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Hall of Famer

The Black Hole

Il nome di Kevin McHale è ben noto agli appassionati di pallacanestro NBA. La maggioranza lo riconoscerà, in un battito di ciglia, come l’allenatore degli Houston Rockets, franchigia in rampa di lancio e desiderosa di fare la voce grossa all’interno della Western Conference. Gli amanti della storia della Lega, insieme magari a qualche tifoso un po’ meno giovane, sanno bene, invece, che McHale è stato uno dei pezzi fondamentali dei grandi Boston Celtics degli anni’80, andando a formare con Larry Bird e Robert Parish una delle più devastanti front-line viste su di un parquet.

Di origini irlandesi e croate, Kevin nacque il 19 Dicembre 1957 ad Hibbing, nel Minnesota. Dotato di due gambe e di due braccia interminabili, il giovane McHale si mise subito in mostra nella locale High School, venendo eletto Mr.Basketball del suo stato. Al momento di andare al college, decise di rimanere fedele alle proprie origini, optando per la maglia dei Golden Gophers. Ne sarebbe uscito come il miglior giocatore nella storia dell’Ateneo.

Un’ala grande di quasi 2 metri e 10, rara combinazione di tecnica ed agilità, non poteva che fare gola a molti nella NBA. Anche Red Auerbach si era iscritto alla cerchia degli ammiratori di Kevin, e voleva far di tutto pur di portarlo nel Massachusetts. Fu così che, mettendo all’opera le sue grandi doti di geniale stratega, architettò uno scambio, andato ovviamente poi in porto, che ancora oggi viene ricordato come una delle più grandi rapine a mano armata nella storia della Lega. Sostanzialmente, Boston acquisì dai Golden State Warriors Robert Parish e la terza chiamata al Draft 1980, spesa appunto per McHale, in cambio della prima scelta, con la quale la franchigia californiana selezionò Joe Barry Carroll. I destini della pallacanestro americana erano stati appena cambiati in modo inequivocabile.

Il primo impatto di Kevin McHale con i Celtics non fu proprio da tramandare ai posteri. Per questioni contrattuali minacciò di non firmare con la squadra per andare a giocare addirittura in Italia. Il prodotto di Minnesota fu in procinto di accordarsi con l’Olimpia Milano di Dan Peterson, con un colpo che avrebbe, probabilmente, reso ingiocabili le competizioni europee negli anni a seguire. Arrivato nel capoluogo lombardo, solo all’ultimo il giocatore fu convinto da Auerbach, sotto forma di un contratto più remunerativo, ad iniziare l’avventura a Boston. Non se ne sarebbe certo pentito.

Già nella stagione da matricola, chiusa in doppia cifra di media e con la selezione nel primo quintetto dei rookies, il peso specifico di McHale si fece sentire all’interno di una formazione che cullava grandi sogni di gloria. Con Bird a condurre le danze, i bianco-verdi chiusero col miglior record della Lega. Ai Playoffs, tuttavia, nelle Finali di Conference si trovarono sotto 3-1 contro Philadelphia. Sfruttando ogni palla, con la grinta e con il cuore, Boston ribaltò la serie, vincendo alla settima, infuocata sfida. Kevin fu decisivo in gara-6, in trasferta, con la stoppata risolutiva sul tiro di Toney che avrebbe portato i Sixers alle NBA Finals. All’ultimo atto della stagione ci andarono invece i Celtics, che si sbarazzarono per 4-2 degli Houston Rockets di Moses Malone, laureandosi così campioni del mondo. Per McHale era arrivato il titolo al primo tentativo. Ne avrebbe conquistati altri negli anni a seguire.

In una squadra ambiziosa, ricca di grandi talenti in quasi tutti i reparti, il ruolo assegnato a Kevin fu chiaro sin dalla prima palla a due della sua carriera. Sarebbe stato il sesto uomo di lusso della franchigia più vincente nella storia della Lega. L’adattamento fu così efficace che il giocatore vinse due Sixth Man Award consecutivi, nel 1984 e nel 1985, a testimonianza del grandissimo contributo che forniva ogni qualvolta il suo nome veniva chiamato all'(ideale) cubo dei cambi. Con un utilizzo sempre attorno ai 30 minuti di media, McHale tassativamente rovesciava sugli avversari di turno punti e rimbalzi in quantità industriale, che si rivelavano poi strumentali alla causa bianco-verde.

Da un punto di vista tecnico, è quantomeno plausibile poter affermare che Kevin McHale abbia avuto il più devastante e completo gioco in post basso nella storia della Lega. Una volta presa posizione, era quasi impossibile poterlo fermare, a causa dell’impressionante varietà di movimenti: passi di incrocio, drop steps, fadeway, ganci, finte credibili e tanto tanto altro che procurava gli incubi ai suoi marcatori già dalla sera prima della partita. Lo stesso Kevin si riferiva alle sue attività in area come ad una Camera di tortura in cui rinchiudeva i malcapitati avversari. Dall’enorme prolificità di un gioco che ha fatto scuola è nato, per converso, il soprannome che lo ha accompagnato per tutta la carriera: The Black Hole, il Buco Nero. Coniato dal compagno Danny Ainge, si riferiva alla poca propensione al passaggio di McHale con il pallone tra le mani. Per fortuna dei Celtics, spesso ricompariva in fondo alle retine altrui.

Dopo due anni di astinenza, e dopo aver scongiurato un passaggio ai New York Knicks, Kevin si ripresentò alle NBA Finals del 1984 contro i Lakers dello Showtime. Magic, Kareem e compagni erano i favoriti d’obbligo, a maggior ragione dopo essersi portati sul 2-1 nella serie. Bird criticò aspramente i compagni, definendoli una manica di signorine, per usare un eufemismo, che non potevano avere speranze di vincere con un atteggiamento del genere. In gara-4, in un ambiente decisamente elettrico, i Celtics decisero di vender cara la pelle e di seguire l’esempio del loro Capitano. Fu così che McHale si rese protagonista del più celebre nonché orrendo fallo nella storia della NBA. Con Los Angeles impegnata nell’ennesimo contropiede, Kevin afferrò, al volo, il collo di Kurt Rambis facendolo cadere violentemente a terra. Col metro arbitrale di oggi avrebbe saltato una quantità considerevole di partite. Con quello di allora, se la cavò relativamente con poco. Di fatto, cambiò l’inerzia delle Finali, trascinandole verso una battaglia senza esclusione di colpi che avrebbe visto Boston prevalere al termine di sette infernali sfide. Era arrivato, quindi, il secondo titolo in quattro anni per il ragazzo del Minnesota, che iniziava anche farsi sempre meno amici tra le altre franchigie della Lega, a causa dello stile di gioco e della lingua biforcuta.

Il rapporto tra Bird e McHale è sempre stato oggetto di analisi dettagliate per capirne l’esatta consistenza. Larry aveva un enorme considerazione delle doti tecniche del compagno, ma ne lamentava, talvolta, l’impegno e l’applicazione, a suo dire non sempre costanti. Nonostante numeri e tecnica invidiabili, Kevin avrebbe potuto essere ancora più letale e devastante se solo avesse voluto, cosa che faceva perdere la testa al leader dei Celtics. Un’occasione, particolarmente famosa, testimonia quanto appena scritto. Complice l’infortunio di Maxwell, McHale si trovò proiettato nello starting five di Boston. Il 3 Marzo 1985, contro i Detroit Pistons, The Black Hole fu in serata di grazia, segnando ben 56 punti e stabilendo il record di franchigia per segnature su singola partita. Terminata la gara, mentre veniva festeggiato da tutti i compagni, Bird si avvicinò alla propria ala forte e, incredibilmente, lo rimproverò per aver sprecato canestri facili nel finale e, di conseguenza, l’occasione di allungare ulteriormente il proprio primato. Meno di dieci giorni dopo, tale record venne battuto. Il nuovo detentore? Ovviamente l’inimitabile baffetto col numero 33, che ne segnò 60 agli Atlanta Hawks, dimostrando a McHale la veridicità di quanto aveva sostenuto dopo la gara contro Detroit. Un marziano.

Dopo la sconfitta alle Finali del 1985 contro i Lakers, Kevin, ormai All Star fisso, venne promosso in pianta stabile nel quintetto base, accanto a Bird e Parish. Prima della Miami di queste annate, prima ancora, per restare nel Massachusetts, dei Celtics del 2008, c’è stata una ed una sola versione originale dei Big Three. In quella che è riconosciuta come una delle più grandi squadre di tutti i tempi, McHale si confermò, una volta di più, una delle colonne portanti della formazione. In quell’annata nessuno ebbe scampo contro il ciclone bianco-verde. L’ovvia conclusione fu il terzo titolo della Dinastia degli anni’80, battendo in 6 gare, ancora una volta, Houston e con il Black Hole miglior realizzatore della serie.

La stagione 1986-87 fu il canto del cigno per quello squadrone apparentemente imbattibile. Kevin disputò la miglior regular season a livello statistico, chiudendo con i career-high alla voce punti (26,1) e rimbalzi (9,9). Boston si presentò per la quarta volta consecutiva all’appuntamento con le Finals, ancora contro gli arci-rivali Los Angeles Lakers. Fu proprio all’ultimo atto conclusivo di quella stagione che il prezzo di uno stile di gioco così arrembante chiese il proprio tributo. Gli infortuni si fecero sentire sui Celtics in maniera quasi ossessiva. McHale si fratturò il piede, un problema serissimo che, tuttavia, non gli impedì di giocare 40 minuti a sera e non saltare manco una partita, L’estremo eroismo non impietosì gli Dei del Basket: bianco-verdi sconfitti in 6 gare e titolo ai giallo-viola. Non si sarebbero più incontrati per oltre 20 anni.

Gli ultimi anni della carriera di Kevin McHale sono stati costellati da parecchie noie fisiche che ne hanno limitato, con l’andar del tempo, il numero di volte in cui è stato efficace e produttivo. Le statistiche sono andate via via calando progressivamente, così come le vittorie dei Boston Celtics, ormai sopravanzati nelle gerarchie della Eastern Conference dai Detroit Pistons e dai Chicago Bulls. Nonostante estemporanei flashback o limitate settimane di dominio come ai bei tempi, la dinastia si era ormai esaurita. Dopo la sconfitta nel primo turno dei Playoffs nel 1993, The Black Hole decise che era giunto il momento della definitiva appesa delle scarpe al chiodo. Inevitabili il ritiro del suo numero 32 da parte della franchigia tanto amata e l’inclusione sia nella Hall of Fame sia nella lista dei 50 migliori giocatori di tutti i tempi.

Finita l’avventura sul parquet, McHale è tornato nel natio Minnesota, diventando, dopo la necessaria gavetta, General Manager dei Timberwolves. A lui si deve la scelta, nel 1995, di un giovane liceale di belle speranze, Kevin Garnett. Sulla panchina della franchigia decise di nominare il suo vecchio compagno di stanza al college, Flip Saunders, di gran lunga il coach più vincente nella storia della squadra. Il titolo tanto agognato non è tuttavia mai arrivato. Tante cocenti delusioni al primo turno, eccezion fatta per la Finale di Conference nel 2004, persa contro gli odiati Lakers. Nonostante avesse dichiarato in più occasioni di non essere interessato alla carriera di allenatore, per due volte (2004-05 e 2008-09), il proprietario dei Timberwolves ha scelto McHale come coach ad interim di formazioni mediocri che, comunque, lo stesso Kevin aveva contribuito in gran parte a plasmare.

Finito il lungo rapporto con Minnesota, per McHale sembrava prospettarsi una carriera all’interno degli studi televisivi dove, con la sua lingua lunga ma spesso divertente, avrebbe dato vita a grandi siparietti con un altro specialista del genere, nonché vecchio rivale, Charles Barkley. Dopo un solo anno di esperienza, tuttavia, con una mossa quasi a sorpresa Kevin è stato scelto come head coach degli Houston Rockets a partire dalla stagione 2011-12.

L’ultimo anno è stato parecchio tribolato per l’ex stella di Boston. Nel Novembre del 2012 ha perso una figlia, deceduta a causa del lupus; notizia delle ultime settimane è invece la scomparsa della madre. Ha in mano, ora, una squadra che può togliersi qualche soddisfazione, anche nella tremenda Western Conference. Il suo obbiettivo, non tanto nascosto, è quello di poter vincere il titolo NBA da allenatore, a maggior ragione dopo i lutti che lo hanno colpito nel corso degli ultimi 12 mesi. Così facendo, potrebbe anche riuscire laddove ha fallito Bird, che l’ha solo sfiorato con i Pacers nel 2000. E, almeno per una volta, il Black Hole potrebbe vantarsi col suo vecchio amico senza possibilità di essere smentito.

Alessandro Scuto

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