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Storia di Lucy Harris, una cestista al Draft NBA

La NBA del 1977 era qualcosa di molto diverso rispetto a ciò a cui assistiamo oggi. Per cento motivi. Impatto mediatico, con il baseball che in quegli anni dominava tra gli sport di squadra. Regole del gioco, con la lega che non aveva ancora approvato la linea da 3 punti. Stile di gioco, con i grandi centri che dominavano la scena; e tra i restanti 97, anche che gli Utah Jazz non risiedevano nello Utah. Ma a a New Orleans.

I Jazz erano una franchigia di seconda fascia, con risultati tutt’altro che esaltanti in campo e problemi economici fuori. Dalla sua fondazione, tre anni prima, la franchigia non era mai riuscita a costruire un roster di livello, mentre gli introiti soffrivano la mancanza di supporto locale. L’unica nota lieta era stato lo scambio che aveva permesso a Pete Maravich di approdare nella patria del carnevale. Ma anche il campione di Aliquippa, uno dei più grandi interpreti nella storia della pallacanestro, era stato preso più per vendere biglietti che per reali ambizioni di successi. Nei cinque anni in Lousiana, Maravich non centrò mai la qualificazione ai play off. Di fatto, New Orleans era una squadra marginale nella NBA.

Nel 1977 quindi, privi di grandi ambizioni per l’imminente stagione e privi anche della possibilità di scegliere tra le prime posizioni al Draft, i Jazz pensarono di approfittarne per fare un po’ di pubblicità. Così, quando la franchigia arrivò alla sua settimana pick, decise di selezionare una giovane cestista, Lusia Lucy Harris. 137° atleta ad essere chiamata sui 170 finali.

Lucy Harris non era una “signorina nessuno” nel mondo della pallacanestro, anzi. La ragazza, 192 cm per 84 kg, era diventata famosa come il centro più dominante del basket femminile collegiale. Aveva guidato la sua università, Delta State di Cleveland nel Mississipi, a vincere tre tornei nazionali consecutivi, con una media di 25 punti e 15 rimbalzi l’anno. Lo schema della Delta State, famoso in tutto il mondo collegiale, era molto semplice: Give the Ball to Lucy.

Nel 1976, oltre ai successi di squadra, era arrivata anche l’affermazione con la nazionale. Dopo l’oro ai giochi panamericani del 1975, infatti, Harris aveva partecipato con gli USA anche a Montreal 1976 ottenendo la medaglia d’argento. In Canada, nella prima Olimpiade in cui venne disputato il torneo femminile di basket, la Harris guidò gli USA al secondo posto, alle spalle dell’allora imbattibile Russia. Lusia fu la leader tra le sue, prima per punti e rimbalzi.

Al settimo giro di Draft di quel 10 giugno, quindi, i Jazz scelsero Lusia Harris, figura di punta del crescente basket femminile. La mossa fu dichiarata immediatamente come puro marketing per far parlare della franchigia. Anche perché, al di là di Pistol Pete – che quell’anno sarebbe diventato miglior marcatore della lega – non vi era poi molto da dire a proposito dei Jazz. Il general manager e fautore della scelta Lewis Schaffel, qualche anno dopo, ricordando l’episodio, dirà ridendo che Harris sarebbe stata più forte di tutto il resto della squadra.

La trovata comunque centrò in parte il suo obiettivo e suscitò discreto scalpore, anche perché rese Lucy Harris l’unica donna ad essere mai stata selezionata al Draft NBA. Golden State nel 1969 aveva infatti scelto Denise Long, Warrior Girl, ma la lega aveva invalidato la scelta: allora, se eri una ragazza non potevi giocare. Poi le regole cambiarono, e il vincolo fu eliminato, offrendo  l’opportunità ai Jazz di scegliere Lusia Harris nel 1977 e due anni dopo l’occasione a Anne Meyers di fare un provino per gli Indiana Pacers. Ad oggi, nel regolamento, continuano a non esserci divieti per le franchigie che impediscano di ingaggiare giocatrici.

La carriera di Lucy Harris in NBA, comunque, non iniziò mai. Nonostante la soddisfazione per la scelta infatti, il centro 22enne non manifestò mai un vero interesse a far valere la chiamata. Come ribadito in un’intervista del 2018, sapeva benissimo che era solo una trovata pubblicitaria. Realismo si, ma anche modestia: una qualità che emergerà in ogni sua dichiarazione. E anche nel ’77  le motivazioni addotte fecero riferimento alla consapevolezza di non avere reali possibilità di giocare ma anche a una gravidanza che le avrebbe impedito, in ogni caso, di partecipare ai Training Camp. Con la maternità infatti arrivò anche uno stop di due anni. La sua carriera terminerà poi nel 1980, nella neonata lega professionistica femminile. Sarà scelta alla numero tre dalle Houston Angels, ma giocherà solamente un anno per poi ritirarsi.

Il riconoscimento unanime attribuito alla Harris, però, non è la chiamata al Draft nel ’77. Il merito che le viene maggiormente dato oggi, infatti, è l’apporto allo sviluppo del basket femminile negli USA. Sono le statistiche nei quattro anni di Università ad impressionare, oggi come allora. La Harris concluse la propria carriera collegiale con un record di 106 vittorie a fronte di sole 9 sconfitte. E probabilmente è anche grazie a Lusia se nel 1975 il campionato femminile di pallacanestro venne trasmesso per la prima volta in diretta televisiva nazionale. Ovviamente la sua Delta State University trionfò, rimanendo imbattuta. 28 partite vinte a fronte di 0 sconfitte. A tutto questo si aggiunge, naturalmente, il successo olimpico. La chiamata al Draft è, a suo modo date le dietrologie di marketing, celebrazione della carriera di Lusia come cestista e non suo momento topico.

Dopo il ritiro la carriera della Harris è proseguita fuori dai riflettori, con molto meno rumore rispetto ai suoi anni di attività agonistica. Se infatti Anne Meyers è rimasta nel circuito NBA e WNBA, di Lusia negli ultimi anni si è persa traccia. Probabilmente per indole personale e scelte di vita. La sua carriera post ritiro infatti è legata nel profondo al suo Stato di origine, il Mississipi. Una volta smesso di giocare infatti ha lavorato per due anni come assistente nelle Houston Angels in WNBA. Poi il ritorno a casa, prima alla Delta University e infine nella sua città natale, Greenwood, come insegnante negli istituti locali.

Nonostante la Harris si sia allontanata dalla pallacanestro ad alti livelli, la NBA prima e la WNBA poi, ne hanno voluto omaggiare i meriti. Nel 1992, infatti, la Naismith Memorial Basketball Hall of Fame l’ha inserita, assieme a Nera White, nel pantheon dei grandi del basket. Le prime due donne della storia a ricevere questa onorificenza sportiva. Lucy prima afroamericana in assoluto. Successivamente, nel 1999, anche la neonata Women’s Basketball Hall of Fame l’ha iscritta nella propria lista.

Insomma, Lucy Harris è un personaggio molto più grande della sola chiamata al Draft del 1977. Una campionessa in grado di vincere in quattro anni di college tre titoli e una medaglia olimpica. Ma anche una cestista avulsa alle logiche commerciali e mediatiche dello sport di oggi. E che non pare mai essersi resa conto davvero del suo impatto sul mondo della pallacanestro. Conservando la modestia che ha sempre dimostrato, da atleta e non. Come nel 1997 quando chiese, con sguardo serio, a un giornalista che la stava intervistando, se sarebbe stato possibile avere un autografo di Karl Malone, perché le piaceva molto. Harris era già Hall of Famer.

O come 20 anni prima, quando, alla chiamata al Draft dei Jazz, rispose con una risata.

 

Articolo pubblicato la prima volta il 6 giugno 2020

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Pubblicato da
Gianmaria Concetti

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