Nel corso della sua ricca carriera NBA, che lo ha visto vincere due titoli MVP nel 2005 e nel 2006, Steve Nash ha avuto l’opportunità di lavorare fianco a fianco con Goran Dragic per tre anni, dal 2008 al 2011, ai Phoenix Suns. I due giocatori hanno ovviamente mantenuto un legame abbastanza forte, tanto che alla partita d’addio al basket dello stesso Goran, si è presentato anche il canadese, il quale ha poi parlato del suo futuro all’interno del mondo della pallacanestro.
NBA, Steve Nash interrompe la carriera da coach: le sue dichiarazioni
Il giocatore più forte nella storia del Canada ha quindi fatto il punto della situazione, dopo la sua ultima esperienza sulla panchina di Brooklyn datata ormai un paio di anni fa:
“Allenare è stata una grande esperienza, ma non volevo diventare allenatore e non credo che sia quella la mia carriera. Sto allenando i miei figli, insegnando loro la vita. Mi sono guadagnato l’opportunità di scegliere, e questo è gratificante: ci sono sempre progetti, affiliazioni e partnership. Ho sempre qualcosa da fare, sono concentrato sulla mia famiglia.”
Quindi, tornando sulla sua avventura ai Nets:
“Non avevo pianificato di allenare, c’era una situazione unica a Brooklyn che ha bussato alla mia porta. È stata una transizione rapida. Hai a che fare con una dinamica diversa. Ci sono molte cose da gestire tra personalità, front office, giocatori e agenti. Quella è stata una componente enorme del mio lavoro: tutte le dinamiche, le personalità e il potere che i giocatori detengono al giorno d’oggi. La cosa più importante è che, per essere onesti con i giocatori, devi arrivare a loro in modi diversi. È importante essere chiari e onesti con i giocatori in modo che non siano insicuri. La comunicazione è la chiave. La parte facile per me è stata essere a mio agio con il mio ruolo di leadership, dare l’esempio. Ciò che è difficile dal punto di vista del coaching è che è un tipo di leadership completamente diverso. Quando stai allenando devi guidare in momenti più brevi: una cosa che mi ha sorpreso è che non sei così tanto a contatto con la squadra. Hai cinque minuti con i giocatori prima della partita, all’intervallo e dopo la partita. Quelle sono le uniche volte in cui ti rivolgi alla squadra al suo completo. Io volevo connettermi con ogni giocatore individualmente. È importante costruire una cultura e un ambiente in cui le persone credano e si sentano di poter dare il meglio. Devi fare in modo che diventino la miglior versione di loro stessi”
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