Ci sono dei giorni speciali nella vita di tutti noi, dei momenti che diventano cruciali, attimi carichi di un significato che va al di là di quello che solitamente siamo abituati a vivere. I grandi campioni, in momenti come questi, riescono a dare il meglio, riescono a canalizzare la pressione verso l’unico vero obiettivo, vincere.
James Harden l’aveva segnato sul calendario il 20 Febbraio 2013, il giorno di Rocket-Thunder. Non tanto e non solo per il proprio passato, ma anche per tutto quello che ha preceduto la partita. Il miglior sesto uomo della passata stagione, dopo le note vicende contrattuali che l’hanno portato lontano dall’Oklahoma quest’estate, sapeva che le sfide contro i suoi ex compagni avrebbero avuto un sapore diverso. Se ne era accorto alla Chesapeake Energy Arena il 28 Novembre scorso, prima volta da avversario contro Durant e soci, in una partita dominata dai Thunder e da KD (37 per lui in quell’occasione), nella quale Harden non riuscì in alcun modo ad incidere (3-16 dal campo e un -17 di plus/minus che parla da solo). Il 29 Dicembre la storia non cambia. Stesso campo, stessi problemi (un po’ meglio, 25 punti con 10-22 al tiro, ma comunque partita sofferta) e purtroppo per i Rockets stesso risultato (124 a 94 per i padroni di casa).
Ancora una volta attorno all’idolo dei fan degli Houston Rockets aleggiava il solito spettro che lo accompagna dalle Finals dello scorso anno. Quello cioè di non saper tener testa alla pressione, di subire la partita nel momento in cui essa diventa importante, di non avere il carisma per essere leader. Se a questo aggiungiamo il fatto che dopo quella partita di Dicembre, dal 9 al 19 di Gennaio, nell’arco di un ciclo di 6 trasferte su 7 incontri ravvicinati, era arrivato uno 0-7 che aveva polverizzato tutto ciò che di buono i Rockets avevano costruito in stagione, per Harden, per la prima volta nell’arco della sua breve esperienza in Texas, era arrivato un momento davvero difficile da superare. Il banco di prova era di quelli importanti. Da uomo franchigia doveva farsi carico della squadra e di tutti i suoi problemi, cercando di traghettarla fuori da quella difficile situazione, rimettendola in carreggiata per la rincorsa finale ad un posto ai Playoff.
Visti i risultati di questo ultimo mese, sia personali che di squadra, direi che James ha superato il suo primo vero esame da leader, con la ciliegina finale della partitissima giocata questa notte contro i Thunder. Ma andiamo con ordine.
Nell’ultimo mese i Rockets hanno disputato 14 partite, di cui 13 giocate con il Barba in cabina di regia. In quegli incontri il record conseguito è stato di 9-4, utile a riportare Houston ad un record di 30-26 in stagione, che attualmente le garantisce l’accesso alla post season. I numeri del playmaker 23enne in questa striscia di partite sono mostruosi (peccato che nella stessa Lega giochi uno che fa 7 trentelli di fila con almeno il 60% al tiro, altrimenti si sarebbe parlato solo e soltanto di Harden).
28,5 punti di media con il 51% al tiro già sono cifre da All Star della Lega. Tira con un imbarazzante 46,4% da tre, senza sostanzialmente prendere conclusioni dagli angoli (notoriamente posizione dove si riceve uno scarico e si possono prendere tiri con più spazio, più vicini a canestro e di conseguenza con più alta percentuale). Se questo non vi basta aggiungete al tutto 6 rimbalzi e quasi 7 assist di media a partita (non a caso è arrivata anche la prima tripla doppia in carriera contro Charlotte). Non siete ancora convinti? Se analizziamo quelle che sono le Advanced Metrics, quelle statistiche ponderate in cui si da maggior valore al tiro da tre punti, la percentuale reale di Harden raggiunge il 58,6 e se teniamo conto anche dei tiri liberi (Harden è primo indiscusso della Lega per tentativi e per numero di liberi segnati) quel valore sale fino al 67,9%. Sostanzialmente 7 volte su 10, quando alza la mano per tirare, sono 2 punti a referto. Una sentenza.
Non a caso poco prima della pausa per l’All Star Weekend sua maestà Lebron James ha speso parole al miele per il campione dei Rockets, indicandolo senza se e senza ma come uno dei primissimi giocatori NBA, degno di “sedere” ad un ideale tavolo con coloro che compongono l’élite di questa meravigliosa Lega. Parole ed investitura importanti, coincisa anche con la prima convocazione all’All Star Game, giocato tra l’altro a Houston, portando dunque con sè tutti gli oneri e gli onori di essere il padrone di casa.
Davvero un momento meraviglioso per Harden che però sapeva di dover ancora dimostrare qualcosa per rendere indimenticabile l’ultimo mese. Quel circoletto rosso fatto sul calendario 10 settimane fa era ancora lì a ricordargli che Durant e Westbrook dopo l’All Star Game sarebbero rimasti in Texas, dovendo 2 giorni dopo giocare la gara contro i suoi Rockets. E James questa notte non ha tradito le aspettative.
La shot chart della partita è imbarazzante. Ha bombardato da fuori (7-8 da tre) ed ha attaccato con efficacia il ferro, mettendo a referto 46 meravigliosi punti, suo massimo in carriera. 6 assist, 8 rimbalzi e soprattutto soltanto 2 palle perse (3,7 quelle perse mediamente a partita, nota dolente della stagione del playmaker), giocando 44 minuti di altissima intensità e segnando i canestri decisivi negli ultimi minuti di partita. Percentuale reale che sale al 92,7 e che con i tiri liberi (11 su 12 a cronometro fermo) raggiunge vette del 94,7%. Mai partita fu più appropriata per essere accostata al termine “perfetta”.
Forse questa è stata la nottata della consacrazione di un giocatore che agli occhi di alcuni non rappresenta ancora uno dei massimi talenti del panorama NBA, oppure è soltanto un fuoco di paglia, una di quelle serate in cui tutto va per il verso giusto e che vanno contestualizzate tenendo conto di molti altri fattori. Secondo me (come sempre) la verità sta nel mezzo.
Sul sito NBA.com/Stat (da cui attingo costantemente tutti i dati e le cifre che riporto) alla pagina dedicata a James Harden c’è ancora la foto con la divisa degli Oklahoma City Thunder. Direi che, dopo la partita di questa notte, sia arrivata davvero l’ora di aggiornarla.