“Giocavamo contro i Lakers, eravamo all’overtime e sotto di un punto. Abbiamo il possesso con una ventina di secondi da giocare, così chiamo il timeout. Lo schema prevedeva che Cheeks palleggiasse e, ad un certo punto, Andrew avrebbe approfittato di un blocco per tirare. Sapevo che mi aveva sentito eppure, appena riprende il gioco, corre da Maurice, gli dice di dargli la palla e se la prende. Ero nero. Avevamo costruito un gioco e lui si era preso il pallone. Così il tempo trascorre, Andrew finalmente penetra. Non esagero quando dico che 3 Lakers lo circondano per stopparlo. Lui scocca il tiro sopra di loro, tabellone, canestro, gara finita. La sua giustificazione? ‘Coach, ho sentito quello che hai detto, ma dammi semplicemente la palla.’ Questo era Andrew.”
Parole e musica di Billy Cunningham, leggenda di Philadelphia sia da giocatore che da allenatore. Proprio nelle vesti di head coach dei Sixers ebbe a che fare con l’Andrew citato più volte nell’emblematico episodio della partita coi Los Angeles Lakers. L’Andrew in questione, uno dei giocatori più importanti, efficaci ma anche controversi di Phila degli anni’80, è Andrew Toney che oggi, 23 Novembre, compie 56 anni.
Figlio dell’Alabama dei tardi anni’50, il talento cestistico di Toney non gli fruttò le chiamate dei grandi college una volta finita la High School. Ciononostante, Andrew si fece notare con la non prestigiosissima maglia di University of Louisiana at Lafayette, con la quale chiuse tutti e 4 gli anni con almeno 20 punti di media. Così, al Draft 1980, venne selezionato alla posizione numero 8 dai Philadelphia 76ers, una delle corazzate della Eastern Conference ed eterna pretendente al titolo. In una squadra zeppa di stelle di primaria grandezza, come Doctor J Julius Erving, Toney si ritagliò da subito uno spazio importante, chiudendo in doppia cifra già nella stagione da rookie. Il sodalizio con i Sixers sarebbe durato per 8 anni, con momenti altissimi e bassissimi.
Bassino ma con un fisico estremamente compatto, Andrew Toney fu uno dei più prolifici innovatori nello spot di guardia tiratrice, facendo intravedere già tre decadi or sono di essere decisamente un precursore dei tempi. I difensori avevano a che fare con un giocatore esplosivo, capace di fulminare l’avversario con un letale primo passo in isolamento o di piazzare dei mortali jump-shots da distanze considerevoli. Come abbiamo visto dall’aneddoto iniziale, non gli mancava certo la fiducia nei propri mezzi, diventando, se possibile, ancora più devastante nelle gare in trasferta, innanzi al pubblico ostile. Non deve sorprendere, quindi, come fosse capace di elevare il proprio rendimento nelle gare di postseason.
Proprio ai Playoffs nacque e si consolidò il soprannome che avrebbe accompagnato Toney per il resto della sua vita: The Boston Strangler, con un famoso quanto macabro riferimento ad un serial killer degli anni’60. Il bianco-verde, agli occhi di Andrew, aveva lo stesso effetto del rosso per i tori. Già nella sua prima annata nella Lega si esaltò al cospetto del temibile Garden, segnando 35 punti in una gara di regular-season. Nella successiva serie delle Eastern Conference Finals, nonostante la sconfitta in gara-7, fu ancora un satanasso, soprattutto nelle partite disputate nel Massachusetts. Era nata una stella.
Anche nella stagione successiva le due squadre si incontrarono alla stessa altezza nei Playoffs. I Sixers si fecero rimontare per il secondo anno di seguito il vantaggio di 3-1 ma, a differenza di 12 mesi prima, non persero la testa e vinsero a Boston in gara-7 trascinati, manco a dirlo, da Toney, che ne mise 34 nella partita decisiva dopo averne piazzati 39 qualche giorno prima. Per i Celtics e relativi difensori era una vera e propria spina nel fianco. “Andrew ti faceva venire gli incubi quando sapevi di doverci giocare contro. Quando sono arrivato a Boston, ed era già The Strangler, avevo sentito dire di tutte queste storie su di lui. Mi erano stati dati tanti consigli su come marcarlo-essere fisico, appendersi, combatterlo e trattenerlo. Sulla mia pelle ho capito che era esattamente la maniera opposta di difendere su Andrew. Ho pensato che fosse meglio permettergli di andare dove voleva e cercare di farlo annoiare, perché ogni volta che era sfidato, o mentalmente o fisicamente, sembrava sempre rispondere presente.” Così Danny Ainge ricorda le tante sfide col numero 22 di Philadelphia. Sulla stessa lunghezza d’onda un altro veterano dei Celtics di allora, M.L.Carr :”Mi pronunci il suo nome e mi rovini la giornata, anche dopo tutti questi anni. Era il migliore quando si trattava di imbarazzare un difensore. Era una perdita di tempo cercare di marcarlo, perché sapeva pure passare la palla. Ho trovato un solo metodo per fermarlo. A palla lontana, sicuro che nessuno arbitro prestasse attenzione, gli davo un colpo di avambraccio in faccia.” Il terrore nel front-office di Boston era tale che, per prevenire o limitare i continui exploit di Toney, i Celtics pensarono bene di rinforzarsi tra i difensori in posizione di guardia acquisendo Dennis Johnson.
Le annate 1982-83 e 1983-84 sono state, probabilmente, le più felici ed importanti nella carriera del Boston Strangler. In ambedue venne selezionato per l’All Star Game ed a livello realizzativo si confermò uno dei big della Lega, sforando, nella seconda stagione in questione, i 20 punti di media. Nel 1983, però, arrivò la gioia più grande per Toney e compagni, il titolo NBA. Forti dell’arrivo di un certo Moses Malone, i Sixers si sbarazzarono con facilità di tutti gli avversari che incontrarono sul proprio cammino. Anche in Finale contro i Lakers Andrew fu decisivo, con il solito ventello d’ordinanza. Per Philadelphia, dopo tanti insuccessi, era arrivata la dolce ricompensa dalle frustranti sconfitte degli anni precedenti.
La stagione 1984-85 fu, per certi versi, l’ultima da protagonista di Andrew Toney. La sua importanza nella squadra nonché la sua forza erano state riconosciute anche dal neo-arrivato dal Draft, Charles Barkley. Altra ottima stagione realizzativa, qualche buona prestazione contro i soliti Celtics nei Playoffs, il tutto per un giocatore che, a soli 27 anni, sembrava nel pieno della maturità cestistica. Eppure nuvole nere avanzavano veloci all’orizzonte.
Per riassumere in una sola parola il prosieguo della carriera nella NBA di Toney possiamo usare un termine ben preciso: calvario. Le statistiche impietosamente indicano le partite giocate nei successivi 3 anni: 6, 52 e 29, condite ovviamente da cifre risibili. A tradirlo furono fastidiosissime fratture da stress ai piedi, che non si ristabilirono mai e lo costrinsero a giocare poco e male.
A complicare non poco la vicenda fu il management della squadra. I dottori della franchigia non furono in grado di individuare tali infortuni, contribuendo al peggioramento della situazione. La città intera si divise sulle reali condizioni del giocatore. Il proprietario di Phila, Harold Katz, intervenne in prima persona, attaccando Toney ed accusandolo apertamente di fingere per questioni contrattuali. Il rapporto tra i due si rovinò così tanto che l’owner invitò pubblicamente l’NBA ad effettuare controlli anti-droga su di Andrew. I risultati furono negativi, ma Toney decise che ne aveva abbastanza; all’inizio della stagione 1988-89 si ritirò, senza veder riconosciuti i giusti onori per quegli anni magnifici.
“L’intera città era divisa su quello che è successo ad Andrew Toney. E’ stata una triste, triste fine ad una grande carriera”. Ancora una volta facciamo nostre le parole di Cunningham nel ricordare un giocatore che, con dei piedi più sani, probabilmente sarebbe stato celebrato maggiormente per quanto mostrato sui parquet dei favolosi anni Ottanta.
Alessandro Scuto