Primo Piano

NBA Wars: Nike vs. Adidas Ep. 2 | Un paio di Nike per Michael Jordan

(Credits to esquire.com)

Dove eravamo rimasti?

Nella prima puntata (che potete recuperare qui) della guerra fra Adidas e Nike combattuta sul campo della NBA, abbiamo parlato degli albori di questa rivalità, infuocatasi sul finire degli anni ’70. Le tre strisce si affermarono come la principale casa produttrice per i giocatori a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, togliendo il primato a Converse che, suo malgrado, imboccò il lento ma inesorabile viale del tramonto. Lo Swoosh, invece, entrò in NBA qualche anno più tardi, passando per la NCAA e guadagnandosi in seguito una buona fetta di Star NBA.

In questo secondo episodio ci lasciamo dunque alle spalle gli anni ’70, riprendendo da dove ci eravamo lasciati, ovvero gli anni ’80 e più precisamente un anno ben preciso, il 1984. È l’epoca in cui la rivalità fra Los Angeles Lakers e Boston Celtics infiamma i parquet della lega. Soprattutto, è l’inizio dell’epoca Michael Jordan che, oltre a incantare migliaia di spettatori, si rende inaspettatamente e forse inconsapevolmente il protagonista del punto di svolta per la guerra fra Nike e Adidas. Per capire il perché, bisogna partire dall’inizio.

 

Episodio 2 | Un paio di Nike per Michael Jordan

È fine estate 1984, e Michael Jordan si trova in visita ai quartieri generali di Nike a Beaverton, in Oregon. La struttura non è nemmeno lontanamente vicina al complesso ipertecnologico che diventerà pochi anni più tardi, e Jordan cammina in mezzo a due palazzi piuttosto spogli, con lo sguardo fisso verso il basso e la testa altrove. È appena tornato dalle Olimpiadi di Los Angeles, e in quel momento vorrebbe solamente essere sdraiato sul divano di casa sua, per riposarsi in vista della sua prima stagione in NBA.

Di fianco a lui camminano suo padre James e sua madre Deloris, poi Peter Moore e Rob Strasser, rispettivamente designer e responsabile marketing di Nike. Mentre il gruppo attraversa il parco fra gli edifici dell’azienda, i due impiegati Nike, sorridendo, illustrano alla famiglia Jordan la loro storia, i loro traguardi e i loro piani futuri. Michael, però, non sorride nemmeno una volta. Sa che stanno cercando di convincerlo a firmare con loro, ma ha già chiesto più volte al proprio agente di fare tutto il possibile perché possa incontrare Adidas, brand di cui si è innamorato da adolescente e che ha indossato per tutto il periodo dell’high school. Nonostante la riluttanza iniziale, basteranno i successivi venti minuti perché il futuro sei volte campione NBA cambi idea. A cambiare con una singola firma sarà anche la storia della pallacanestro: forse né Michael Jordan né gli impiegati Nike potevano immaginare l’impatto che avrebbe avuto sulla NBA, su Nike e sulla cultura americana.

Tutti gli occhi per Michael Jordan

Flashback al 1983. Rob Strasser, il dirigente Nike che assunse Sonny Vaccaro nel 1977, lascia sulla scrivania del fondatore Phil Knight una nota. In quelle poche righe Strasser fa presente al suo superiore che, secondo lui, i tempi sono ormai maturi perché l’azienda cominci a produrre proprie signature shoes, ovvero scarpe fatte su misura per un singolo atleta. Dagli anni ’70 Nike è cresciuta piuttosto in fretta: il fatturato dell’azienda è balzato dai 28,7 milioni di dollari del 1973 agli oltre 850 milioni del 1983; ha poi lanciato per l’NBA le innovative Air Force 1, ovvero le prime scarpe da basket con cuscinetti d’aria incorporati nelle suole, per rendere più sicuro l’impatto con il parquet dei giocatori. Insomma, l’azienda sta guadagnando ampi consensi all’interno della lega, ed è nelle condizioni di poter ambire a raggiungere Adidas per quanto riguarda le sponsorizzazioni e i contratti con i giocatori. Eppure, dopo una crescita vertiginosa, in quell’anno lo Swoosh vive il primo vero periodo di transizione della sua giovane storia, registrando la prima perdita trimestrale: per espandersi nel mercato della pallacanestro, il marchio ha dovuto stravolgere la sua struttura originale, licenziando e ricollocando diversi impiegati. Secondo Strasser, dunque, serve qualcosa per riportare in carreggiata la compagnia e allo stesso tempo non perdere terreno nei confronti di Adidas. Quel qualcosa può essere appunto rappresentato dalle quelle scarpe speciali, sulle orme di Puma, che per prima le introdusse in NBA nel 1973. Come fare? Bisogna cercare un giocatore con un impatto mediatico potenzialmente molto alto, come fatto qualche anno prima con George Gervin. Serve un nuovo orizzonte temporale.

I nuovi orizzonti di Nike hanno in realtà un’identità ben precisa: Sonny Vaccaro. Come abbiamo visto nel primo pezzo di questa serie, Vaccaro era stato assunto nel 1977 perché Nike potesse agevolmente farsi strada nel mondo della pallacanestro, sulla base di accordi di sponsorizzazione con gli allenatori delle high school e delle squadre di NCAA, per poi arrivare ai singoli giocatori NBA. In quel girovagare fra talenti di livello più o meno assoluto, Vaccaro, insieme ad altri scout Nike, mette gli occhi su alcuni giocatori dal futuro piuttosto promettente. I loro nomi sono Charles Barkley, Sam Bowie e Michael Jordan.

Ora è necessario tornare ai giorni nostri per aprire una piccola parentesi. Esistono innumerevoli versioni su chi effettivamente abbia scoperto Michael Jordan per primo in casa Nike. Immaginate di avere davanti agli occhi il giocatore che a posteriori verrà identificato come quello con il più alto impatto mediatico di sempre, come colui che per acclamazione viene considerato il più forte della storia della pallacanestro. Risulta dunque logico pensare che chiunque voglia essere considerato il primo in assoluto ad averlo scovato, e che quindi chiunque voglia prendersi i meriti sull’averlo convinto a firmare per lo Swoosh. Potrebbe essere stato merito esclusivo di Vaccaro, oppure di Strasser, oppure ancora dello stesso Michael Jordan e del suo agente David Falk. Magari, più semplicemente, si tratta del merito congiunto di Vaccaro e di Strasser, che incontrarono il favore di Jordan e Falk grazie a delle scarpe speciali progettate dal designer Peter Moore.

Noi decidiamo di proseguire la nostra storia con la versione più accreditata dalla stampa americana, ovvero quella in cui ognuno di loro ha avuto un ruolo fondamentale nel portare Jordan in Oregon. Decidiamo quindi che proprio Sonny Vaccaro sarà il primo impiegato Nike a notare un ragazzo al terzo anno della North Carolina. Viene invitato alla finale del torneo NCAA nel 1982: è la partita in cui Jordan segna il tiro della vittoria allo scadere. Per Vaccaro è già abbastanza: secondo lui potrebbe essere il giocatore più completo degli ultimi anni; forse di sempre. In effetti, Michael Jordan ha tutto quello che si può chiedere da  un potenziale crack della pallacanestro: atletismo, forza, resistenza; carisma. Tornato al quartier generale di Nike, Vaccaro va dritto da Strasser dicendogli di fare di tutto per trovare un contatto con Michael Jordan e fargli siglare un accordo per le prime signature shoes della giovane storia di Nike.

 

Michael Jordan a cena con Sonny Vaccaro all’evento di lancio delle Air Jordan nel 1984. (credits to menzig.es) 

Occasioni perse

L’agente di Michael Jordan, David Falk, ha appena trentaquattro anni. Nonostante questo, lavora per diversi giocatori NBA, fra i quali spicca Moses Malone. Prima dell’estate 1984 Falk e Jordan si sono incontrati faccia a faccia solamente in un paio di occasioni, e proprio per questo pochi giorni dopo il Draft NBA Falk ne approfitta per presentarsi alla famiglia Jordan, a casa loro. È in quella stessa occasione che Falk fa notare al suo cliente che diverse aziende produttrici di scarpe sono interessate ad averlo sotto contratto, e che quindi i due dovrebbero mettersi all’opera per cercare un accordo con una di loro, iniziando tutta la trafila di contatti e negoziazioni con i principali marchi. Michael concede carta bianca a Falk, lasciando che il suo agente si occupi di gestire i futuri incontri con potenziali nuovi partner, a una sola condizione: che Adidas abbia la precedenza su tutti gli altri.

 

Michael Jordan sfoglia il contratto appena firmato con i Chicago Bulls nel 1984, insieme a Rod Thorn, General Manager della franchigia dal 1978 al 1985. (credits to chicagotribune.com) 

Tuttavia, la casa tedesca è piuttosto lenta nell’offrire un contratto a Michael Jordan nei giorni che seguono il Draft. Non che pensino che MJ non valga nulla, anzi: il fatto è che Adidas si trova nel momento peggiore della sua storia. Dopo la morte del fondatore Adi Dassler nel 1978, sua moglie Kathe ha preso in eredità l’azienda, con le sue quattro sorelle e suo figlio Horst a dirigere differenti divisioni. Anche i mariti delle sorelle sono coinvolti nell’azienda, creando di conseguenza un enorme conflitto di interessi. Nel momento in cui Jordan esce dal college, il focus dell’impresa è su un’intesa che metta d’accordo tutte le parti interne e permetta di avere così un piano per il futuro che non crei più disordini. Detto diversamente, Michael Jordan non è la loro priorità assoluta in quel momento.

Nella docu-serie The Last Dance, David Falk ricorda: “Adidas era molto disfunzionale in quel momento. Mi dissero: ‘Sì, ci piacerebbe molto avere Jordan. Solo che non possiamo lavorare a nuova scarpa che funzioni in questo momento”.

Mentre Adidas pondera il da farsi, David Falk organizza per il suo cliente un incontro con Converse. In realtà Michael non è del tutto convinto della possibilità di firmare per Converse, perché l’azienda è ancora titubante nell’utilizzare il cuoio per fabbricare le proprie scarpe, visto anche il declino della compagnia nel decennio precedente. In altre parole, non ha lo stesso livello di innovazione di Adidas; ma per via degli ottimi rapporti con il coach di North Carolina, Dean Smith (che viene pagato 10.000 dollari l’anno da Converse per far vestire il brand ai propri giocatori), si presenta comunque all’incontro.

 “Eravamo seduti in una sala conferenze” ricorderà qualche anno dopo l’agente di Jordan, “ed esordirono in modo piuttosto determinato, dicendo di identificarsi come l’essenza del basket vero e proprio, avendo sotto contratto gente come Magic, Bird, Dr. J, Mark Aguirre.”

Michael fa semplicemente una domanda: “Con tutte queste star, io dove mi posizionerei?” Dopotutto, era logico aspettarsi un trattamento minore di fronte a nomi del genere. In fondo, MJ non vuole questo: forse, con quella semplice domanda,  cerca di nascondere i suoi desideri.

“Mi dissero che non riuscivano a vedermi come una priorità, non potevano collocarmi davanti a loro” ricorda lo stesso Jordan nella docu-serie The Last Dance. 

“Ci offrirono 100.000 dollari l’anno”, dirà sempre Falk. “Jordan Sr. pressava perché accettassimo l’offerta, dopotutto era un buon contratto. Ma  Jordan era fissato con questa idea dell’innovazione tecnologica, e sapeva che Converse era piuttosto indietro rispetto alle altre aziende sotto questo aspetto. Così quando chiese ai dirigenti di mostrargli alcune idee innovative per il futuro, loro rimasero in un silenzio tombale.”

 

Larry Bird e Magic Johnson in posa per la campagna pubblicitaria delle Converse Weapon nel 1985. Evidentemente due star del loro calibro non bastarono a convincere Jordan. In ogni caso, il marchio Converse uscì definitivamente dai circuiti NBA nella decade successiva. (credits to Sneakerpedia.com)

L’occasione di Nike

Con Adidas che tarda a siglare l’accordo della vita e Converse già fuori da ogni trattativa, Nike ha la possibilità di cogliere la palla al balzo e mettere sotto contratto Michael Jordan. MJ, però, non ha mai indossato un paio di Nike in vita sua. L’azienda, dal canto suo,  ha un disperato bisogno di qualcuno come lui, per i problemi societari che sta affrontando, e se riuscisse anche solo a farlo imbarcare su un aereo per l’Oregon, Sonny Vaccaro e Rob Strasser farebbero di tutto per fargli cambiare idea. Per loro fortuna, l’agente di Michael, David Falk, è in ottimi rapporti con Nike e i suoi collaboratori, soprattutto con Rob Strasser.

Lo Swoosh è infatti il principale contatto di Falk: molti suoi clienti, come Bernard King, Phil Ford e Moses Malone, sono sponsorizzati dalla compagnia dell’Oregon. Far siglare un accordo fra l’azienda e Jordan per Falk può significare dunque un’iniezione di fiducia da parte di Nike e, di conseguenza, la possibilità di trattare una percentuale più alta per il suo contributo: dopotutto avrebbe portato alla corte di Phil Knight fior fiori di atleti. Ha perciò tutte le ragioni del mondo per convincere il nuovo giocatore dei Bulls almeno a presentarsi al quartier generale di Beaverton.

“Non ho alcun interesse ad andare lì, fai tutto ciò che serve per avere Adidas”, risponde però Michael all’ennesima proposta di incontrare il management di Nike.

Quello che MJ non ha realizzato, forse, è il fatto che Falk sia determinato a provare tutte le strade possibili per far sì che un incontro avvenga. L’agente telefona così ai genitori di Michael, James e Deloris, dicendo loro che ha bisogno dell’intera famiglia per una presentazione. Michael non oppone resistenza ai genitori, in particolare alla madre, che lo convince a fare i bagagli per l’Oregon insieme a loro.

“Mia madre venne da me dicendomi: ‘li ascolterai. Potrebbe non piacerti quello che diranno, ma li ascolterai comunque’. Mi mise su quell’aereo e io li ascoltai”, ricorda Jordan in The Last Dance.

Quando la famiglia Jordan arriva a Beaverton, viene accolta in una grande sala conferenze da Rob Strasser, Peter Moore e le persone responsabili per le operazioni inerenti alla pallacanestro, ovvero Howard White e lo stesso Sonny Vaccaro. I quattro proiettano sulla parete un video che riassume i momenti più significativi di Jordan con North Carolina, sulla base della canzone Jump delle Pointer Sisters. Terminata la proiezione, Moore lascia fra le mani di Michael un paio di scarpe disegnate per l’occasione, di colore rosso e nero, un chiaro riferimento ai Chicago Bulls.

“Sapete perché preferisco Adidas?” risponde Jordan, per nulla impressionato dal regalo appena ricevuto. “Perché le loro scarpe sono più basse, più vicine al terreno di gioco”

“Non c’è problema. Possiamo modificarle in base alle tue richieste”.

È a questo punto che Michael lascia trapelare, per la prima volta dal suo ingresso nello stabilimento, un minimo di stupore, inarcando le sopracciglia. “Modificarle in base alle tue richieste?” Nessuna azienda fa una cosa del genere: negli anni ‘80 i giocatori indossano quello che l’azienda fabbrica.

Le sorprese, però, non finiscono qui. Il gruppo si sposta in un’altra stanza, dove a Jordan vengono mostrate alcune idee future. Strasser e Vaccaro hanno studiato tutto nei minimi dettagli, come due studenti che vogliono diplomarsi con il massimo dei voti il giorno del loro esame di maturità. Sanno che Michael è fissato con la tecnologia e, soprattutto, sanno che è un aficionado di macchine sportive. Viene perciò accompagnato in quello che sembra un garage, mentre Strasser mostra due chiavi al nuovo giocatore dei Bulls. Sembra voglia dire: “Se firmi per noi, ad aspettarti ci sarà molto di più di quello che ti abbiamo mostrato”. Il giocatore ha la conferma quando Strasser e Vaccaro escono dal garage a bordo di due Mercedes coupé. È la mossa vincente.

Più tardi quella sera, a cena, Falk chiede a Jordan, che era rimasto praticamente in silenzio per tutta la durata della visita a Nike, cosa ne pensa ora dell’opportunità di firmare con lo Swoosh.

“Non voglio andare ad un altro meeting. Firmerò con Nike”, fu la risposta di Michael.

Per la stagione 1984-85, Nike ha un budget di 500.000 dollari per le sponsorizzazioni, che  spera di dividere fra almeno tre giocatori: lo stesso MJ, poi Charles Barkley e Sam Bowie. Vaccaro, però, consiglia di offrire l’intero budget a Jordan.

Leggende metropolitane

Anche qui, volendo aprire una seconda parentesi e tornare al presente, le opinioni sulla vera somma offerta sono contrastanti. Se Vaccaro è sempre stato sicuro si trattasse di 500.000 dollari, ribadendo la cifra in più interviste, Howard White, manager Nike apparso in The Last Dance, ha ridimensionato di molto quel numero, stimandolo attorno ai 250.000 dollari l’anno. Quel che è certo è che si trattava di una cifra da capogiro per l’epoca, soprattutto per una matricola: il contratto più alto nel 1983 era quello che legava James Worthy a New Balance, sulla base di 150.000 dollari l’anno per otto anni.

Tornando al 1984, comunque siano andate le cose, per proteggere il suo investimento Nike include tre differenti clausole: per onorare i cinque anni di contratto, Jordan deve vincere il premio di Rookie dell’anno, diventare un All-Star o tenere una media di almeno 20 punti a partita entro i suoi primi tre anni da professionista.  In caso contrario Nike terminerà l’accordo con due anni di anticipo. Così, a settembre 1984, Michael Jordan diventa endorser Nike, e la casa produttrice comincia a promuovere le scarpe, facendole indossare al giocatore e cominciando a elaborare diverse campagne di marketing.

Nella sua prima partita NBA con i Chicago Bulls, una gara di pre-season dell’ottobre 1984, Michael indossa però un paio di Nike Air Ship bianche e rosse, un modello molto simile alle sue nuove signature shoes, che esiste anche nelle versioni bianco-grigio – e nero-rosso. Il numero 23 gioca la partita di pre-season del 18 ottobre contro i New York Knicks proprio indossando quest’ultimo modello nero e rosso, al Madison Square Garden. La NBA, da sempre molto ferrea in materia di regole da rispettare, nota quei colori inusuali, che vanno contro la “uniformity rule”, ovvero l’obbligatorietà per i giocatori di indossare scarpe dello stesso colore delle uniformi della squadra. Jordan, dunque dovrebbe smettere immediatamente di indossarle, pena una multa da 5.000 dollari per lui, ogni qualvolta le avrebbe indossate.

Nike va però in controtendenza, o meglio, farà indossare al suo giocatore le Air Ship solamente nelle colorazioni bianco-rosso e bianco-grigio per l’intera stagione, ma prenderà spunto da quel divieto per una delle campagne di marketing più efficaci della sua storia. Le Air Jordan vengono infatti lanciate sul mercato solamente nella primavera del 1985, e in concomitanza con l’All-Star Game comincia a diffondere uno spot pubblicitario che ricalca il suddetto divieto imposto dalla NBA.

“Il 15 settembre, Nike ha creato una nuova, rivoluzionaria, scarpa da basket”, recita lo spot. “Il 18 ottobre, l’NBA le ha vietate sui parquet. Fortunatamente per voi, l’NBA non può vietarvi di indossarle.”

 

 

Nel frattempo, Jordan indossa proprio quelle scarpe durante lo Slam Dunk Contest, dove tecnicamente l’NBA non può multarlo, poiché la “uniformity rule” è applicabile solamente per partite ufficiali NBA, non in una manifestazione quale la gara delle schiacciate. Tutto ciò contribuisce a creare un’attesa snervante fra i tifosi che aspettano di comprare le scarpe di MJ, cosa poi possibile a partire dal marzo del 1985 al prezzo di 65 dollari.

In effetti, lo spot dà l’impressione che le prime scarpe a essere vietate fossero proprio le Air Jordan rossonere, e non le Nike Ship: in altre parole, una volta bannate le Ship dai colori rossoneri, è logico pensare che a essere vietate fossero anche le Jordan I. Cosa vera, ma non perché la Lega avesse preso di mira proprio loro, vietando espressamente al giocatore di indossare quelle Jordan I, ma perché come le Ship non rispettavano la uniformity rule. Si trattò di un furbo espediente commerciale, per incrementare le vendite anche per gli anni a venire. Tutto ciò creò così una vera e propria leggenda metropolitana che contribuì ad alimentare il mito delle prime Air Jordan, secondo la quale lo stesso MJ le indossò comunque per tutto l’arco della sua prima stagione infrangendo la regola, con Nike a pagare ogni singola multa, perché poteva essere un modo indiretto di creare pubblicità (vi basterà fare un giro sulla sezione commenti di YouTube del video qui sopra per credere). In realtà, il giocatore dei Bulls non indossò mai scarpe rossonere fra il 1984 e il 1985 se non durante il suddetto Slam Dunk Contest: piuttosto, indossò le Ship nella prima parte di stagione, per poi alternarle con le Air Jordan I biancorosse per la seconda parte di regular season.

In ogni caso, sviando da ogni lezione di marketing sul lungo periodo e tornando ancora una volta alla nostra storia, le vendite di quelle scarpe superano ogni più rosea aspettativa del team Nike, e nel bilancio di fine anno dell’azienda Phil Knight scrive semplicemente che le Air Jordan sono state “la perfetta combinazione di un prodotto di qualità, di una campagna di marketing efficace e di un ottimo endorsement da parte dell’atleta.”

“Secondo le previsioni Nike, entro la fine del quarto anno di contratto le vendite avrebbero raggiunto il valore di 3 milioni di dollari per le Air Jordan. Al termine del primo anno vendettero per 126 milioni di dollari”.

— David Falk, agente di Michael Jordan

 

Michael Jordan allo Slam Dunk Contest del 1985, indossando le Air Jordan 1 rossonere. (credits to nba.com)

Concludiamo il secondo episodio di NBA Wars: Nike vs. Adidas tornando ad anni più recenti, solamente per dimostrarvi cosa sia diventato il brand Jordan oggi. Nel 2012 ha venduto scarpe per un valore di 2.5 miliardi di dollari, il suo anno migliore, secondo il sito per i mercati retail SportsOneSource.com. Non solo: nello stesso anno le Air Jordan costituivano il 58% del mercato americano delle sneakers, e il 77% del mercato delle sneakers per bambini e ragazzi. Molti di loro non hanno nemmeno mai visto Michael Jordan giocare.

Howard White, il manager Nike che è apparso nel quinto episodio di The Last Dance, in più interviste ha descritto la perplessità iniziale di quel contratto.

“Dare tutti quei soldi ad un rookie? Che non aveva ancora dimostrato nulla? Dovete essere fuori di tesa”.

“Sonny continuava a dire ‘È lui il ragazzo, è lui il nostro uomo’. Ma non sapevamo cose volesse dire davvero. Nessuno di noi pensava che sarebbe andata come è poi effettivamente andata”

Nemmeno Jordan. E sicuramente nemmeno Adidas, che se potesse tornare indietro non esiterebbe nemmeno un secondo a dare quel contratto al giocatore, pur con tutti i problemi societari del caso. Il brand Nike sarebbe diventato così famoso in così poco tempo senza di lui? Firmandolo, Adidas avrebbe spazzato via la rivale? Non ci sono risposte certe. Quel che è invece sicuro è che ora vedremmo una pallacanestro differente, con marchi diversi. Probabilmente, giocatori diversi, stili di gioco diversi; la cultura cestistica stessa potrebbe essere completamente diversa da come la conosciamo oggi. In realtà, non lo sapremmo mai.

Nel prossimo episodio

La prossima settimana vedremo come si sono comportate i due colossi fra la fine degli anni ’80 e tutti gli anni ’90. L’episodio ruoterà attorno alle pubblicità e alle campagne di marketing di Nike, che permisero alla compagnia di instillare una vera e propria cultura per le sneakers. Allo stesso tempo, vedremo il declino di Adidas, fino a toccare il fondo, dal quale la compagnia tedesca riuscirà a risollevarsi solamente con l’arrivo di un giovane Kobe Bryant. Insomma, come al solito ci saranno ancora un sacco di cose di cui parlare: non ci resta che darci appuntamento a martedì prossimo.

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Pubblicato da
Andrea Capiluppi

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