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NBA Wars: Nike vs. Adidas Ep.3 | Alto tradimento

Credits to John Ritter – pdxmonthly.com

 

Dove eravamo rimasti?

Nella seconda puntata di NBA Wars: Nike vs Adidas (se l’avete persa potete recuperarla qui, mentre la prima puntata è qui), abbiamo analizzato il ruolo che Michael Jordan ha inconsapevolmente, almeno all’inizio, giocato nella guerra fra i due colossi. Nonostante la titubanza nell’apporre la sua firma su un contratto Nike, grazie alla collaborazione dei principali manager dell’azienda, dell’agente David Falk e persino dei genitori, MJ ha finito con l’indossare lo Swoosh nella sua prima stagione NBA, a scapito della più quotata Adidas. Nel frattempo, l’azienda tedesca vive le prime avvisaglie di crisi organizzativa in seguito alla morte del fondatore Adi Dassler.

In questo episodio vedremo a fondo proprio i difficili momenti di Adidas fra gli anni ’80 e ’90, per poi scoprire come si sia ripresa solamente dopo essere stata ad un passo dalla bancarotta. Saranno necessarie tre persone, ognuna delle quali giocherà un ruolo diverso in tempi differenti nella storia della rivalità fra Nike e Adidas: si tratta di un manager, di un designer e di una giovane matricola dei Los Angeles Lakers. Per capire di chi si tratta, bisogna però fare un salto indietro, al 1978.

 

NBA Wars: Nike vs. Adidas Ep.3 | Alto tradimento

Horst Dassler ha la consapevolezza di essere un visionario. Studia metodicamente ogni nuova proposta che arriva dal dipartimento di ricerca e sviluppo: ne approfondisce i dettagli finanziari, la fattibilità, le implicazioni che derivano dal lancio di un nuovo prodotto su uno specifico mercato. Analizza con anticipo i nuovi trend, sceglie con cura i partner commerciali: dopotutto, è stato l’uomo che ha fondato Arena nel 1973, un marchio destinato a diventare leader nella produzione di materiale per gli sport acquatici. Soprattutto, è stato l’uomo che a partire dagli anni ’70 ha portato un nuovo concetto di scarpe in NBA con le Supergrip, di fatto mandando in crisi Converse, che fino ad allora aveva un controllo totale sulla lega. Come molti visionari, però, Horst ha bisogno di tempo e di calma per studiare quello che gli sta intorno. E come molti altri visionari, Dassler non avrà nessuno dei due per portare a termine i suoi progetti.

Mentre Nike si propone come alternativa piuttosto valida all’azienda tedesca nell’industria delle sneakers, Horst si trova infatti nel bel mezzo di una bufera improvvisa. Dopo la morte del padre Adi, la madre Kathe diventa presidentessa della multinazionale nel 1978, con lo stesso figlio e le quattro sorelle a dirigere diverse divisioni. Non solo: anche i rispettivi mariti sono coinvolti nell’impresa, e ognuno di loro ha una visione diversa sulla direzione che l’azienda deve prendere dopo la scomparsa del fondatore. Per questo motivo, il figlio di Adi viene costretto a lasciare il suo ruolo di direttore della divisione francese per fare ritorno nel top management di quella tedesca. Si sente ridimensionato: il suo spirito innovatore viene soffocato dai compiti quotidiani che il ruolo di manager ora comporta; avrebbe bisogno di ossigeno, di uscire alla scoperta per soddisfare quella parte visionaria che ha portato il marchio Adidas in campi fino ad allora dominati da colossi che sembravano inaffrontabili.

A causa di tutto questo, l’impresa entra in crisi nel giro di poco tempo. La comunicazione non è ottimale, mentre le sorelle e i mariti cercano solamente un ritorno personale. Insomma, la compagnia vive un enorme conflitto di interessi che non fa altro che distogliere l’attenzione dalle richieste del mercato e, soprattutto, dalle azioni dei concorrenti. È proprio così che Adidas perde l’occasione di mettere sotto contratto Michael Jordan, che voleva indossare un paio di Adidas durante la sua prima stagione NBA più di ogni altra cosa. Come se ciò non bastasse, per via di questi dissapori l’azienda tedesca non introduce nessuna significativa innovazione per l’NBA, cosa che invece sta facendo proprio lo Swoosh. Serve quindi una scossa decisiva per riprendere il controllo del mercato se la compagnia non vuole vedere i suoi sforzi dissolversi rapidamente nel nulla come sta accadendo a Converse.

Horst Dassler (sinistra) con la madre Kathe (destra), poco dopo essere stato insignito dell’Ordine Olimpico dal Comitato Olimpico Internazionale. Nel quadro sullo sfondo appare Adolf “Adi” Dassler, padre di Horst e marito di di Kathe, nonché fondatore di Adidas, scomparso nel 1978. (Credits to textilwirtschaft.de)

Le cose sembrano poter cambiare nel 1985, quando viene a mancare Kathe. Horst viene nominato presidente di Adidas, per la sua costante presenza nella compagnia, per le sue infinite conoscenze e per la sua lungimiranza. Sembra che finalmente il figlio di Adi possa portare avanti le sue idee da visionario e invertire la rotta di un percorso che sta portando verso una violenta crisi. Eppure non sarà così. Horst è un visionario, dicevamo, e con molti di loro il destino è piuttosto crudele: pensiamo ad esempio a Steve Jobs, prematuramente scomparso nel momento migliore della sua carriera. Lo stesso accade a Horst Dassler nel 1987, portato via da un cancro, a 51 anni.

Si tratta di un durissimo colpo per tutti. Senza il suo nuovo uomo guida Adidas entra in crisi, è inevitabile. Accade così qualcosa di impensabile fino a pochi anni prima: le scarpe non trovano il consenso dei giocatori, vengono ritenute obsolete, tanto che sempre più atleti cominciano a preferire Nike, che ne approfitta per diventare il leader del mercato delle scarpe da basket, e come conseguenza l’azienda registra pesantissime perdite dopo la morte di Horst. Le sorelle, ancora troppo concentrate sull’ottenere un ritorno personale – qualsiasi esso sia, fama o soldi, lanciano prodotti di dubbio gusto, con scarpe dai mille colori diversi, ma che sostanzialmente non presentano alcuna innovazione tecnologica. La gestione dell’azienda di famiglia diventa troppo difficile senza i  personaggi guida, e le quattro donne se ne accorgono quando è ormai troppo tardi. Senza trovare un’intesa che metta tutti d’accordo, nel 1989 arriva così una decisione piuttosto sofferta: vendere tutto. Quando ormai si trova sull’orlo della bancarotta, l’azienda viene acquistata da Bernard Tapie, un imprenditore francese molto noto per aver salvato dal fallimento svariate aziende prima di Adidas. Per farlo, però, avrà bisogno dell’aiuto di due personaggi apparentemente insospettabili.

 

Un inaspettato capovolgimento di fronte

Mentre Adidas sta vivendo i momenti più bui della sua storia, Nike non ha davvero di che lamentarsi. Le vendite delle Air Jordan vanno a gonfie vele, tanto che nel 1985 vengono lanciate le Air Jordan II, e ne seguiranno molte altre. Da sempre elemento chiave dello Swoosh insieme all’innovazione tecnologica, il team marketing è molto abile nel promuovere ogni nuovo lancio, con campagne pubblicitarie creative e per nulla scontate, che non fanno altro che alimentare la notorietà del marchio.

“It’s gotta be the shoes!” è la famosa campagna pubblicitaria Nike del 1989, dove compaiono Michael Jordan e Spike Lee, quest’ultimo nei panni di Mars Blackmon, protagonista del film “She’s Gotta Have It”. 

Insomma, Nike ha la consapevolezza di essere nelle condizioni di poter annientare Adidas ed estrometterla dal mercato delle scarpe da basket per l’NBA, approfittando del difficile periodo della rivale per pubblicizzare i suoi prodotti come i migliori del momento. È forse un concetto spietato, ma dopotutto le leggi del mercato non guardano in faccia nessuno. Fra gli impiegati più feroci e determinati a vincere questa sneaker war, questa guerra fra colossi, c’è anche Rob Strasser,  che nelle comunicazioni interne all’azienda non pronuncia mai il nome Adidas, ma si riferisce a loro chiamandoli semplicemente “i tedeschi”. Il manager è talmente spietato che a un certo punto si trasferisce per un breve periodo in Olanda, vivendo praticamente di fronte alla porta di casa dell’azienda rivale.

“Non possiamo attaccare direttamente Adidas nel loro mercato domestico”, scrive in una nota per il fondatore Phil Knight. “Non possiamo nemmeno affrontarli ovunque nello stesso momento. Non ora.”

Piuttosto, lo Swoosh può affrontare questa battaglia con un metodo guerrilla in ogni paese, ovvero adottando una strategia via via sempre più aggressiva per rubare fette di mercato anche in nazioni che non si chiamino esclusivamente Stati Uniti d’America.

Con il trascorrere degli anni, però, la joie de guerre di Strasser perde lentamente di intensità. Gli impegni societari spuntano da ogni dove e lui è impelagato nella marea di lavoro che la notorietà del brand Nike ora comporta. Non ha più tempo per sviluppare nuove idee, si sente esasperato, imprigionato in una macchina perfetta che ha contribuito a collaudare, ma sulla quale non sente di avere il pieno controllo quando è seduto al posto di guida. Non la sente più sua. Lui e Phil Knight vedono ora le cose in modo diverso, e più il tempo passa, più si fanno numerose le divergenze.

“Si sentiva come se non dovesse più prendere ordini da nessuno, me compreso, in particolare. Ci scontrammo troppe volte, e lui se ne andò”, scriverà Knight nella sua autobiografia “Shoe Dog: A Memoir by the Creator of Nike”.

Accade improvvisamente, senza lasciare troppe spiegazioni: nel 1987 Strasser chiude i rapporti con il fondatore di Nike, allontanandosi per sempre dall’azienda. Non è il solo ad andarsene. Il manager porta infatti con sé Peter Moore, un nome che vi abbiamo chiesto di tenere bene a mente nella prima puntata di NBA Wars: Nike vs. Adidas: il perché lo scoprirete fra poche righe. Moore è il designer che venne assunto dallo stesso Rob Strasser nel 1977, insieme a Sonny Vaccaro, e che progettò le Air Jordan I per Michael Jordan. Insomma, fino a quel momento è stato un elemento chiave per l’azienda di Knight, il quale ora si sente tradito da entrambi per la scelta, tanto che deciderà di non rivolgere parola a Strasser per qualche tempo.

“L’ego di Rob era grande quanto quello di Nike stessa”, dirà Peter Moore in un’intervista del 2016 a Monthly Portland. “Amava i problemi, gli piaceva risolverli. Quindi che problemi rimanevano a Nike, che in quel momento era diventato un brand riconosciuto almeno quanto Coca-Cola?”

“Le persone talentuose e intelligenti come lui non sono mai sazie. Sono come grandi pittori riluttanti a vendere qualcosa perché il lavoro non sembra mai essere finito per davvero. Avevamo, e sapevamo di averlo fatto, messo Nike nella condizione di avere un successo enorme, l’avevamo messa su un percorso ben definito. Ma volevamo continuare a fare cose diverse, completamente nuove.”

Appena dopo aver lasciato a piedi Knight, Moore e Strasser fondano la loro personale società di consulenza, chiamandola Sports Inc. Nei due anni successivi i due lavoreranno intensamente allo sviluppo di nuove idee e nuovi brand, come una linea di scarpe chiamata Van Grack. Addirittura, si vocifera che abbiano provato a sottrarre Jordan a Nike.

“Penso che Rob volesse tornare fra i pezzi grossi, rimettersi in gioco. Le limousine, lavorare con i migliori atleti, gli enormi budget per le operazioni di marketing, le negoziazioni. Tutte queste cose erano come una droga”, ricorderà Moore.

L’occasione per farlo non tarda ad arrivare. È l’estate del 1989, e il telefono di Strasser suona: dall’altra parte ci sono i tedeschi, i nemici giurati. Lo vogliono incontrare. È una chiamata del tutto inaspettata, ma Bernard Tapie, il nuovo proprietario di Adidas, ha un bisogno disperato del loro aiuto per salvare l’azienda. Sono passati appena due anni dall’addio a Knight, nemmeno cinque da quando Jordan è stato convinto a firmare per lo Swoosh invece che per Adidas. Le cose in cui crediamo nella vita, così come i nostri valori e i nostri pensieri, possono cambiare velocemente se visti con un orizzonte temporale o una mentalità diversi. Quando alcuni di questi pensieri vengono tenuti nascosti e dormienti in un angolo della mente per troppo tempo è logico crederlo, tanto che i nemici giurati possono diventare alleati nel giro di poco. È proprio questo che accade all’ex manager di Nike, che accetta l’incontro. La cosa non va affatto giù a Phil Knight, che per tutta risposta non parlerà più con Strasser per il resto della sua vita.

Peter Moore oggi ha 78 anni. Entrò in Nike nel 1977, a 35 anni, per poi lasciarla esattamente una decade dopo insieme a Rob Strasser. (Credits to pdxmag.com)

 

Alto tradimento

Quando Strasser, sua moglie e Peter Moore atterrano a Monaco è una fredda mattina di autunno. Dall’aeroporto, i tre guidano nella sperduta campagna bavarese, avvolta da talmente tanta nebbia che non si riesce nemmeno a intravedere l’orizzonte della strada. Arrivano a Herzogenaurach, una cittadina dal nome piuttosto complicato che in realtà è il posto in cui nacque Adi Dassler, e il luogo in cui ha sede il quartiere generale della multinazionale. Con così poca visibilità, però, non riescono a orientarsi: le case sono così diverse da quelle americane che non riescono a distinguerle. Poi, mentre avanzano sulla strada indicata dalla cartina geografica, la vedono lentamente apparire fra la foschia, proprio di fronte a loro: una gigantesca struttura monolitica, in cima alla quale è posta un’insegna luminosa di colore blu, raffigurante un trifoglio, il simbolo di Adidas. Sarà l’aspetto spoglio dell’edificio o semplicemente la nebbia, ma più che la sede di una multinazionale sembra un covo dell’Unione Sovietica.

“Oh, cazzo. Stiamo perdendo tempo, andiamocene da qui”, esclama spaventato Peter Moore.

Il trio, però, non se ne va, e anzi, cenerà con l’Amministratore Delegato Bernard Tapie e altri manager della compagnia. La serata procede in modo piacevole, fra più di un bicchiere di vino e qualche bistecca, ma Moore si sente ancora perplesso sul perché della chiamata. Ci deve essere qualcosa di losco sotto: dopotutto, lui e Strasser hanno condotto Nike nella loro personale crociata contro Adidas, di fatto mettendo fine alla sua presenza dominante nella pallacanestro americana. Moore confessa le sue perplessità a un manager lì presente.

“Senza offesa, ma per una decade il nostro obiettivo è stato quello di prendervi a calci in culo.”

“Ma, Peter”, risponde gentilmente l’uomo, “voi ci avete esattamente preso a calci in culo. È per questo motivo che vi trovate qui.”

Il mattino seguente, Moore fa visita al museo della ex rivale, un concentrato di storia dello sport raccontato attraverso l’abbigliamento sportivo: le scarpe indossate da Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino nel 1936, i guantoni di Muhammad Ali, le scarpe indossate da diverse nazionali di calcio. Fra tutti quei cimeli, il designer realizza una cosa tanto semplice quanto inconcepibile: Adi Dassler è sostanzialmente stato il padre dell’intera industria sportiva, non solo di quella relativa alle scarpe da basket. Come è possibile che ora Adidas si trovi a un passo dalla bancarotta? Forse lui e Strasser possono davvero essere d’aiuto, in fin dei conti.

“Equipment” è il nome in codice che Strasser e Moore danno al nuovo progetto, ovvero quello di riportare Adidas agli antichi (ma nemmeno così lontani) fasti. L’idea risiede proprio nell’essenzialità del nome: ridurre il numero di prodotti, limitarsi al minimo, abbandonare le nuove scarpe dai mille colori per cercare di inseguire Nike e ritornare alle origini, prendendo a esempio i prodotti storici del brand tedesco. In altre parole, ridurre Adidas all’osso, in modo tale che tutti riconoscano l’iconicità che tanto aveva caratterizzato l’azienda fino a pochi anni prima. Inoltre, Strasser chiede ai suoi nuovi collaboratori di cambiare il logo, abbandonando il trifoglio per sostituirlo con tre righe di colore nero poste in senso diagonale. Non finisce qui: l’ex dirigente Nike chiede anche che il quartier generale della divisione americana venga spostato dal New Jersey a Portland. Forse, dopotutto, Strasser non ha dimenticato la città che l’ha portato al successo.

Rob Strasser (sulla sinistra) in un incontro all’aperto con alcuni dirigenti Adidas nel 1990. (Credits to pdxmonthly.com)

 

Un drammatico salvataggio

Sotto la gestione di Rob Strasser e Peter Moore, la divisione americana ritrova incredibilmente la retta via, nonostante quella europea, di contro, viva diversi problemi societari e cambi di proprietà a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. Si può anche dire che Rob Strasser sia finalmente tornato fra i pesci grossi, con nuovi stimoli e nuove idee. Fra il 1989 e il 1993 lavora senza sosta, trascorrendo tutto il giorno e a volte anche la notte a leggere pagine e pagine di fax che arrivano a Portland dalla Germania. Non si ferma mai, e le volte in cui lo fa è seduto a un tavolo a mangiare o a bere con il suo team. Ripetete il processo un centinaio di volte, e mischiatelo con lo stress da ufficio, i viaggi e il fatto che la sua vita non preveda il minimo esercizio fisico.

“Rob sapeva di avere un problema con il proprio peso, ma non poteva o forse non voleva cambiare il suo stile di vita”, dirà Peter Moore. “Ad altri piaceva dire: ‘vive la vita che vuole vivere’.

È fine estate 1993, e il team della divisione americana di Adidas si trova riunito in una sala conferenze nel resort di Sonthofen, nella Germania del sud, quando Strasser si gira verso un collega con un’espressione al limite fra il dolore e il terrore. “Credo che mi stia succedendo qualcosa qui”, ha il tempo di dire toccandosi il petto. Poi viene chiamata un’ambulanza, che lo porta a una clinica vicina. Pochi giorni dopo, un elicottero lo trasporta a Monaco, dove i cardiologi non sanno dire con precisione cosa stia effettivamente succedendo al cuore di Strasser. La sua stazza rende ogni diagnosi complicata, anche se si teme per un attacco cardiaco preso comunque in tempo. Rimesso in sesto, all’ex dirigente Nike viene permesso di tornare negli Stati Uniti per i relativi trattamenti, e chiama Moore per rassicurarlo sulle sue condizioni, comunicandogli addirittura che avrebbe cambiato stile di vita da quel momento. Ma è troppo tardi: le sue condizioni tornano a complicarsi dopo pochi giorni. Rob Strasser muore il 30 ottobre 1993, a 46 anni, e migliaia di persone assistono al memoriale allestito alla University of Portland. Phil Knight non si presenta nemmeno.

Nonostante la grave perdita, Adidas si trova comunque sulla buona strada, quella tracciata da Moore e Strasser. Il fatturato dell’azienda passa dai 250 milioni di dollari nel 1991 al 1,6 miliardi nel 1997: un balzo di quasi un miliardo e mezzo di dollari in appena sei anni. Non solo: Adidas ha modo di mettere sotto contratto la giovane matricola Kobe Bryant nel 1996. È uno dei pochissimi giocatori ad aver saltato il college, rendendosi eleggibile per l’NBA direttamente dalla high school. Ai più è un nome del tutto sconosciuto, ma non agli scout Adidas, che hanno il merito di essere fra i primi a intuire l’enorme potenziale del futuro cinque volte campione NBA.

 

Kobe Bryant allo Slam Dunk Contest del 1997: mentre schiaccia a canestro indossa un paio di Adidas EQT Elevation. (Credits: marca.com)

Siamo giunti alla conclusione del terzo episodio di NBA Wars: Nike vs. Adidas, e come per le due puntate precedenti lasciamo l’ultimo paragrafo per alcune considerazioni finali sul ruolo che ha avuto Rob Strasser in questa rivalità. La sua è una figura non molto conosciuta fra coloro che non siano veri e propri aficionados della rivalità fra Nike e Adidas. Eppure, il suo ruolo è stato fondamentale per le  due aziende. Forse è proprio per questo motivo che non viene ricordato volentieri: non riesce ad appartenere alla storia di una sola di loro, ma a entrambe le rivali. Con Adidas si trattò di rivitalizzare un brand, davvero a un passo dalla bancarotta. Gli obiettivi raggiunti con Nike possono invece essere rimasti in ombra, se non addirittura ridimensionati, perché dopo il suo addio e il suo passaggio alla compagnia tedesca è stato, e lo è tuttora, considerato un traditore. Proprio su questo, Knight ha scritto una frase semplice, ma piuttosto efficace nel suo libro:

“Mi sarebbe stato bene se avesse semplicemente smesso di lavorare per la nostra azienda. Poi però ha lavorato per Adidas, un tradimento intollerabile. Non l’ho mai perdonato.”

Nonostante questo, Peter Moore ha dichiarato di aver sempre avuto il sospetto che se Knight avesse chiamato Strasser per fare pace o viceversa, i due sarebbero potuti tornare a lavorare insieme. Siccome tutto ciò non è successo, però, a Moore piace pensare che ovunque si trovi ora, Strasser stia indossando una scarpa Nike in un piede e una Adidas nell’altro.

 

Nel prossimo episodio

In questa puntata abbiamo visto la caduta e la risalita del colosso tedesco, che sul finire degli anni ’90 può dirsi sana e salva, con la minaccia della bancarotta alle spalle. Con Kobe Bryant le cose sembrano finalmente tornare a girare per il verso giusto, ma non sarà così: nel prossimo episodio, che sarà l’ultimo della serie Nike vs. Adidas, vedremo nel dettaglio la nascita del rapporto fra Kobe e Adidas, e come successivamente qualcosa si romperà nel rapporto per una questione ben specifica. D’altro canto, vedremo come Adidas si prenderà una rivincita piuttosto importante, acquisendo i diritti di produzione delle divise da gioco della NBA, con la rivalità che si sposterà proprio sul piano dell’abbigliamento negli anni 2010. Insomma, ci saranno molte cose da raccontare nell’ultimo episodio, e a noi non resta che darvi appuntamento a martedì prossimo per scoprirle tutte.

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Pubblicato da
Andrea Capiluppi

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