‘per niente’, gli ascolti della lega negli anni a seguire non avrebbero fatto altro che incrementare. Un piccolo merito va attribuito anche alle tante competizioni non ufficiali organizzate in estate. La stagione NBA era in pericolo ma i suoi campioni non avevano mai smesso di giocare: avevano solo trovato un altro modo per farlo – decisamente più accessibile.
Meno fortuna ebbe chi sperava in una migrazione delle superstar in Europa. Sul finire di luglio la FIBA autorizzò i trasferimenti dei giocatori della NBA in altri campionati, con una clausola che permetteva loro di tornare in America non appena il lockout si fosse concluso. A spingersi oltreoceano furono però una manciata di nomi interessanti (tra cui Danilo Gallinari, che tornò all’Olimpia Milano) e rookie o comprimari per il resto. Peraltro, poche settimane dopo essere approdati nelle rispettive nuove squadre, dovettero fare tutti i bagagli: a meno di dieci giorni dalla partenza delle class action, giocatori e proprietari avevano finalmente trovato un modo per far partire la regular season.
A dispetto della trasformazione formale del sindacato dei giocatori, la NBA non aveva smesso di discutere con loro, tentando di salvare la stagione in extremis. Il verdetto dei giudici poteva richiedere anni prima di essere emesso e per questo il 23 novembre si arrivò alla decisione di riprendere le trattative: due giorni dopo, al termine di un incontro durato 15 ore, le parti avevano raggiunto un accordo di massima, sciogliendo tutti i nodi principali relativi al CBA. La percentuale sul BRI spettante ai giocatori nel 2011-12 sarebbe scesa fino al 51% per poi oscillare, a seconda dei risultati economici ottenuti dalla lega, fino a un minimo del 49% negli anni a venire. Questo comportò una riduzione dei salari di circa 300 milioni di dollari e, benché nel contratto ci fossero diverse note positive per i giocatori (una fra queste era l’aumento del 10% del salary floor, corrispondente al minimo che ogni squadra doveva spendere in termini di stipendi totali garantiti) ancora una volta i proprietari risultavano essere i veri vincitori dello scontro. In particolare, coloro che operavano negli small markets – e che solo pochi giorni dopo avrebbero spinto Stern a porre il veto su una trade potenzialmente rivoluzionaria – avevano ottenuto grandi vantaggi in termini di competitività sul mercato dalle nuove regolamentazioni.
Derek Fisher e Billy Hunter erano seduti allo stesso tavolo quando, davanti a decine di giornalisti, annunciarono che il lockout era terminato e presto si sarebbe tornati in campo. L’1 dicembre, dopo una votazione a cui avevano aderito più di trecento giocatori, la NBPA tornò alla sua forma originaria di sindacato e una settimana dopo venne approvato ufficialmente il nuovo CBA: la pallacanestro poteva ripartire.
La stagione che seguì, cominciata il giorno di Natale e terminata con la vittoria del primo Titolo NBA di LeBron James, subì alcune inevitabili variazioni: il numero di partite venne ridotto a 66 e si resero necessari i back-to-back-to-back (presenti l’ultima volta nel 1998-99). In un contesto del genere, il rischio per i giocatori di subire infortuni aumentava esponenzialmente. A un lunghissimo periodo d’inattività si stava per aggiungere l’aumento di ritmi già di per sé estenuanti: sotto questo punto di vista, l’anno che si prospettava può essere messo a paragone con quello che stiamo vivendo adesso – al ritorno dalla bolla di Orlando i giocatori hanno avuto meno di due mesi per recuperare le energie e tornare ad allenarsi.
LA RESA DEI CONTI
Con il capitolo lockout alle spalle da cinque mesi, Derek Fisher aveva chiesto al comitato esecutivo della NBPA di rivedere insieme alcune delle pratiche commerciali: di tutta risposta, il comitato aveva votato all’unanimità le sue dimissioni, motivando questa scelta come conseguenza della sua mancata fiducia. Effettivamente Fisher non confidava affatto nei vertici del sindacato e aveva avanzato una tale richiesta perché, come emerse un paio di giorni dopo, parecchi degli accordi stipulati da Billy Hunter sembravano nascondere qualcosa.
A seguito di un’indagine svolta lungo il 2012, nulla di illegale sarebbe stato trovato, seppure molte delle operazioni effettuate da Hunter fossero servite palesemente più a un suo tornaconto che al sindacato. Parecchi dei suoi familiari erano stati coinvolti negli investimenti e la sua posizione era soggetta a un forte conflitto d’interessi.
In poco tempo l’executive director provò a sbarazzarsi di tutti quei legami che potevano comprometterlo: vennero licenziate le due figlie, entrambe impiegate presso la NBPA, oltre che interrotti i rapporti con la Prim Capital, società bancaria che tra i dipendenti vedeva suo figlio. Il presidente della stessa, venuti meno gli accordi con il sindacato, ammise successivamente di aver falsificato la firma di uno dei consiglieri per ottenere un contratto del valore di 3 milioni di dollari.
Billy Hunter non aveva migliorato la sua posizione e, in una mossa tutto fuorché inaspettata, venne estromesso dal suo ruolo il 16 febbraio 2013, dopo una votazione unanime dei giocatori. Ne sarebbe seguito un contenzioso legale in cui spesso Hunter accennò a delle trattative sottobanco tra Derek Fisher e David Stern in occasione del lockout del 2011 – oltre a questa, furono fatte anche altre fantomatiche accuse.
Derek Fisher e Billy Hunter erano stati seduti allo stesso tavolo per sette anni. Oggi abbiamo la certezza che nessuno dei due si fosse mai fidato dell’altro.
A luglio 2021, il presidente della NBPA è Chris Paul. Il ruolo di executive director è affidato a Michele Roberts.