Ventotto Febbraio 2015, proprio oggi, negli USA, andrà in onda il documentario tanto atteso che parla della storia di Kobe Bryant, intitolato “Muse“, dove il pubblico potrà visionare tutta la carriera di uno dei giocatori più famosi dell’intera era NBA. Dalla high-school, passando alla lega professionistica, vivendo l’accusa di strupro, arrivando ai tanti titoli vinti in maglia gialloviola, senza scordarsi di tutti gli infortuni che non gli hanno permesso di scendere in campo al top della forma in queste ultime stagioni. Il documentario era pronto già un anno fa e Kobe, in veste di executive producer, lo ha visionato. Non gli è piaciuto, e sappiamo tutti che se una cosa non viene apprezzata dal Black Mamba bisogna rifarla, completamente, da capo. Esattamente come è successo con il suo docufilm.
Proprio per il lancio del suo documentario, USA today ha avuto l’occasione di intervistarlo per parlare di qualcosa di più che non sia solamente la pallacanestro, perchè anche Kobe sa che dopo il basket dovrà inventarsi una nuova carriera. La prima volta che ha pensato a questo si trovava a Milano, circa 10 anni fa:
“Ero milano ed ebbi il piacere di cenare con Giorgio Armani. Ero incuriosito dalle dinamiche che lo hanno portato ad aprire la sua azienda e come ha affrontato il processo di crescita. Lui mi ha rivelato che ha aperto Armani quando aveva 40 anni e in quel momento mi sono sentito impaurito perchè una carriera nel mondo della pallacanestro finisce a 35, 36 anni e sei fortunato. Ma poi, cosa sarei andato a fare?
Da quel momento, quindi, ho iniziato a pensare ciò che avrei veramente potuto fare nella post-carroera ed ho pensato allo storytelling. Magari, pensavo, mi piacerebbe anche essere un copy-writer, o forse un art director. O tante altre cose di questo tipo. Mi ci sono voluti 15 anni per capire fino in fondo cosa volessi fare. Per prima cosa cercavo di capire quale potesse essere il mercato migliore dove poter entrare, come avrei potuto fare miliardi di dollari? Ma poi pensai ‘ ca**o, hai iniziato a giocare a pallacanestro perchè l’amavi e ti piaceva, non perchè volevi essere milionario, ma solo perchè amavi giocarci. Quindi, Kobe, cosa ti piace fare che non sia il basket? ‘
Mi risposi, ‘ mi piace raccontare storie che possano ispirare la gente, lo storytelling muove le montagne’. Quindi ecco, non mi interessa di che tipo di storytelling si tratti, che sia sportivo o altro, o a chi sia rivolto, lo storytelling è una forza trainate del mondo e per me rappresenta la ragione per la quale sono qui oggi a presentare il mio documentario. Nella mia vita ho guardato tanti documentari dei giocatori del passato e grazie ad essi ho imparato e capito le loro filosofie di gioco e di pensiero facendomi diventare ciò che sono. Io voglio avere lo stesso effetto nei giovani di oggi che guarderanno il mio documentario.”
DOMANDA: Una delle cose che più mi colpisce è l’idea che forse c’è un effetto a catena legato al tuo essere cosi aperto come visto nel documentario. E’ come se levasse un po’ di mistero, spigando chi sei e come sei. Ma visto che ancora non hai smesso di giocare, c’è una parte di te che crede che questa cosa possa essere d’aiuto quando si tratta di convincere altri giocatori ad unirsi a te (ai Lakers)?
Kobe: Coloro che mi capiscono sono i ragazzi che sono cresciuti vedendomi giocare, così come io sono cresciuto vedendo Jordan e Magic. Quelli che non capiscono chi sono, non capiscono cosa significhi guidare una organizzazione al livello successivo, al migliore. Porta un sacco di responsabilità e tu devi essere in grado di sapere che a non puoi piacere a tutti, così come me è Kyrie Irving, James Harden, Russel Westbrook, quella generazione di giocatori che parlano la mia stessa lingua. Loro sono cresciuti con la mia filosofia. Loro sanno chi sono e chi viene a giocare ai Lakers lo fa perchè tutti sanno che questa è una delle franchigie migliori.
Certo poi i fatti sono i fatti ed il salary cap è il salary cap. I giocatori non rinunceranno a milioni e milioni di dollari due volte per venire qua a giocare solo per il fatto che i Lakers sono i Lakers, non sarebbe una visione realistica. Aspettarsi che LeBron venga qui tagliandosi nuovamente l’ingaggio (come poteva succedere l’estate scorsa) dopo aver rinunciato già una volta ad una grossa fetta di stipendio (a Miami), non è realistico. Così come non è realistico vedere Melo rinunciare a 15-20 milioni di dollari. Quindi sì, ora abbiamo restrizioni economiche ma cercheremo di capire come convincere i giocatori a venire qua.
DOMANDA: in un sacco di tue interviste del passato ho sentito dirti la parola DNA. Oggi ci sono meno giocatori col tuo tipo di DNA rispetto a quando sei arrivato per la prima volta in NBA?
Assolutamente sì.
DOMANDA: Perché?
Posso solo immaginare il perchè, ma ai miei tempi era completamente normale essere competitivo e voler essere migliore di tutti gli altri. Io, quando ero giovane, cercavo di essere migliore di Tim Tomas e lui voleva esserlo con me. Quella era una cosa normale, mentre ora si prende tutto con meno aggressività e con più passività pensando dell’altro ‘ no, non sto cercando di essere migliore di te , tu sei veramente forte.’ Magic e Isiah Thomas erano ottimi amici ma ognuno di loro voleva ciò che l’altro aveva.
DOMANDA: In passato hai dichiarato che l’All Star Game dovrebbe essere giocato in un altro modo.
Certo, vai indietro al 1988 o al 1989. Quei ragazzi erano in competizione. Cercavano di vincere. E io ho sempre provato a fare lo stesso come quando ho affrontato Vince Carter e Dwyane Wade negli All-Star Game del passato, loro sapevano che avrei giocato seriamente. Speriamo che i prossimi possano tornare ai livelli competitivi del passato.
DOMANDA: Uno che tu chiaramente non pensavi avesse il giusto DNA era Dwight Howard. Ho sempre sentito che tu, nella free agency del 2013, gli dicesti che sarebbe potuto essere il leader dei Lakers del futuro in 3-4 anni, nel momento in cui ti saresti ritirato. E’ vero?
E’ molto semplice. Non si tratta di 3 o 4 anni. Per me si trattava di assicurare ai Lakers la persona giusta per mantenere questa franchigia ad alti livelli. Ho provato a insegnare a Dwight tutto ciò e a mostrargli cosa comporterebbe o come farlo. Ma la realtà è che la percezione di una squadra che vince il campionato è quella di un gruppo unito, dove tutti sono amici, e credo che questa fosse la sua percezione. Ma quando ha visto che la realtà è diversa non è più sembrato a suo agio ed è molto difficile uscirne e superare questo tipo di sfida.
DOMANDA: Ma c’era una parte di te che era preoccupata dal fatto che la vostra convivenza potesse essere forzata più a lungo?
No, ho sempre detto ai dirigenti che io posso solo esprimere le mie opinioni ma le decisioni finali spettano a loro dopo tutto ciò che han fatto per me nell’arco della mia carriera. Lavorerò sempre con qualsiasi giocatore che firmerà con i Lakers.
DOMANDA: Nel tuo documentario parli molto spesso delle tue ispirazione e di come sei diventato un giocatore aggressivo. C’è mai stato un tempo in cui hai capito che dovevi cambiare il tuo carattere per evitare conflitti o per cercare un compromesso?
C’è un ottimo capitolo nel documentario che si chiama “Black Hat” e che parla di equilibrio. A volte posso essere cattivo con gli altri, a volte posso essere simpatico. Essere un leader è l’arte di provare a trovare un equilibrio tra le due cose, trovare il giusto temperamento per ognuno dei giocatori della tua squadra e capire di cosa han bisogno in quel preciso momento. Tutto ciò richiede una grande attenzione a ciò che ti circonda. Nel 2008, 2009 e 2010 ho imparato a preoccuparmi più dei miei compagni di squadra rispetto, a capire in che stato morale si trovassero, mentre prima mi preoccupavo più di me stesso e a che punto fossi nella mia carriera e come raggiungere i risultati. C’è una grossa differenza tra le due cose, perchè una volta che apri gli occhi e ti guardi attorno cominci a capire le cose che servono e tutto diventa più facile, come facile fu capire ciò di cui aveva bisogno in quel momento Pau, o ciò di cui aveva bisogno Lamar. Bisogna aprire gli occhi.
DOMANDA: Torniamo alla tua passione dello storytelling, non sapevo ti piacesse. Da dove nasce questa passione?
Mi è sempre piaciuta. Alle superiori avevo una ottima insegnante di Speaking Arts. Ci sfidava e spronava a creare storie ed a condividerle coi propri compagni, questa cosa mi piaceva. Quando arrivai nella NBA cominciai ad essere curioso su tutto ciò che concerne il processo commerciale e pubblicitario e come certe pubblicità potessero suscitare emozioni forti. Così sono arrivato a creare una mia azienda pubblicitaria, la Zambezi Media.
Ecco da dove arriva la Zambezia Media. Successivamente ho cominciato a scrivere i miei testi pubblicitari e firmai con la Nike. Ho imparato a formulare la storia di una campagna pubblicitaria e di raccontarla attraverso il prodotto finale. I nostri prodotti hanno una storia, ognuno di loro, dall’inizio alla fine.
DOMANDA: Ad inizio stagione ci siamo visti e parlammo del fatto che in molti ti davano come partente per il fatto che i Lakers non stanno andando bene in queste ultime stagioni.
Non è una cosa che faccio. Bisogna prendere i brutti periodi e ricordarsi di quelli belli. Non puoi chiedere di essere un leader di una franchigia e poi, appena vanno male le cose, dire ‘ ok, grazie di tutto, me ne vado’.
DOMANDA: Un paio di domande scollegate da qualsiasi logica ora. In passato hai parlato della tua curiosità e del fatto che tu solitamente telefoni a persone potenti per imparare qualcosa da loro. Chi è l’ultima persona che hai chiamato tra di esse?
Anna Wintour, l’editore di Vogue.
DOMANDA: Via email o telefono?
Via email, abbiamo scambiato delle email.
DOMANDA: Perchè proprio lei?
Lei ha una grande reputazione nel suo mondo editoriale che è simile alla mia, entrambe ispiriamo la gente e guidiamo un gruppo. Ero molto curioso di capire come ha fatto a creare una cultura di eccellenza, di glamour, nelle sue pubblicazione e di come ha saputo mantenere un alto livello di confidenza nel farlo anno dopo anno. E’ molto divertente perchè molte delle persone che ho contattato alla mia domanda “come hai fatto a fare tutto ciò” rispondo sempre con un secco “non lo so.
Sai Sam, non c’è molta differenza tra Anna Wintour, Phil Jackson, Steve Jobs e me. La fame è la stessa seppur in campi diversi. Ciò che ci accomuna è la sete di imparare di più e di sentire di poter fare di più, ed essere brutalmente onesti e critici nei confronti di noi stessi, che è molto difficile da fare. E’ facile, e fa parte della natura umana, dare la colpa agli altri dei propri errori, mentre è molto difficile valutare se stessi.
DOMANDA: Hai mantenuti i contatti con Odom dopo le sue ultime, brutte, vicissitudini? Come sta?
Sì, sta bene. Ho parlato con lui proprio nei periodi di maggiore difficoltà e penso che sia molto divertente pensare a come lo sport possa essere d’aiuto in questi momenti perchè è proprio grazie a ciò che abbiamo vissuto insieme ai Lakers che mi ha permesso di aiutarlo, raccontandogli una delle tante storie che abbiamo vissuto insieme, ricordandogli quel viaggio piuttosto che un altro dei tanti altri fatti insieme. Cerchiamo sempre, noi ex compagni di squadra, di sentirci appena possiamo. Io e Shannon (Brown) abbiamo cenato insieme proprio la notte scorsa. Quando vivi certe emozioni e vinci qualcosa come è la NBA non perdi mai il legame che si è creato.